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8 DENTRO IL PROGETTO

Nel documento Design e identità. Progettare per i luoghi (pagine 125-129)

passata dall’essere una necessità produttiva al divenire linguaggio estetico omologante che condiziona il fare progettuale e il fare culturale. La seconda categoria, quella dell’invenzione, è invece conseguenza di una accelerazione sia del sistema della comunicazione (il design è oramai dappertutto e chiunque, attraverso la rete, può veicolare il proprio lavoro in una platea potenzialmente illimitata), sia della poplarità di una professione che conta ormai un numero di praticanti superiore perfino all’architettura. Per emergere, in un’offerta di progetto che supera di gran lunga la richiesta, sembra essere neces- sario alzare sempre di più il livello della provo- cazione, limitando le componenti funzionali per intaccare i territori dell’arte e della tecnologia. E d’altronde il design, nell’economia della so- vrapproduzione, è chiamato a far questo. Il de- sign (ma direi il cattivo design) deve catturare a prescindere dagli usi, dalle funzioni, dall’utilità delle cose e, per raggiungere un’utenza quo- tidianamente sovraccaricata di informazioni, deve alzare continuamente il livello della provo- cazione.

A tutto ciò vanno aggiunte le implicazioni, nel linguaggio della progettazione, derivanti dal modificarsi degli strumenti di rappresentazione con un incremento esponenziale del progetto organico conseguenza dell’utilizzo diffuso dei nuovi sistemi di modellazione tridimensionale virtuale.

Tutte queste pratiche e logiche non apparten- gono al progetto identitario nel quale semmai sembrano prevalere necessità opposte. Il pro-

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getto identitario è progetto della complessità, conseguenza dell’addizione di segni nel tempo, del virtuosismo degli artigiani, dell’apparato de- corativo, delle simbologie che gli oggetti devono veicolare. È un progetto nel quale l’innovazione non è fatta di grandi invenzioni che stravolgo- no l’identità ma di piccole e continue modifiche tese a migliorare, di volta in volta, l’aspetto, la funzionalità o l’estetica dell’oggetto.

La modernità procede in direzione opposta all’e- voluzione storica tendendo ogni volta a cancel-

lare quanto gia fatto per ripartire con una nuova trascrizione. “La modernità prevede mosse al di fuori dì un reticolo preordinato e anzi, proprio nell’essere fuori da un sistema già scritto, an- nuncia e riflette le trasformazioni e le contrad- dizioni di un mondo in evoluzione. Attraverso mosse sempre inedite rompe con il ‘già fatto’

e si pone, sempre, come ‘novità continua’, si fregia di originalità e ‘innovazione senza sosta’, ‘nuovo’ e ‘non prima visto’ divengono sinonimi di modernità. Nel mondo classico il termine ‘memoria’ e i suoi distillati culturali ‘tradizione’ e ‘continuità’ divengono termini fondamenta- li per descrivere procedimenti progettuali. (...) mentre lo sforzo del moderno è proprio nella rottura con quelle tradizioni, è nella volontà di porsi in termini nuovi rispetto a ciò che ci ha pre- ceduto, tanto che il termine memoria pare non

abbia più senso. Il progettista moderno, nel suo infinito desiderio di riessere il primo, il fondatore di nuovissimi e mai visti prima linguaggi, finisce per dichiararsi o somigliare ad uno ‘smemorato di Collegno’ vagante nel vuoto pneumatico del- la storia, affetto da un’amnesia totale che gli appare fertilissima”1. Per tutti questi motivi la Maurizio Duranti Credenza Fantesca

produzione Morelato

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DESIGN E IDENTIT À - PROGET T ARE PER I L UOGHI 127 tettura Wang Shu ha dimostrato come, attra- verso l’impiego di materiali e tecniche locali, si abbia una straordinaria capacità di reinventare il passato senza dover necessariamente ricorrere ad espliciti riferimenti formali, ma utilizzando sapientemente la forza evocativa della materia. In Italia i comparti produttivi caratterizzati dalla presenza di specifici materiali sono molti e dis- seminati per l’intero territorio nazionale. Ancora sviluppano una produttività per gran parte lega- ta a tipologie consolidate con pochi esempi di innovazione; esistono nel nostro paese circa un centinaio di distretti monoproduttivi all’interno dei quali operano 274.000 aziende2. Gran parte di questi sono espressione di una singola cultu- ra legata ad un materiale che rappresenta una sfida per il progetto. La missione del progetto identitario è quella di dare nuove espressioni alle materie, di costruire pratiche e linguaggi in grado di rivitalizzare culture la cui crisi è spes- so legata proprio ad una mancata immissione di cultura del progetto. Se pure il design abbia iniziato, a partire dagli anni Ottanta, a guardare ai territori e alle loro risorse con sempre mag- giore frequenza, molta strada deve esser ancora percorsa proprio partendo dalle esperienze pre- gresse. Penso ad esempio al lavoro svolto negli ultimi vent’anni per l’alabastro di Volterra che ha visto l’impegno di importanti designer3 nel tentativo di elaborare nuove tipologie e nuovi utilizzi per una cultura materiale legata per lo più ad un immaginario decorativo. Un interes- sante esempio del possible ruolo del design nella riscoperta di materiali locali è rappresen- tato da una mostra curata nel 2000 da Ugo La Pietra dal titolo “Colori Locali” all’interno della Mostra Internazionale dell’Artigianato presso la Fortezza da Basso di Firenze. In essa venivano esaminate, attraverso l’identificazione col colo- re dominante, alcune culture locali definite dalla progettazione identitaria è una progettazione

complessa che oscilla tra la necessità di “moder- nizzare” le tradizioni e il rischio di stravolgerne l’identità. Ci sono però alcune componenti dell’i- dentità che possono guidare il progetto dando ad esso la forza che deriva da un’’appartenenza’. Tali elementi che variano per ogni luogo posso- no essere i materiali, le tecniche, i linguaggi, le simbologie ma possono anche riguardare una contaminazione che rafforzi o rinnovi l’identità stessa. Sebbene questi stessi elementi siano per buona parte già stati affrontati in termini generali nel secondo capitolo (dove si definisco- no le componenti generali dell’identità), è bene ora analizzarne il ruolo all’interno del processo progettuale, al fine di definirne le modalità di in- serimento nel progetto contemporaneo.

Materiali

Tra gli elementi di connotazione identitaria i materiali giocano certamente un ruolo prima- rio. Ogni luogo esprime i propri materiali, siano essi minerali (le pietre, le terre, le acque) o bio- logici (le essenze legnose, le pelli degli animali, i prodotti della terra), e la diversità tra i luoghi è anche diversità delle risorse in essi contenu- te. Ci sono materiali che si identificano col luo- go (penso alla pietra di Lavagna o al marmo di Carrara) e luoghi che si identificano coi materiali (l’immagine di Siena rimanda implicitamente alla cultura del cotto). E i materiali di per sé non hanno tempo (con l’esclusione di alcuni materia- li artificiali espressione di conquiste tecnologi- che) né linguaggio. Il semplice uso di un mate- riale costruisce un rapporto solido con l’identità e l’esclusività del suo adattamento al luogo (è il territorio a definire le differenze costitutive o estetiche anche nell’ambito di uno stesso ma- teriale) garantisce una diversità non replicabile e quindi un antidoto all’omologazione. In archi-

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nato locale. Alcune interessanti esperienze in tal senso sono già state fatte rivelando un percorso totalmente da esplorare.

Il lavoro dei designer con i materiali può riguar- dare l’individuazione di nuove tipologie che sostituiscano modelli decaduti aprendo nuove strade per le culture produttive, la rilettura di tipologie consolidate (in tale direzione l’opera- zione di “modernizzazione” di una produzione che ha perso appetibilità nei mercati è un lavo- ro immenso da compiere) ma anche una inno- vazione sulle “caratteristiche”dei materiali che porti a migliorarne le proprietà allargandone gli usi. Un’operazione intrapresa sempre al’inter- no della cultura dell’alabastro di Volterra (una pietra difficilissima da adoperare perché perde la trasparenza col calore e assorbe i liquidi) ha portato, attraverso specifici trattamenti, ad un miglioramento delle qualità del materiale senza modificarne le caratteristiche estetiche. Un’in- novazione tecnologica che ha aperto la strada a nuovi inesplorati utilizzi. Da ultimo (e ne parlere- mo in maniera specifica nelle prossime pagine), un’innovazione nell’ottica di un rafforzamento delle specificità di un territorio, può essere svol- ta nella contaminazione tra materiali e quindi tra le diverse culture produttive presenti. Pen- siamo ad esempio a quanto un’identità toscana negli spazi esterni possa essere espressa dall’in- contro tra la pietra serena e il cotto di Imprune- ta o tra il travertino di Rapolano e il marmo di Carrara o ancora tra la pietra di Santafiora e la ceramica montelupina.

Tecniche

La specificità tecnica rappresenta ancora un mo- tivo di differenziazione tra le aree produttive. Se è vero che la modernità ha comportato una condivisione e una conseguente omologazione delle tecniche, è pur vero che ancora permane presenza di un materiale specifico. In quel caso

la pietra serena di Firenzuola, il marmo di Carra- ra, la pietra di Lavagna, la pietra piasentina, la pietra leccese, l’alabastro di Volterra, il bucchero umbro, il cotto di Impruneta, la pietra lavica. La mostra rivelava con sufficiente chiarezza quanto i materiali possano esprimere identità. I proget- ti dei vari autori (per ogni area un coordinatore aveva individuato i progettisti sulla base della conoscenza specifica del territorio produttivo) utilizzavano prevalentemente linguaggi con- temporanei di progetto (emerge ancora una vol- ta la necessità di un rinnovamento dei linguaggi) tuttavia il legame forte col luogo permaneva nel rapporto col materiale definendone una “diversi- tà” non indebolita dal rinnovamento tipologico o formale degli oggetti.

Il rapporto con le risorse locali, se nell’applica- zione all’universo degli oggetti può costituire un ambito di sviluppo per alcuni territori, trova certamente un ulteriore naturale approdo nella progettazione degli arredi della città costituen- do un antidoto all’omologazione degli spazi pub- blici. “Il maquillage urbano proposto dal design industriale, attraverso la moltiplicazione seriale di un’oggettistica standardizzata, come si trat- tasse di una merce qualsiasi, non ha relazioni né con il contesto né interpreta le reali esigenze (e anche i sogni) dei suoi abitanti. I segni nella cit- tà si riproducono all’infinito secondo una logica funzionalista che esclude dal processo di deci- sione i fruitori, primi fra tutti gli abitanti”4. Caratterizzare nuovamente le città partendo dalle risorse espresse dal terrirorio di apparte- nenza, e tra queste le materie che caratterizza- no le pavimentazioni, gli arredi, le architetture, è un’operazione che può contribuire al raffor- zamento della diversità (anche i centri urbani rivelano le conseguenze dell’omologazione dei linguaggi) e al contempo alimentare un artigia-

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DESIGN E IDENTIT À - PROGET T ARE PER I L UOGHI 129 una possibile specializzazione delle stesse che

passa attraverso una modificazione e persona- lizzazione delle macchine, una differente abilità nell’uso delle stesse, lo sviluppo di nuovi proces- si, l’invenzione di strumenti in grado di compiere nuove lavorazioni o le stesse lavorazioni in un differente modo. Tale possibilità è chiaramente differente a seconda del tipo di produzione a cui il progetto si rivolge (industriale o artigianale) e, nell’ambito di una stessa produzione, in rappor- to ad altri fattori quali le dimensioni dell’azien- da, l’impegno produttivo a cui è sottoposta, la predisposizione all’innovazione.

La specializzazione produttiva è spesso genera- ta da un legame stretto col territorio del quale utilizza conoscenze, materiali, maestranze. La fortuna del comparto fiorentino della pelletteria è in buona parte dovuta ad una filiera produtti- va locale e cioè alla capacità di alcune aziende metalmeccaniche (poste per lo più nel territo- rio compreso tra i comuni di Scandicci, Campi Bisenzio e Signa) di sviluppare macchinari che

rispondano ad esigenze specifiche poste dalle aziende del comparto. A loro volta tali aziende di produzione di macchinari devono la loro fles- sibilità nell’adattarsi alle richieste specifiche ad una impostazione produttiva a carattere preva- lentemente artigianale che le rende competiti- ve anche nei mercati esteri “... esiste un sapere profondo costruito nella pratica del fare: questo sapere e questa capacità di innovazione proce-

dono per ‘scarti’ improvvisi attraverso una capa- cità ricombinatoria che ha potenzialità superiori a quanto di solito ci si attende” (Micelli 2011). La possibilità del designer di incidere sul pro- cesso è strettamente legata alla sua conoscen- za “scientifica” dei sistemi di produzione, ma anche e soprattutto alla conoscenza “pratica” delle tecniche in uso nel sistema produttivo e quindi al saper cogliere le potenzialità del rap- porto uomo-macchina. Come la storia del design italiano ci insegna, sono state spesso le idee dei designer a spingere i produttori all’innovazione e l’abbandono di un fare consolidato ha guidato molte volte il successo delle aziende. Sebbene l’innovazione sia di per sé foriera di cambiamen- ti, questi possono avvenire all’interno di una continuità evolutiva. Lì dove i materiali, i deco- ri, gli usi non possono garantire una continuità identitaria, l’introduzione di innovazioni nei “modi di fare” le cose può generare una specia- lizzazione locale a rafforzamento dell’identità.

Linguaggi

Per quanto possa apparire errato parlare di lin- guaggi separandoli nell’analisi dalle tipologie e dall’apparato decorativo, tuttavia ritengo ne- cessario, quale apporto alla costruzione proget- tuale, sviluppare un ragionamento sul ruolo del linguaggio nello sviluppo degli oggetti.

Innanzitutto è necessario dare una definizione applicativa del termine linguaggio. Col termi-

“Noi designer siamo gli alchimisti che studiano il modo di tenere insieme un pezzo di le-

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