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agricola circostante, soprattutto per i forti lega- mi che gran parte della forza lavoro industriale manteneva con la famiglia contadina d’origine; inoltre molta parte dell’industria era ancora a mezzo tra artigianato, piccola impresa e lavoro a domicilio. Solo in alcuni settori più moderni le poche imprese che emersero nacquero già gran- di, per la presenza di economie di scala”1. Sin dagli esordi il sistema industriale mostrerà nel nostro paese alcune caratteristiche ricorren- ti: piccole dimensioni delle imprese, mancanza di innovazione (con un adeguamento all’inno- vazione sviluppata altrove), carattere familiare della gestione; tutti elementi che diventeranno costitutivi di una vera e propria diversità nel pa- norama economico europeo.

Una seconda importante espansione industriale si avrà nel periodo compreso tra le due guerre: “Negli anni successivi (1923-29) si verificò un periodo di crescita rapida e intensa (il tasso an- nuo medio di crescita del prodotto fu di oltre il 5%). Complessivamente nel periodo tra le due guerre mondiali, analogamente alle maggiori economie europee, la produzione dell’industria manifatturiera aumenterà di quasi 2/3... Anche l’industria ‘leggera’ progredì tecnologicamente e organizzativamente: ciò permise alle vecchie tradizioni artigianali di continuare a vivere e talora trasformarsi in piccola e media industria (nel campo dell’abbigliamento, del cuoio, del le- gno)”2. Sin dagli inizi del Novecento, in una fase di grande fermento creativo che caratterizza il passaggio alla modernità, si palesa il rischio di omologazione che deriva dalla produzione indu-

pagina a fronte Ugo La Pietra L’indovino - Artigiano: Nicolò Morales, Caltagirone

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striale. “Nell’Italia del primo dopoguerra si era sviluppato un acceso dibattito sulla necessità di migliorare la produzione di arti applicate, per battere una concorrenza straniera che si faceva sempre più pressante. Molti scorgevano nell’ar- te popolare la soluzione alla crisi del settore: bisognava che gli artisti collaborassero diretta- mente con gli artigiani, e che prendessero a mo- dello l’artigianato tradizionale delle varie regioni italiane. italiane”3. Con l’intento di verificare lo stato delle produzioni nazionali si promos- se a Firenze nella primavera del 1923 la Prima Esposizione Nazionale delle Piccole Industrie e dell’Artigianato, rassegna di prodotti che ancora conservano “qualche carattere regionale” e non hanno “per forma o natura loro un aspetto trop- po comune”4. A dispetto delle intenzioni pro- grammatiche l’esposizione palesa il primo vero abbandono di un rapporto col locale e raggruppa per la prima volta le produzioni per ambiti te- matici e non per regioni affiancando prodotti delle piccole industrie e dell’artigianato con lo scopo di far uscire le produzioni dal ristretto ambito localistico.

Il nascente regime fascista ebbe un ruolo con- tradditorio nelle trasformazioni in atto e da un lato sposò un’ideà di progresso che vedeva nell’industria il traguardo della modernizzazio- ne del paese, dall’altro, sotto il capello di una necessaria indipendenza economica, promos- se una rivalutazione delle specificità e delle produzioni autoctone. Le scelte autarchiche in ambito economico portarono allo sviluppo di alcune culture materiali la cui produzione era prevalentemente funzionale all’industria bellica e al contempo ad un rinnovato interesse verso il patrimonio etnografico di alcune regioni italiane e più in generale alla valorizzazione dell’artigia- nato tradizionale e delle risorse locali. Alcuni settori più di altri si avvantaggiarono del nuovo

Riccardo Dalisi - Gioielli sostenibili atteggiamento autarchico, che s’impegnava nella

promozione di quei prodotti di maggiore conno- tazione nazionale su cui era possibile far confluire sentimenti di orgoglio e di appartenenza. La costituzione nel 1925 dell’Ente Nazionale per le Piccole Industrie aveva l’obiettivo di operare a favore dell’industria. Tuttavia la constatazione di un territorio produttivo ancora a prevalente carattere artigianale costrinse sin da subito ad un ampliamento delle attività al settore dell’ar- tigianato, tanto che nel 1929 l’ente assunse la definitiva denominazione di Ente Nazionale per l’Artigianato e le Piccole Industrie (E.N.A.P.I.). Allo scopo di far conoscere e promuovere le tra- dizioni locali si istituì una rete collaborativa fina- lizzata al supporto delle microimprese in tutti gli ambiti operativi: dalla consulenza tecnica, eco- nomica, artistica e commerciale agli aiuti di tipo finanziario. È in questa fase che in molte delle produzioni nazionali si verifica una compresenza di aziende artigianali e industriali con le seconde che si differenziavano dalle prime, non solo per il numero di addetti e per i macchinari utilizzati, ma anche e sopratutto per una parcellizzazione matura delle fasi produttive. La differenziazio- ne tra processi artigianali e industriali è rimasta per molto tempo vaga in diversi settori produt- tivi5. “Il confine tra le cosidette ‘sartorie o case di moda’ e le ‘industrie di confezione a serie’ appariva delimitato da un’ampia zona di “arti- gianato industriale” o di ‘industria artigianale’ ... In proposito la Confederazione fascista ricordava proprio come nelle più importanti città italiane (Milano, Roma, Napoli, Torino, Firenze, Palermo e “varie altre”) la sartoria italiana fosse uscita dall’artigianato assumendo “un carattere indu- striale pur rimanendo sartoria, cioè industria con produzione diretta ordinata dal consumatore”6. Il design italiano ha origine in questa fase storica e si presenta sin dagli esordi come espressione

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DESIGN E IDENTIT À - PROGET T ARE PER I L UOGHI 65 Riccardo Dalisi - Gioielli sostenibili di un artigianato meccanizzato che incontra la

modernità nelle espressioni di una elite di archi- tetti sensibili ai fermenti provenienti dalla scena culturale internazionale. I mobili, e più in gene- rale lo spazio abitativo, costituiscono il primo vero territorio di confronto e sperimentazione per la nascente disciplina ed è in questo conte- sto che si verificano i primi corrispondenti mu- tamenti nel linguaggio. L’abbandono definitivo degli ambiti di una connotazione locale nell’arre- damento, che ancora nel primo dopoguerra veni- va alimentato dalle produzioni artigianali locali, si avrà a seguito di due accadimenti tra loro correlati. Da un lato la comparsa del ‘linguaggio moderno’ che dividerà l’Italia in due ‘comparti culturali’ (un nord nel quale si diffonderanno da subito i nuovi linguaggi e un sud dove per lungo tempo prevarranno gli stilemi classici) dall’altro la nascita dei primi sistemi componibili e la com- parsa degli elettrodomestici che modificheran- no radicalmente il modo di abitare degli italiani. Questo sconvolgimento si avvia parallelamente in alcuni paesi europei; in Germania col Bauhaus e con Margarete Schütte-Lihotzky e la cucina di Francoforte (ma più in generale col rinnovamen- to delle tipologie edilizie nella ricostruzione che segue il primo conflitto bellico), in Francia con Le Corbusier e i “casier standard” e infine nei Paesi Scandinavi la cui evoluzione nelle tipologie e nei linguaggi influenzerà in maniera preponderante la modernizzazione italiana.

Seppure in Italia la vera diffusione dei sistemi sia avvenuta relativamente più tardi rispetto a questi paesi (le prime cucine componibili arri- veranno nel nostro paese nel periodo tra le due guerre ma la vera diffusione dei sistemi si avrà con la ricostruzione dagli anni Sessanta), la pe- netrazione di sistemi modulari basati sulla logica dell’assemblaggio di pannelli, quasi come un’on- da dalla Brianza verso il sud del Paese (dove i

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modelli classici e artigianali però resisteranno a lungo), modificherà radicalmente le pratiche abitative e l’organizzazione degli ambienti. Con il rinnovamento in chiave moderna dei lin- guaggi si assiste alla progressiva scomparsa de- gli elementi di connotazione e decoro nei mobili (che permangono solo nel classico) e con l’av- vento dei sistemi componibili alla trasformazio- ne di comparti produttivi a prevalente carattere artigianale che caratterizzavano specifiche zone del nostro paese (Brianza, Cantù, Veneto, Tosca- na) in comparti industriali.

Curiosamente l’immissione dei sistemi mantie- ne ai suoi esordi, sia pure a larga scala, una con- notazione identitaria e così le prime cucine com- ponibili in Italia venivano chiamate “all’america- na” e le librerie con montanti da terra a soffitto “alla svedese”. Nel primo caso si trattava della “americanizzazione” di modelli sviluppati in am- bito europeo (la cucina di Francoforte non arriva nel nostro paese direttamente dalla Germania ma attraverso la cultura americana dell’elettro- domestico di cui in breve diventeremo tra i mag- giori produttori), nel secondo caso l’appellativo che inizialmente aveva una connotazione tipo- logica viene successivamente esteso all’utilizzo di specifici legni nell’arredamento.

L’Italia del secondo dopoguerra ha mantenuto la peculiare caratteristica di una forte presenza di piccole imprese dovuta sia alla diffusa tradizio- ne artigianale ereditata ma anche alle limitate dimensioni dei suoi mercati di riferimento. So- stanzialmente buona parte della produzione si basava su macchinari semi-industriali che con- sentivano di programmare piccole serie di pro- dotti spesso anche molto differenziati ma anche di intervenire varie volte sul progetto modifican- do le forme in funzione delle macchine utilizzate con modalità più legate alla creatività dell’arti- giano che alla programmazione dell’industria. Il Gio Ponti, Superleggera

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Gio Ponti, Superleggera prodotto di design italiano si distinse per questo

grado di libertà possibile della produzione seria- le e soprattutto per la notevole apertura men- tale di molti industriali. Rimarrà sempre più un design di prototipi che di produzioni, ma avrà la forza culturale per imporsi al mondo facendo leva non su un sistema produttivo dai grandi numeri in grado di amplificare l’opera di alcuni

bravi progettisti ma sul valore stilistico delle opere e sulla forza creativa degli autori; su una capacità inventiva, che scopriremo essere prero- gativa italiana, che accomunava il progettista, il tecnico e l’industriale in una “sperimentazione felice”. Più che la diffusione dei prodotti per l’I- talia varrà la diffusione delle idee che i prodotti veicolavano.

La prima generazione dei designer nel nostro paese (l’esordio ufficiale del design italiano viene identificato da molti nella V Triennale del 1933), quella storica dei Caccia Dominioni, degli Albini, dei Castiglioni, dei Mollino, dei Nizzoli, dei Zanuso e sopratutto di Gio Ponti, costruisce, partendo da questa contaminazione artigiana- to/industria, una propria identità che presto di- verrà strategica per lo sviluppo delle aziende in ambito internazionale.

Ed è in mostre quali le biennali di Monza7, poi Triennale nella nuova sede milanese, o la Selet- tiva del Mobile di Cantù (promossa negli anni Cinquanta in collaborazione con la stessa Trien- nale al fine di avviare nel territorio una “virtuosa contaminazione” tra una cultura del mestiere

“L’Architetto d’oggi, l’Architetto universitario, impari da tutti gli artigiani: impari dal mar-

mista (le superfici lucide, levigate; a martellina, a bocciarda, a scaglia): impari dal falegna-

me, dallo stuccatore, dal fabbro, da tutti gli operai e gli artigiani (è bellissimo).

Impari le cose fatte con le mani. Nulla che non sia prima nelle mani. Impari anche, l’Archi-