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Come dentro un sogno

La narrativa di Dante Maffìa tra realtà e surrealismo mediterraneo M O

A leggere con attenzione i suoi romanzi e i suoi libri di racconti, si scopre che Dante Maffìa è un ottimo narratore, oltre che poe- ta autentico. Poesia e narrativa, in lui, si rincorrono in maniera osmotica: intrattengono un rapporto organico, reciproco, di circolarità. Maffìa sa narrare quando fa il poeta ed essere poeta quando narra. È uno scrittore “toto corde”, dall’empito torren- ziale: un fiume in piena, che trascina con sé i detriti del tempo e i grumi palpitanti dell’esperienza. Un vulcano in eruzione continua: un centro di irradiazione di energie attraverso cui il mondo, talvolta, sembra aver deciso di tradursi sotto forma di scrittura.

Maffìa è un viaggiatore instancabile dell’immaginario, e — da buon viaggiatore — non vuole arrivare mai da nessu-

na parte, giacché arrivare vorrebbe dire concludere il viaggio. Come il vento: sempre in movimento, immerso nel ciclo crea- tivo–distruttivo della vita. L’importanza del viaggio, peraltro, è nell’esperienza, più che nella meta. Maffìa ha un cuore poetico vastissimo, stratificato come le pagine del mondo da sfogliare, che lo vincola a una pienezza “libidinosa” del dire, a una do- vizia di vita che trabocca dalle pagine. L’istinto primario della libido si traduce in voglia e fame, in desiderio e struggimento di bellezza, in golosità insaziabile e capacità di stupore infinito. Leggiamo questo passo da Gli italiani preferiscono le straniere:

È veramente bella, ha gli occhi che sembrano mandare fuoco e le

 Marco Onofrio

labbra carnose e vogliose. I seni sembrano essere usciti da un orefice che li ha modellati come due gioielli da godere palpandoli con quella sacra partecipazione che occorre quando ci si rende conto di essere dinanzi a un miracolo

.

La stessa prosa croccante e succosa si ritrova nel rapporto vorace col cibo:

Le lasagne sono eccezionali. Arrivo a mangiarne due piatti e mezzo [. . . ] Figuriamoci che succederà finché arriveremo alle bistecche di maiale, alle patatine arrosto, all’insalata che occhieggia sul tavolo di fronte ed è ricca di carote, finocchio, lattuga, radicchio, indivia, pomodori, sedano

.

In entrambi i casi viene l’acquolina in bocca, dinanzi a tanto “ben di Dio”. Certo, niente di ultraterreno: conta però il modo in cui le cose si guardano. E guardarle in modo straordinario (con desiderio e attenzione amorosa) le rende straordinarie, per normali che siano. La scrittura di Maffia è fresca e appetitosa e diretta (cioè: sa ridurre al minimo lo scarto fra parola e cosa). La sua parola, infatti, è sempre viva, autentica, ricca di sapore: vuole aderire ai fasti e alle lacerazioni dell’esistenza, entrarci in contatto diretto, senza schermi difensivi o infingimenti. C’è un passo significativo del racconto “La visita di Emilio Brenta- ni” (ne Le donne di Courbet) in cui si parla del protagonista di “Senilità” come di un

gentiluomo che sa comportarsi, la persona sensibile che rende sugge- stiva la passeggiata per il corso e per i sentieri nascosti. Mai sconcio, mai fuori luogo. Ma era questo l’amore? No, l’amore non vive ai margini delle azioni, le azioni le sconvolge, le rende irrazionali, strane, incomprensibili. Emilio non rompeva nessun equilibrio, si poteva dire che le sue azioni fossero dettate da un sussurro d’acqua stagnante e si scandissero su tempi da sempre sconosciuti, oltre i quali esiste il rischio. . .

. D. M, Gli italiani preferiscono le straniere, Roma, Perrone, , p. . . Ivi, p. .

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Si parla di amore ma, in filigrana, anche di scrittura. È scrit- tura quella che resta ingessata nelle forme, quella timida o esangue, che non rompe schemi ed equilibri, che non si espone al rischio del mare aperto, all’erranza della ricerca nuda, al viag- gio senza fine? “Scrivere un libro per tutti” equivale a scriverlo “per nessuno”, si legge in Mi faccio musulmano

; e allora Italo, il protagonista del breve ma intensissimo romanzo, decide di affidarsi all’“istinto”, cioè al flusso della vita in cui finisce per dissiparsi e dimenticarsi; la vita che scrive a sua volta la realtà e tira fuori le sue scene, come un mago dal cilindro, nel mistero del vuoto e del silenzio. Italo affida il suo essere, con il coraggio della disperazione, ai doni faticosi di un percorso esoterico e simbolico, intricato di dispersioni, di sfilacciamenti, di vaga- bondaggi onirici, che lo liberano — attraverso la purulenza delle zone infere, e gli intestini oscuri della città civile, “verso fulgenti allori, abbandoni totali, morti, rinascite” 

. Occorre diventare “cencio che spasima nella melma e nel dolore”

per raggiungere la libertà della conoscenza; e il risultato della cono- scenza acquisita, ancora grondante della tenebra attraversata, è la complessità ultima delle cose, l’aporia indecidibile delle verità, la natura ambivalente e contraddittoria del pensiero. Si emerge dal buio del rimosso e si comprende che “spesso tutto accade al di là della logica”

, che dunque il processo di conoscenza è giocoforza infinito poiché la realtà “non cape” nei limiti della ragione, affidata com’è agli accidenti del caso, dell’assurdo, dell’ingiusto.

Il capriccio di un giudice, l’errore d’una giuria, una lite in famiglia del pubblico ministero, un’ulcera del presidente del tribunale e la storia degli uomini prende un altro corso

.

. I., Mi faccio musulmano, Roma, Lepisma, , p. . . Ivi, p. .

. Ivi, p. . . Ivi, p. . . Ivi, p. .

 Marco Onofrio

La scrittura di Maffìa — è lui stesso ad ammetterlo — ha qualcosa di eccedente, di troppo vitale: un potenziale esplo- sivo interno che può trasformarla in balsamo che resuscita, così come in veleno che intossica. È sconcia e oscena di vita. È carne e sangue sul bordo franante del delirio, sul confine dell’allucinazione. Spesso infatti, ad es. ne Il lupo mannaro o in Mi faccio musulmano, si offre come regesto di solitudini atroci, diario evolutivo di emarginazioni, fuoco liquido di pazzie, soli- loqui, ossessioni, farneticazioni. Si fa cronaca della dissolvenza, tramonto e notte dello spirito, mutismo della ragione. Varca confini, cancella tracce, elide margini di sicurezza. È esposta a una possibilità sempre incombente di inquietudine. Utilizza (come si legge nel recente Poema totale della dissolvenza)

parole non acquistate e non risapute

ma mie nate da me dal mio sangue dal mio dolore,

dal mio non essere e dal mio camminare a piedi nudi

davanti ad altari e a prostitute, davanti a me stesso

.

Eppure conserva la sua misteriosa e umana luminescenza, anche quando parla sottoterra, o altrove, dai meandri labirintici delle cloache o dai cubicoli asfittici delle tombe. Perché Maffìa scrive sull’onda pulsionale di una fantasia mitica che lo sospinge verso le sorgenti comuni dell’apparente diversità: trafigge i dettagli sub specie aeternitatis, scoprendo l’immutabile unità cosmica che avvicina, attraverso rapporti tenebrosi e invisibili, le cose più disperse e disparate. Ecco perché cerca il punto delicato della “sutura” tra vita e sogno: è lì che la vita può rivelarsi nella sua massima significazione, e affascinare nella sua più limpida suggestività.

Il “surrealismo mediterraneo” di Maffìa è paragonabile, per

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dovizia e accensione di materiali fantastici, alle grandi prove della letteratura sudamericana (su tutti Garcia Marquez e Bor- ges). Esplorando le origini ideali della sua narrativa, vanno citati anzitutto alcuni autori meridionali: Corrado Alvaro, Raoul Ma- ria De Angelis, Ercole Patti. Immaginiamo un “Alvaro” meno denso e raggrumato, disciolto di quotidiana colloquialità, e più giocoso e moderno, trasfigurato al fuoco della fantasia. O un “Brancati” meno borghese e più stralunato, dal sorriso altret-

tanto amaro e rivelatore. Maffìa è di quegli scrittori generosi, dal “polso caldo”, che mettono l’Uomo al centro della pagina. Appartiene alla razza degli autori corporali, materici, iperbo- lici: Apuleio, Petronio, Rabelais, Pulci, Folengo. Terrestrità, sensualità, concretezza. Su questo tronco “solare” si inserisce l’inquietudine notturna, lunare e straniante di Tommaso Lan- dolfi. E gli echi poetici che confluiscono in prosa: Alfonso Gatto innestato a Saba, a Lorca, a William Blake.

Maffìa ripercorre — nel suo itinerario di uomo e di scrittore — le caratteristiche archetipiche del “grande seduttore”. Scrive

ne La donna che parlava ai libri: «Bisogna sempre provare»

. Che potrebbe essere il motto esperienziale della sua scrittura, e la linea–guida della sua stessa esistenza. Provare per conoscere, abbattendo ogni steccato difensivo e azzerando sul nascere ogni forma di pre–giudizio. Assaggiare la vita con gusto, con voglia, con curiosità. Sapere i sapori. Aprirsi senza paura al nuovo. Vivere autenticamente, liberamente, pienamente. “La vita è la mia droga”, dichiara spesso con soddisfazione. E scrivere è un modo di aggiungere “vita alla vita”, attraverso le parole: come Pizzuto proponeva per uscire dall’impasse metalinguistico della Neoavanguardia. Nulla di più lontano da Maffìa che la scrittura avvitata su se stessa per nascondere il vuoto.

Seduttore, dunque: libero e libertino, fedele alla propria in- fedeltà. Qualche pagina dopo, infatti, si può leggere questa sorta di confessione: “io appartengo alla razza di quegli uomini che

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le cose belle le amano, le godono e le dimenticano presto”

. Perché chi — accidentalmente o volontariamente — ferma il suo cammino in una forma, perde il movimento della vita, esce dal flusso del suo eterno divenire: aderisce ad una struttura che può salvarlo sì dall’oblio della dissolvenza (almeno per un po’), e tuttavia, per contro, lo blocca nel gelo della morte. Il suo sguardo cerca di giungere al principio sorgente delle forme che svaniscono nella loro continua trasformazione, di cogliere il mondo nell’apertura del suo farsi e disfarsi. È, questo, uno degli snodi centrali dell’intera opera maffiana. Si leggano, ad esempio, gli ultimi versi de La castità del male: «È la vita che trionfa / ma per poco: perché altra / ne avanza, accorre la mor- te / che cieca cammina / al rullo dei tamburi»

. Il movimento dell’esistenza è un’onda fluida, circolare, ciclica, che si muove sul traliccio dei suoi opposti fondamentali; i quali emergono e si rivelano — alla profondità dello sguardo dello scrittore — accoppiati dalla forza della loro attrazione reciproca. Al tema cosmico e materico delle forme nascenti (l’una dall’altra: come in una sequela infinita di scatole cinesi) è dedicato uno dei mag- giori sviluppi del romanzo più landolfiano di Maffìa, Un lupo mannaro. La vita stessa è l’Araba Fenice, è luce che nascendo muore, progetto che tesse la sua fine. Scrivere è trovarsi «nella bocca di un lampo, alla deriva»

: sospesi tra margini di resisten- za e abissi di dissipazione. Ed ecco, la scrittura di Maffìa resta sempre in bilico tra “vita” e “forma” — vale a dire tra natura e cultura, istintività e razionalità, dissipazione e resistenza —, nel tentativo di compenetrarle in un felice, dinamico equilibrio. Egli sa che, come diceva Eduardo, “chi cerca lo stile trova la morte; chi cerca la vita trova lo stile”. Si tiene, perciò, lonta- no dalle strettoie del razionalismo, così come dalle secche del formalismo, dai capestri soffocanti dello stile. Maffìa sa che bi- sogna sporcarsi se si vuole sapere di vita, e che il fango con cui

. Ivi, p. .

. I., La castità del male, Bellinzona, Casagrande, , p. . . I., Un lupo mannaro, Lucca, Pacini Fazzi, , p. .

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ci si sporca ha a sua volta una “doratura celeste”: è dall’unione del fango e del cielo che scaturisce la conoscenza. La scrittura, pertanto, non viene lucidata dall’esterno e non si guarda mai allo specchio: significherebbe strappare le radici che la legano strettamente alla vita, soffocando il suo valore organico, il suo respiro umano, la sua capacità di presa sul reale. Maffìa cerca di non eccedere sul piano della rielaborazione, della riscrittura: al- l’arte per l’arte dei lambiccati e schifiltosi puristi preferisce una “forma fluida”, calda e magmatica; certamente nitida, scolpita e ineccepibile, ma spesso come provvisoria, detta quasi “per”, in vista di un oltre che la precede e la trascende, all’inseguimento di qualcosa di più vasto (un respiro che è la vita stessa, inaffer- rabile nel suo segreto). Da qui quel senso consapevole di “non finito” che aleggia felicemente su molti tratti della sua opera. La scrittura del non–finito può così accendersi dei colori e dei riflessi dell’in–finito. Languore dolce, euforia, pienezza della passione, empito di vita e commozione: ecco il magone e la nostalgia che si provano dinanzi alla bellezza, canto di libertà che affiora misteriosamente sulle labbra del mondo.

Il suo vitalismo generoso trasuda di “copia” latina, di nutri- menti terrestri, di eros mediterraneo. Si gusti ad es. la felicità carnale e la pienezza giunonica dei racconti erotici de Le donne di Courbet(ad es. “La maestrina”): nel loro genere un piccolo capolavoro. Il mediterraneo di Maffìa è esteso ed estensivo di latitudini geografiche, dimensioni cosmiche e psichiche, sfuma- ture sentimentali eterogenee. “Mediterraneo” non è soltanto un “mare che fluttua in mezzo alle terre”: ha valore anche di “denominazione culturale” attraverso cui lo spazio si collega al tempo, raccoglie il passato in tradizione. Nel “mediterraneo” di Maffìa pungono i sapori speziati dell’Africa, della Turchia, del Medio Oriente. E c’è, naturalmente, il grande azzurro della Grecia, patria ancestrale dell’anima (egli, del resto, è originario di quella che un tempo fu la Magna Grecia). Un vitalismo che cova e accarezza — dentro il cuore accecante della luce mediter- ranea — una trama sottesa di cosmogonie e fantasmagorie, di segreti e misteri dimenticati, di ombre rimosse. Maffìa penetra

 Marco Onofrio

in questi anfratti “pericolosi” come tranelli di vertigine, come gorghi spumeggianti nell’abisso, e, attraverso le comuni radici dell’esperienza umana, si ricollega con le profondità del grande fantastico universale.

Se è vero che ogni uomo è figlio del bambino che è stato, Maffìa è seduttore anche perché conosce fin da bambino la dolcezza sensuale che cambia lo sguardo sulla vita: suo padre, a Napoli, era un rinomato pasticciere, artefice di opere del gusto inebrianti e consolatrici (tra i clienti affezionati anche don Be- nedetto Croce). Ma sa anche, per antica sapienza popolare, che sognare il dolce porta amarezza. E, inoltre, che il piacere del dolce — quando bramato, o gustato con cupidigia — nascon- de e perciò manifesta un grande bisogno di compensazione affettiva. Maffìa trae dal fondamento erotico e cosmico della sua scrittura la capacità di farci gustare, sia pure con tenero struggimento, l’infinita dolcezza della vita nella pienezza della sua offerta; ma anche di farci sentire, attraverso il brivido di quello struggimento, tutto l’amaro che il dolce presuppone. Il “Sud” metastorico e transcontinentale che guida, a mo’ di costellazione, l’orientamento e l’ordinamento del suo paesag- gio umano, è piuttosto una dimensione della psiche e dello sguardo: un modo di vedere la realtà.

Se volgo lo sguardo al Sud — un Sud ideale e cosparso di ragnatele, di ombre e di allucinazioni, di dolori impeciati alla quotidianità, di inconsapevoli furori senza mete — vedo una finestra immensa aprirsi e mostrarmi le fonti della vita. Riascolto le voci di Talete, Demostene, Anassimandro, Anassimene, Eraclito, Gorgia, Pitagora, Archita.

Acqua, terra, fuoco, e un canto audace di zolle e di sterpaglie, una voluttà di tinte che s’azzuffano e s’incendiano per poi prendere forma di fanciullo appena nato

.

La scrittura di Maffìa è, perciò, un vettore plastico e mul- tiforme, estremamente versatile, che porta alla luce il fascino sensuale dell’intelligenza e — rovescio niente affatto scontato

Come dentro un sogno 

— l’intelligenza viva della sensualità. Razionale e irrazionale intrecciano un dialogo fitto e proficuo, raccolti da un respiro unanime, come versanti di un’identica cerniera. Maffìa cir- cumnaviga i continenti sommersi della nostra origine, oltre le maschere opache delle superfici e le gabelle anagrafiche delle convenzioni.

Il suo punto di partenza è sempre realistico, quasi sempre quotidiano. Una scrittura che sembra voler esplorare la divina, enigmatica semplicità dell’esistenza, del dato fattuale, delle cose “così come sono”. Il poeta — scrive Maffìa in Corradino — è

il «supremo realista allo specchio di un ideale»

. È colui che mostra il legame profondo che lega il fango all’oro, il basso all’alto, la profondità infera a quella superiore. Il poeta è — scrive ne Il poeta e lo spazzino — «cielo e latrina, morte e vita insieme»

. Ecco la necessità di rovistare nell’immondizia, nella “melma sublime”, tra le macerie e le viscere dell’esistenza, per trovarvi la perla della “visione”, con il dono dei suoi significati, della sua oltranza. Anche perché «l’immondizia parla tutte le lingue»

e dice molto di quello che siamo realmente, al di là delle sovrastrutture con cui mistifichiamo e edulcoriamo il contatto venefico con la realtà. L’uomo è un animale linguistico e simbolico che sovrappone al mondo la tela di ragno delle sue parziali e speciose rappresentazioni. Ma il mondo stesso pare contraddistinto da una “vocazione linguistica”. Ne Il poeta e lo spazzinoanche le scarpe «sembra che vogliano dire parole misteriose e rivelatrici»

; e anche le statue «se uno le guarda un po’ troppo sono capaci di parlare»

. La realtà è una parola articolata dal tempo, attraverso cui l’esistenza plasma le forme del proprio ininterrotto divenire.

La “mitologia della parola” nelle sue diverse varianti combi-

. I., Corradino, Napoli, Guida, , p. .

. I., Il poeta e lo spazzino, Milano, Mursia, , p. . . Ivi, p. .

. Ivi, p. . . Ivi, p. .

 Marco Onofrio

natorie è tra i motivi simbolici fondamentali dell’intera opera di Maffìa:

la parola, si sa, è come una prostituta o, se volete, come il vento, si dilata e si restringe, è ambigua, fedifraga, civettuola, arrogante

.

Ma le parole sono piene di vita. Vi escono

luoghi, sentimenti, voci, pianti, guerre, delitti, dolori, lutti, gio- ie, donne meravigliose, uomini che da anni attendevano di fiatare, amori impossibili, emozioni violente

.

Nelle parole degli scrittori ci sono «lampi improvvisi, mondi che si aprono, sottigliezze che fanno crescere immediatamente di una spanna»

. Sembrano inconsistenti come nuvole, vane come bolle di sapone, ma «in fondo sono le parole che creano la realtà»

: sono i mattoni del mondo.

È nello scarto fra la cosa e la parola, cioè tra la realtà e la convenzione linguistica che tenta di aderirvi, il varco balugi- nante di una immensa energia, dal potere esplosivo. È in quella fessura che scocca la scintilla: e il mondo appare sotto una luce diversa, declinato a nuove condizioni.

La parola ha anche, in sé, un potere magico di incantagione, di persuasione meta–semantica, attraverso la sostanza viva e carnale del significante che (talvolta) la rappresenta. C’è un passo di Corrado Alvaro, ne L’età breve (), in cui si legge: «Certe parole lo empivano di una gioia segreta, come rosa rosae sulla grammatica latina; e rosarum era proprio un cespuglio di rose [. . . ] da allora [dopo aver ascoltato una canzone] la parola ‘francese’ era stata nella sua mente qualcosa di frangiato, leggero e fragile».

. I., La donna che parlava ai libri, cit., p. . . Ivi, p. .

. Ivi, p. . . Ivi, p. .

Come dentro un sogno 

Ne La donna che parlava ai libri la parola magica evocatrice (da sognare infinitamente, e non smitizzare razionalmente) è “Patagonia”.

Patagonia, Patagonia, ripetevo ad alta voce, modulando ogni volta diversamente il suono, esaltandomi, accendendomi di una ebbrezza che mi dava la sensazione di lievitare

.

Basta una semplice parola per infilare l’“anello che non tiene” e passare dall’altra parte; ci si ritrova come «dentro un sogno»

, e non si capisce se si tratti più della realtà del sogno o del sogno della realtà, o entrambi i versanti contemporaneamente. Ecco le scorribande dell’immaginario in Maffìa, le sue avventure da fermo attraverso particolari minimi, dettagli quotidiani, fessure interstiziali: tutta l’apparente “normalità” nella quale siamo immersi come viandanti nella tenebra (e non che la luce, poi, sia meno misteriosa). E quel sentire, profondamente umano, di aver inseguito un sogno senza poterlo ricordare. . .

Il Maffìa narratore si avventura con robusta sicurezza, rag- giungendo spesso esiti straordinari, nei diversi mari del roman- zo: storico (Tommaso Campanella), industriale (Milano non esiste), sociologico (Gli italiani preferiscono le straniere), psicologico (Un lupo mannaro), simbolico (Mi faccio musulmano), favolistico (La regina dei gatti). Ha infinite storie da raccontare; ma spesso, più che alla storia in sé, pare interessato alla situazione, al dettaglio che lo sguardo infilza e trapassa: all’equivoco, al fatto misterio- so, al nesso che sfugge, al paradosso, al colpo di scena, al finale