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Dialettica e soggetto. Heidegger: metafisica e soggetto

Come si è intravisto, le posizioni di Adorno e Deleuze in merito alla dialettica hegeliana sono motivate anche dalla crisi del marxismo, che di quella dialettica si era servito mirando all’obiettivo politico della rivoluzione; il marxismo negli anni ’30 (si pensi all’ascesa dei totalitarismi fascisti e comunisti) o ’60 (si pensi al riflusso seguito alle aspirazioni rivoluzionarie dei movimenti studente-schi e operai) del Novecento non seppe mantenere (senza riuscirci dopo, del resto) la promessa di produrre un ordine sociale più giusto: o la rivoluzione ‒ che doveva seguire quasi necessariamente dalle condizioni produttive e sociali, spinta dalla libera azione rivoluzionaria delle masse proletarie organizzate dai partiti socialisti ‒ non si verificò o, quando ebbe successo, diede luogo a forme asso-ciative che produssero un assoggettamento simile a quello che dovevano invece spezzare. Troppi fallimenti però per pensare che le ragioni di essi fossero da ricercarsi solo nelle situazioni storiche contingenti e nei casi imprevedibili di queste: forse queste ragioni si trovavano nella teoria stessa, cieca o inefficace, alla base della prassi rivoluzionaria; la teoria non guarda però ai fenomeni econo-mici e politici senza che il suo sguardo sia diretto da presupposti anche di natura teoretica: su questi si concentra l’attenzione dei filosofi e quello di Adorno e Deleuze si focalizzò sulla dialettica di He-gel, che Marx aveva in parte recuperato e utilizzato in senso materialista per l’analisi del capitalismo.

Come però abbiamo tentato di mostrare, nemmeno la dialettica costituisce il problema principale che anima le riflessioni dei due filosofi, ciò che risulterà più chiaro se riepiloghiamo per sommi capi lo schema alla base dei temi affrontati: 1) la dialettica hegeliana funziona tramite il dispositivo teorico della negazione determinata, la quale guida ogni singolo momento del processo dialettico, falso e unilaterale nella sua pretesa di essere il vero, a superarsi nel successivo, che ne costituisce la verità. 2) Il problema diviene quindi quello del negativo; se la negazione viene precisata come opposizione o contraddizione, cominciamo a intravedere i risvolti politici della questione: infatti (come nota Adorno) la contraddizione all’interno del sistema di pensiero è il residuato dell’antagonismo reale all’interno della società. Il processo dialettico culmina poi nell’Assoluto, nella cui unità e identità sono ricondotte tutte le negazioni particolari. 3) Il problema si sposta quindi ulteriormente, sfociando nella questione dell’identità: la negazione è ricondotta a identità solo perché questa le è presupposta; il filosofo infatti sa già della non verità dei momenti perché ha da subito in mente l’identità dello spirito assoluto1. Non solo: di per sé il particolare, il molteplice, la differenza non è il negativo; è solo

1 Da che posizione altrimenti si potrebbe giudicare che un determinato sapere della coscienza, ciò che è via via vero per

lei, non è verità, non è cioè vero in sé, per lo spirito risultante dall’intero decorso dialettico? Esso mostra di ripercorrere

sotto il segno della disperazione un cammino di cui conosce già l’esito: per la distinzione tra sapere e certezza e tra il “per lei” della coscienza e l’“in sé” (detto a volte “per noi”, cioè per il filosofo che ha già compiuto il cammino dello spirito), cfr. Hegel, La fenomenologia dello spirito, cit., pp. 63-66, [Introduzione, pp. 14-21].

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sul presupposto dell’identità che la differenza è determinata come negazione e precisamente perché possa essere ricondotta all’identico. 4) La questione slitta allora verso il rapporto tra Identità e Diffe-renza: donde la necessità di ridurre questa a quella? La differenza pare in realtà ciò che sfugge a ogni identificazione, la dissolvenza di ogni forma definita, il caos che precede l’ordine; sembra quasi che ogni identità sia effetto di un movimento più profondo che è quello della differenza (e non viceversa come filosofia e senso comune paiono assumere in maniera condivisa). Ora, tale movimento suscita naturalmente sgomento e, se non venisse in qualche maniera arginato entro forme stabili che ne per-mettano il controllo, forse non sarebbe possibile vita umana. Parlando di identità e differenza in realtà non abbiamo detto molto perché abbiamo maneggiato dei concetti (per dirla in termini deleuziani) “troppo larghi”, già frutto di astrazione, per giunta compiuta forse proprio tramite il presupposto dell’identità. 5) Per determinare meglio tale coppia concettuale, ci viene in soccorso la connotazione politica che Adorno e Deleuze sembrano darle quando analizzano il potere (capitalismo, fascismo e socialismo reale) nelle forme a loro contemporanee: in esse il potere sembra proprio configurarsi come inglobamento, limitazione o oppressione della differenza (che ha i volti della minoranza etnica, politica, psichica, sessuale) entro l’identità della compagine sociale e ciò perché la differenza minac-cia la tenuta delle strutture di asservimento di questa. In epoca moderna e contemporanea il modello del potere come inscrizione della differenza entro l’identità ottiene forse massimo dispiegamento; è però lecito domandarsi se nella storia vi sia mai stata società che abbia saputo costruirsi evitando tale modello e se esso non sia piuttosto coestensivo alla stessa civiltà avutasi sinora. Tuttavia, esso rischia di compromettere la sopravvivenza umana in vista della quale si forma: la società vive di continui scambi con stranieri, non esiste senza donne, rinnova i suoi apparati logori tramite rivoluzioni. 6) Ci avviciniamo al cuore del problema se riflettiamo sul fatto che la formazione di organismi sociali per così dire “in grande” si accompagna sempre “in piccolo” alla formazione di quello che con termini successivi sarà indicato come individuo o soggetto, e viceversa: tale parallelismo era noto già a Pla-tone e Aristotele, che nella Repubblica e nella Politica indicavano le corrispondenze tra parti dell’anima e componenti della πόλις, determinando le gerarchie dell’una sulla base di quelle dell’al-tra2. Come l’identità di una società si forma solo a partire da differenze che poi inscrive entro di sé,

2 Platone, dopo aver introdotto il mito delle tre nature (aurea, argentea, bronzea) mescolate nell’anima, per spiegare le

classi di governanti, guerrieri e artigiani/contadini, cfr. Platone, Repubblica, 414a-415d, trad. it. di F. Sartori, Laterza,

Roma-Bari, 2011, indica tre virtù corrispondenti (sapienza, coraggio, per le prime due e temperanza per tutte come facoltà di contenimento dei piaceri secondo un rapporto comando-obbedienza) con la giustizia che vincola ciascuno al suo ruolo: cfr. ivi, 427d-434c; poiché la struttura dell’anima della polis dipende da quella dell’individuo, cfr. ivi, 434c-436a, la giustizia della polis dipende dal fatto che le tre parti dell’anima (razionale, animosa e appetitiva), cfr. ivi, 437b-438d, si dispongano nell’uomo giusto con il comando della prima, aiutata dalla seconda, sulla terza, cfr. 441c-443b. Per Aristotele, la virtù più alta, quella politica, è nella costituzione migliore la saggezza e appartiene a coloro che esercitano l’autorità, uomo libero è comunque colui che può esercitare qualche virtù e dunque gode della cittadinanza, mentre chi è escluso dalla virtù perché svolge lavori manuali è escluso dalla cittadinanza, cfr. Aristotele, Politica, 1277b-1278a, a cura di C. A. Viano, Bur, Milano, 2013: a fondamento di queste distinzioni, che motivano anche l’obbedienza dei giovani verso gli

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così l’identità di un soggetto nasce solo riducendo a sé quelle differenze che pure lo costituiscono (che andranno determinate meglio e che sono d’ordine pulsionale, corporeo, affettivo). 7) Ecco: il problema della dialettica è diventato il problema del soggetto (“portatore” di identità) e del suo rap-porto con le differenze, con l’alterità a esso irriducibile e in cui esso trae origine. Nella trattazione del pensiero di Adorno e Deleuze abbiamo lasciato parzialmente in ombra tale questione, che pure è quella decisiva, evitando di trattarla tematicamente e lasciandola emergere attraverso temi coimplicati con essa: invero i due filosofi offrono sul tema del soggetto riflessioni stimolanti e sorprendenti, soprattutto per quanto riguarda la sua genesi, anche se non possiamo trattarle in riferimento ai loro testi (ai quali abbiamo già dato abbastanza spazio, data la natura plurale del dibattito che vogliamo ricostruire); potremmo farlo solo per sommi capi se ci sarà tempo, perché occorre prima esaminare le posizioni di altri autori che ci permettano di capire che cosa intendiamo quando parliamo di “sog-getto”. Per ora è importante ricordare che la critica della dialettica rimanda a una critica dell’ideali-smo, inteso come posizione filosofica centrata sul primato d’identità, e che questa identità è quella di un soggetto costitutivo, il quale piega a sé ogni differenza; tale critica diviene anche una critica della rappresentazione, cioè dell’attività con cui il soggetto riduce il pensiero a replica del dato (positivi-smo) o all’opposto sostituisce le proprie costruzioni a esso (razionali(positivi-smo).

A questo punto potrebbero sorgere due obiezioni: a) davvero Hegel è esponente di un idealismo in cui il soggetto trae da sé ogni realtà? Non è questa posizione ascrivibile ad altri idealisti (Fichte ad esempio), mentre in Hegel il soggetto non è dato in prima istanza, ma pensato nel processo del suo divenire tale a partire dalla sostanza e il sapere assoluto è colto solo nel suo sviluppo a partire dai gradi elementari della certezza sensibile? Ciò è senz’altro vero e anzi uno dei meriti di Hegel è quello di avere introdotto la storicità nel pensiero; tuttavia ciò non toglie che l’Assoluto, l’identità di soggetto e oggetto, è presupposta fin da subito e che il processo dialettico ha lo scopo di mostrarci il suo processo di formazione senza però discuterne il primato. b) Si può vedere in Hegel un sostenitore della rappresentazione, quando egli critica la coscienza ingenua che pone il vero nelle rappresenta-zioni immediate che essa ha degli oggetti sensibili? Certo che no e anzi la sua dialettica recupera forza critica quando mostra la falsità di empirismo e razionalismo, se pretendono ciascuno di essere il vero senza tener conto dell’altro momento3. Il fatto è però che Hegel si trova in una congiunzione storico-metafisica per cui non può (né vuole) uscire dall’idealismo: quando egli cerca di andare oltre la limi-tatezza dell’intelletto finito che si preclude l’accesso alla cosa in sé, egli critica l’io penso perché il

anziani troviamo il fatto che l’anima ha due parti, l’una dotata di ragione e l’altra che deve obbedirle, cfr. ivi, 1332b-1333a e che gli uomini hanno gli stessi scopi e virtù presi collettivamente e individualmente, cfr. ivi, 1334a.

3 È Adorno stesso a notare lo scadimento, correggibile con la mediazione appresa da Hegel, di razionalismo e positivismo l’uno nell’altro quando ciascuno pretende di valere nella sua unilateralità, in Metacritica della teoria della conoscenza, cfr. pp. 66-67.

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suo accesso ai fenomeni è meramente rappresentativo oppure, con la ragione che dietro i fenomeni vede se stessa, finisce per estendere l’attività rappresentativa di questa all’intera realtà?4 Deleuze intende questo quando dice (in modo piuttosto oscuro) che Hegel porta la rappresentazione a divenire infinita? L’idealismo non è forse l’esito estremo di una fase della filosofia in cui questa coincide con l’attività rappresentativa del soggetto?

Un’altra seria obiezione potrebbe riguardare i nostri presupposti metodici e può essere formaliz-zata così: si è passati dalla crisi del marxismo a quella della dialettica, da questa a quella dell’ideali-smo e del soggetto e lo si è fatto analizzando due soli autori; con che legittimità si può parlare di crisi del soggetto, magari estendendola all’intera vicenda filosofica e storica novecentesca? Adorno e De-leuze appartengono certo a due “linee” di pensiero diverse, l’hegelo-marxismo e il nietzschianesimo di sinistra: eppure non hanno certificato entrambi, uno dall’interno e l’altro dall’esterno, una crisi dell’hegelismo e un tramonto del soggetto che altri autori non avrebbero mai sottoscritto? Non si poteva estendere lo sguardo anche a questi? Le idee dei due, magari mal comprese, non hanno forse spinto nelle piazze gli stessi giovani a combattere contro gli stessi nemici? Non si potevano conside-rare altri filosofi, la cui opera fosse priva di spunti rivoluzionari? Termini come soggetto, oggetto, rappresentazione non risultano spiegati inoltre in maniera insufficiente?

Il modo per rispondere a tale legittima obiezione potrebbe essere proprio quello di confrontare i due filosofi con un pensatore diversissimo e inconciliabile con loro. Si potrebbe tentare di far “risuo-nare” le riflessioni di quest’ultimo con le loro: se nell’accordo prodotto, molto probabilmente “disso-nante”, le tre voci discordanti dovessero parlarci di problemi intrecciati anche se colti da tre uditi differenti e se tale accordo ci aiutasse a precisare meglio i termini della questione del soggetto, si potrebbe cercare di battere questa pista. Per la diversità di pensiero (e di vedute politiche), per l’in-fluenza che ha avuto su tutto il XX secolo filosofico e per la radicalità con cui ha saputo guardare al soggetto come a ciò che si produce solo in epoca recente a partire da una Storia molto più lunga e decisiva, il nome da fare è quello di Martin Heidegger.

Questa Storia, come è noto, è quella dell’essere, del suo darsi a noi e del suo non potersi dare a noi se non nascondendosi; tale nascondersi favorisce quell’oblio dell’essere e quel restringimento dell’esperienza umana alla sola dimensione dell’ente, che Heidegger chiamerà “metafisica”, ripren-dendo un termine della tradizione filosofica e dandogli significato peculiare. Peraltro, anche Adorno

4 Per la critica di Hegel all’intelletto, che ha di fronte l’oggetto come cosa opposta a sé (Gegenstand) e deve essere superato dall’autocoscienza, che mostra come esso non sia più coscienza di altro, ma appunto autocoscienza, coscienza di sé nel proprio esser altro, superando dunque il dualismo, cfr. Hegel, La fenomenologia dello spirito, p. 119 [III. Forza e intelletto, pp. 98-99]. Un esempio di critica hegeliana della rappresentazione si trova nella ragione osservatrice che,

quando studia la vita organica, rinviene delle leggi che sono solo rappresentazione di lati tra loro indifferenti, non co-gliendo l’universalità in cui essi si dissolvono e in cui consiste l’organico, cfr. ivi, p. 188 [V. Certezza della ragione-A. ragione osservatrice, pp. 211-212].

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e Deleuze useranno tale termine, ciascuno conferendogli accezione diversa: per il primo la metafisica appare fin da subito come pensiero del Primo che, riconducendo a esso il non identico, è espressione di dominio reale; Adorno recupera però allo stesso tempo la metafisica dandole il significato esatta-mente opposto di pensiero che, sottraendosi alla supremazia del Primo e identico, si fa voce del mi-nuscolo e del differente5. Deleuze utilizza il termine metafisica, forse in polemica con chi, nascon-dendosi dietro il tema della fine della metafisica, parla di fine della filosofia: proprio per opporsi a tale discorso (ma non necessariamente in polemica con Heidegger), Deleuze parla di se stesso come di un “puro metafisico”6. Per Heidegger, come vedremo, la metafisica in epoca moderna prende le forme di un soggettivismo estremo: egli diagnostica dunque un primato del soggetto, che dalla filo-sofia si riverbera nel mondo della tecnica (o meglio dà vita a quest’ultimo), di segno analogo a quello che scorgono Adorno e Deleuze, anche se Heidegger circoscrive questo primato all’età moderna e i secondi non lo indicano espressamente e univocamente come metafisica.

A livello preliminare bisogna chiedersi inoltre se questi tre autori possano essere fatti risuonare assieme solo quando formulano una diagnosi, oppure anche quando (per mantenere l’analogia me-dica) offrono una cura. Adorno e Deleuze, opponendosi a ogni forma di idealismo, cercano di rinve-nire un pensiero che non sia più fondato su un soggetto costitutivo e sviluppano l’esigenza di una filosofia che trovi il suo “fondamento” sempre mobile e mai definitivo nella differenza, come in ciò che eccede l’uomo e il suo dominio. Dobbiamo allora domandarci se nel pensiero di Heidegger, il quale formula una delle critiche più esplicite all’umanismo7, non sia presente un’esigenza simile; stabilendo che la filosofia occidentale da Platone a Nietzsche è metafisica in quanto oblierebbe l’es-sere, giocoforza Heidegger pone il compito di un pensiero che si sottragga a tale congiuntura metafi-sica e si ponga in ascolto dell’essere. Ora, l’oblio dell’essere si configura come quell’oblio della dif-ferenza essenziale intercorrente tra essere ed ente, che passa attraverso la riduzione del primo al

5 Per la critica della metafisica, prima philosophia (che inizialmente vuole liberare dalla soggezione alla natura) come espressione di dominio, cfr. Adorno, Metacritica, pp. 62-66 (e in genere tutta l’Introduzione); per la metafisica invece come voce del minuscolo e del differente, cfr. Adorno, Dialettica negativa, tutto il terzo modello, Le meditazioni sulla

metafisica, pp. 325-365.

6 Deleuze si definisce così in Réponses à une série de questions, in A. Villani La guêpe et l'orchidée. Essai sur Gilles

Deleuze, Paris, éd. Belin, "L'extrême contemporain", 1999, p. 130, pp. 129-131, cit. in F. Treppiedi, Quale filosofia per la vita? Le scomode verità di un puro metafisico, in Incontri. Rivista europea di studi italiani, anno 27, 2012 / fascicolo

2, https://www.rivista-incontri.nl/, recensione a F. Luisetti, Una vita. Pensiero selvaggio e filosofia dell’intensità, Mime-sis, Milano-Udine, 2011.

7 La critica di Heidegger dell’umanismo è contenuta, come sanno tutti, nella celebre Lettera sull’«umanismo» (1947), cfr.

Segnavia (1967), trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1995, pp. 267-315; qui egli, prendendo le distanze da L’esisten-zialismo è un umanismo di Sartre e riportando ogni condizione umana alla storia dell’essere, cfr. ivi, p. 268, sostiene

viceversa che ogni umanismo è metafisico in quanto si fonda su una metafisica che dà per presupposto cosa sia l’ente-uomo obliando la domanda sulla verità dell’essere, cfr. ivi, p. 275; l’esistenza ha però senso per Heidegger solo come lo “stare dentro” questa verità, cfr. ivi, pp. 278-279. Heidegger precisa altresì che il suo pensiero è sì contro l’umanismo metafisico, ma non perché voglia celebrare l’inumano, dunque la barbarie, cfr. ivi, pp. 298, ma perché l’umanismo non pensa l’umanità dell’uomo in modo abbastanza elevato, non pensa cioè l’uomo come “pastore dell’essere” invece che come padrone dell’ente cfr. pp. 283-284 e 295.

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secondo; se la metafisica poi prende in epoca moderna la forma di soggettivismo, è proprio perché l’ente che riduce a sé l’essere è il soggetto, potremmo dire l’uomo. Ecco allora che il pensiero che ha invece a cuore l’essere dell’ente è un pensiero che tenta di sottrarsi all’uomo e al suo dominio, cer-cando di accedere a una dimensione ulteriore rispetto a questi. Gli scritti in cui Heidegger si occupa della storia della metafisica vanno grossomodo dal periodo successivo a Essere e tempo fino alla fine della Seconda guerra mondiale, quindi da Che cos’è la metafisica? (1929) più o meno fino alla Lettera sull’umanismo (1947)8: in essi invero il momento in cui Heidegger constata il carattere metafisico del pensiero occidentale è preminente sul momento in cui tenta di spingersi oltre di esso; però solo quando Heidegger coglie la metafisica nella sua essenza, può cercare di guardare oltre di essa: «l’essenza della metafisica è l’oblio dell’essere; ma quando questo oblio viene riconosciuto come tale si è già anche nella condizione di ricordare ciò che era obliato, e quindi di andare oltre la metafisica»9. Per ora è importante notare che l’essere di Heidegger, il non identico di Adorno, la differenza di Deleuze spingono tutti verso un piano che è ulteriore e più vasto rispetto a quello del soggetto e dell’uomo, che rappresentano piuttosto delle variabili all’interno di esso. Non solo, ci si potrebbe spingere a dire che i progetti filosofici dell’anti-heideggeriano Adorno e del non heideggeriano Deleuze vadano loro malgrado nella direzione di un superamento della metafisica; certo, il primo dà all’esito finale del suo pensiero proprio l’ambiguo nome di “metafisica” e vede un possibile accesso a esso nel riconosci-mento da parte dell’uomo di se stesso come natura (termine per Heidegger compromesso con la tra-dizione metafisica), il secondo vuole restare un “metafisico puro”. Ciò non toglie che le loro filosofie della differenza siano tra i più espliciti e suggestivi tentativi novecenteschi di liberare il pensiero dalle secche dell’umanismo e di spezzare quel dominio del soggetto che, indicato da Heidegger come esito estremo della metafisica, ha rischiato di distruggere proprio chi (comunque lo si voglia chiamare) in questo dominio ha assunto il ruolo di sovrano.

a) Che cosa significa metafisica?

È difficile selezionare nella vastissima produzione heideggeriana i testi che parlano della storia della metafisica, considerando il fatto che l’autore riprende spesso il tema, variandolo continuamente e mettendolo in luce sempre diversa. Dobbiamo anzitutto vedere cosa significa per Heidegger il ter-mine metafisica. A partire da un particolare momento di essa, potremmo forse cogliere meglio la sua

8 Per questa periodizzazione cfr. G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, Roma-Bari, 1971, 1991, p. 62, p. 98 e

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