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Indigentia? Fenomenologia e marxismo, soggetto e bisogno

Il soggetto, lo si è visto, è un “qualcosa” di difficile da afferrare concettualmente, non solo perché in esso il meditante e l’oggetto della meditazione coincidono, ma perché è percorso da un’antinomia, che rende arduo sia comprenderne la natura sia esprimere un giudizio di valore su di esso; non è peraltro semplice capire se queste difficoltà affettino l’identità soggettiva in quanto tale (ammesso che si possa parlare in questi termini), in qualsiasi tempo e luogo, o se si tratti di un fenomeno tipico della civiltà occidentale, nella traiettoria che la porta dalla prima età moderna all’era atomica. Ab-biamo cercato di esprimere tale antinomia servendoci di Husserl e Heidegger; proprio per l’unilate-ralità con cui affrontarono la questione della soggettività, che forse non permise loro di coglierne il carattere ambivalente, essi possono essere visti come figure paradigmatiche dei due “rami” dell’an-tinomia. Si è visto anche che il tema del soggetto ha valenza politica, anzitutto perché è intrinseca-mente legato a quello dominio; l’antinomia del soggetto può essere colta in maniera più chiara proprio attraverso questo rapporto: il soggetto da un lato è assoggettamento da parte dell’uomo dell’altro uomo e della totalità degli enti, assoggettamento di cui Heidegger accentua la natura tecnica, ricon-ducendolo a quella che potremmo definire un’“ipertrofia” del soggetto; d’altro lato il soggetto può, in quanto coscienza, rendersi conto di se stesso come l’artefice di quel dominio e contribuire al suo rovesciamento: anche se Husserl (poco interessato a questioni politiche) non tocca esplicitamente il tema del dominio, egli ravvisa la ragione della crisi delle pratiche scientifiche proprio in una “ca-renza” di riferimento al soggetto che le compie e – se pensiamo al fatto che a tale crisi corrisponde la riduzione dell’uomo a ingranaggio anonimo della totalità politica o economica di cui fa parte – po-tremmo concludere che il dominio è qui invece legato a una sparizione del soggetto. Come venire a capo di questa antinomia? Si può cominciare dicendo che essa non va trattata come un antagonismo che vede contrapposte fenomenologia e ontologia e in cui si tratterebbe di prendere partito invocando rispettivamente “più” o “meno” soggetto; né “hegelianamente” come una contraddizione dialettica in cui l’auto-posizione del soggetto andrebbe negata in una sorta di Entäußerung novecentesca che lo ricondurrebbe all’essere (che Heidegger distingue comunque da qualsiasi “oggettività”), la quale a sua volta verrebbe negata da una “nuova” soggettività, che supera e al contempo mantiene i due mo-menti precedenti. Non bisogna “risolvere” l’antinomia, ma cercare di mantenersi al suo interno e di chiarirne per quanto possibile la natura e l’origine, che saranno da ricercarsi tanto nella storia delle idee quanto nella costellazione sociale in cui tali idee sono nate. Se questa risposta può sembrare a prima vista deludente, si ricordi che si tratterebbe di un’operazione simile a quella dei marxisti fran-cofortesi. La loro dialettica rimane “aperta”, in quanto i termini sono pensati nella loro relazione reciproca senza che nessuno sia ridotto all’altro; tale dialettica sarebbe produttiva proprio in

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riferimento al nostro problema: il soggetto-coscienza, il “portatore” della ratio, perde se stesso pro-prio perché, nel suo progressivo distaccarsi dal non-identico, tende ad assolutizzarsi e si rovescia in cieca natura; il soggetto può ridivenire tale solo se pensa se stesso nella relazione con l’altro da sé, dalla quale non può essere sottratto, pena la sua sparizione in quanto soggetto. L’antinomia ruota intorno a questo rapporto tra coscienza ed essere, soggetto e altro, identità e differenza, uomo e natura; si tratta di coppie concettuali che la filosofia ha sempre pensato, con esiti diversi, lungo tutto il suo corso. Il rischio rimane però quello di maneggiare concetti “vuoti”, scadendo nell’astrattezza di una riflessione lato sensu “metafisica”, incapace di conferire senso e valore alla nostra esperienza vissuta; come pensare allora tali concetti e rapporti in maniera più concreta? Un aiuto potrebbe venire proprio da uno dei due indirizzi filosofici richiamati. L’ontologia fondamentale – la quale, tranne nella sua fase iniziale, tende a pensare il Dasein (ciò che in essa più si avvicina al concetto di soggetto) solo in rapporto all’essere e dunque non secondo un’analisi immanente a esso – è forse meno adatta allo scopo, pur potendo contribuire d’altra parte a un “decentramento” del soggetto che ne rovesci l’“as-solutismo”. La fenomenologia – per quanto rischi continuamente di restaurare il primato idealistico della coscienza e della rappresentazione – può invece offrirci alcuni strumenti: anzitutto si tratterà di mettere tra parentesi concetti come identità e differenza, per riportarci a ciò che è più semplice, cioè a ciò che possiamo sperimentare in prima persona; cosa ci rimane? Non rimane altro che il rapporto (alla luce del quale soltanto identità e differenza acquistano senso) tra noi che riflettiamo, qui presenti in carne e ossa, e il mondo (naturale e sociale) che ci circonda; non basta: il mondo, proprio perché reca dei condizionamenti che inficerebbero con pregiudizi la meditazione, deve essere anch’esso “ri-dotto” e trasformato in correlato intenzionale del soggetto. Non si dà qui un ritorno dell’idealismo? Il rischio in effetti permane, anche se bisogna ricordare che la relazione tra la coscienza e i suoi “oggetti” è bidirezionale: anche la coscienza si modifica in base a essi e, anzi, la relazione precede addirittura i termini da cui è composta. Qui ci troviamo forse già al di fuori della fenomenologia di Husserl e all’interno del relazionismo di Paci; i due filosofi sono tuttavia vicini perché cercano en-trambi delle risposte alla questione delle scienze che, se di primo acchito sembra portarci lontano dal problema del soggetto, consente a ben vedere un approccio concreto come quello che stiamo cer-cando. Si ricorderà che per i due pensatori le scienze vanno rifondate perché, una volta omesso il riferimento al soggetto, perdono il loro senso: esse vanno riportate al mondo “precategoriale” della doxa, in cui troviamo un soggetto concreto che vive la propria esperienza altrettanto concreta; sol-tanto a partire da questa, allo scopo di renderla più certa (dunque ripetibile e universalizzabile), si è formato qualcosa come la scienza con le sue categorie. Le esperienze compiute nel precategoriale sono contraddistinte dal carattere dell’intenzionalità, ossia dal fatto che in esse la coscienza si dirige verso i propri oggetti. Emerge peraltro qui uno dei molti paradossi che caratterizzano il soggetto: il

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mondo precategoriale coincide (come nota Paci) con la Lebenswelt, ossia con il mondo ridotto a fe-nomeno del soggetto trascendentale, quando però è anche quest’ultimo a fondarsi progressivamente (insieme alle sue costruzioni teoriche e alle sue pratiche) nel precategoriale. Un’altra difficoltà con-siste nella nozione stessa di intenzionalità: non si tratta solo dell’ambiguità lessicale del termine (forse accentuata dalla lingua italiana), che rimanda a una preminenza della volontà cosciente; il pericolo (sebbene nella relazione i due termini non siano separati) è sempre quello di rimanere nella polarità tradizionale di soggetto e oggetto, in cui il primo sarebbe qualcosa di compiuto che dirige il suo “raggio” verso il secondo che, altrettanto compiuto, si offre immobile al suo sguardo. Anche la nostra trattazione ha incontrato e incontrerà paradossi e difficoltà di questo tipo. Bisogna a ogni modo cer-care di pensare l’intenzionalità come un rapporto in cui il soggetto si forma via via, modificandosi assieme al suo oggetto (che si preciserà anch’esso man mano). Ora, tale rapporto è raramente “neutro” e verosimilmente il comportamento teoretico e disinteressato compare in una fase relativamente tarda dell’umanità; la coscienza (o ciò che diverrà tale) è attratta, respinta o indifferente rispetto agli enti che incontra nel suo cammino, a seconda che essi siano vantaggiosi, nocivi o inutili ai fini della sopravvivenza del soggetto (o ciò che diverrà tale) cui appartiene; è del resto lo stesso Descartes a indicare come cogito qualsiasi rapporto (non solo intellettivo, ma anche percettivo, immaginativo…) tra l’ego cogitans e i suoi cogitata.

Questo rapporto può essere segnato dunque anche dalla sensibilità e dall’affettività: è merito di Enzo Paci aver mostrato per primo – anticipando peraltro alcune nostre intuizioni – come l’intenzio-nalità possa essere pensata secondo le modalità del desiderare (riprendendo indicazioni fornite da Husserl nei manoscritti appartenenti al gruppo E)1 o dell’avere bisogno (legando il relazionismo alla propria particolare riscoperta del marxismo). Perché, tra tutte le modalità intenzionali, scegliere pro-prio il bisogno? Per parte nostra, crediamo che in esso si manifestino particolarmente l’origine del soggetto, il suo carattere diveniente, nonché il suo rapporto con l’alterità e la concretezza materiale. Il soggetto non è infatti tale se non nel continuo rivolgersi (prima ancora che a se stesso) a contenuti “oggettivi”, altri rispetto a esso; come si è visto, questo rivolgersi è caratterizzato da attrazione, se l’oggetto è visto come suscettibile di incrementare le possibilità di vita, o da repulsione, se è visto come minaccia alle stesse; in entrambi i casi interviene il bisogno: l’“oggetto” è visto come la poten-ziale soddisfazione di un bisogno che garantirebbe la sopravvivenza (o comunque una vita migliore) oppure, negativamente, come un ostacolo che frustra tale bisogno. Il soggetto scopre la propria di-pendenza rispetto ai suoi oggetti intenzionali e, paradossalmente, più è soggetto, più è costretto a

1 Si tratta dello scritto di Husserl, Teleologia universale, appartenente al manoscritto E III 5, settembre 1933, trascritto da

M. Biemel il 18 agosto 1952, e tradotto da Paci in Tempo e verità, cit., pp. 256-269, che vedremo meglio nel capitolo quinto della nostra ricerca.

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riconoscere la sua dipendenza da altro. Il soggetto è bisognoso: ha bisogno di altri “oggetti”, che non saranno banalmente solo i mezzi di sussistenza o di arricchimento materiale, ma anche gli altri indi-vidui, oppure gli oggetti con cui potrà arricchire la sua formazione culturale o le istituzioni politiche in cui il suo bisogno di libertà sarebbe maggiormente tutelato. In realtà il nostro modo di parlare è fuorviante e discende dalle difficoltà sopra citate, che forse non sono evitabili restando all’interno della fenomenologia: si potrebbe pensare che vi siano da una parte un soggetto bisognoso, dall’altra un oggetto del bisogno; in effetti tale impostazione, sottintesa nel discorso di vari autori che hanno studiato (prevalentemente in ottica marxista) il bisogno, ci autorizzerebbe a pensare una soggettività, quasi sempre collettiva, portatrice di bisogni, di cui è consapevole (coscienza di classe) e per proteg-gere i quali può farsi portavoce di una rivoluzione che liberi l’umanità (lotta di classe) dai rapporti sociali che ne ostacolano lo sviluppo. Crediamo tuttavia che le cose siano più complesse: anzitutto il presupposto implicito non è altro che la secolare divisione tra soggetto e oggetto, la quale non può essere liquidata come questione “metafisica” di cui il marxista, impegnato nella critica dei rapporti sociali capitalistici, non si può occupare; tra le idee metafisiche e i sistemi sociali in cui esse nascono c’è un rapporto di produzione reciproca, che non si può ignorare se non si vuole precludersene la comprensione, cadendo preda di entrambi. Pensiamo che non si possa parlare propriamente di un soggetto formato, con dei bisogni che cercherà coscientemente di soddisfare procurandosi gli oggetti adatti; il soggetto si formerebbe invece letteralmente nel bisogno, nel lungo e spesso cieco tentativo di soddisfarlo. Si pensi all’uomo affamato, eccitato sessualmente, o indifeso militarmente: nell’ur-genza del bisogno è possibile che egli ne sia sopraffatto, esposto al rischio, incapace di riconoscersi come soggetto; eppure egli è in grado di sentire questa sua indigenza con una forza che lo costringe, se non vuole perire, al pensiero e all’attività2. Più questo soggetto allo stato “larvale” è indigente di mezzi, più è costretto a escogitare espedienti per procurarseli, facendosi via via più ricco material-mente e accorto sul piano pratico, fino a divenire soggetto autoconsapevole; ovviamaterial-mente è possibile (a livello di civiltà, come di singoli individui o gruppi) che la consapevolezza sia ostacolata sia da una carenza di mezzi eccessiva per poter innescare l’intero processo, sia da un’opulenza tale da ren-derlo inutile e arrestarlo. In estrema sintesi, il soggetto si fonda su qualcosa di non riducibile a esso (su altro, appunto), ma questo rapporto con l’altro si basa spesso su un “avere bisogno di”: il bisogno sembra allora un concetto (certo, non il solo) particolarmente produttivo per pensare il soggetto, sia

2 Per Deleuze ad esempio pensiamo perché sentiamo la violenza di qualcosa che ci spinge a farlo, cfr. Nietzsche e la

filosofia, pp. 161 e ss. e Differenza e ripetizione, pp. 181 e ss., secondo il tema della paideia, presente nel libro VII della

Repubblica platonica, cfr. Platone, Repubblica, 514c: va però detto che tale educazione, coercitiva eppure liberale (perché

consente all’educando di vedere poi da sé le idee), ci è imposta da altri, cfr. B. Centrone, nota 3 al VII libro della

Repub-blica, ed. cit., p. 778, a segnalare il carattere “sociale” dell’educazione; potremmo tuttavia chiederci quanto tale

educa-zione lasci spazio alle libere scoperte dell’allievo e quanto invece le idee che essa porta l’allievo a vedere non siano quelle di una società data, nei suoi ruoli determinati.

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nella sua natura (che cos’è un soggetto?) sia nella sua genesi (come nasce un soggetto?), che del resto sappiamo essere legate3. Il bisogno può dunque illuminare la questione del soggetto, la quale a sua volta è di importanza decisiva per quanto riguarda la domanda circa il fondamento delle scienze: su cosa si possono fondare le scienze se si prescinde da chi e a vantaggio di chi le pratica, dal soggetto concreto? Invero il nesso di problemi, già intricato, si complica ulteriormente se si considera che è impossibile pensarlo al di fuori della sua dimensione politica (già introdotta parlando del rapporto tra soggetto e dominio). Si è parlato troppo semplicemente del soggetto come se esso fosse un individuo isolato, quando invece tutto rimanda all’intersoggettività: il soggetto non è mai solo, ma sempre in relazione ad altri, insieme a cui darà vita a comunità intersoggettive, le quali tesseranno relazioni con altre comunità, con cui daranno vita a civiltà, a loro volta in relazione con altre civiltà. Sorge a questo punto un problema: l’intersoggettività rimanda alla relazione tra soggetti come se questi fossero già formati, quando è fatto piuttosto accettato che il soggetto si forma solo all’interno della società (anche se bisogna sempre ricordare che la società è sempre formata da singoli, se non si vuole utilizzare il termine “società” come vuoto concetto generale o, peggio, convalidare l’ideologia del sacrifico del singolo nel collettivo). Altro paradosso, dunque: l’intersoggettività “viene prima” del soggetto stesso (il quale eventualmente poi può riflettere su di essa, contestarla o distaccarsene); si pensi alla vita simbiotica tra il primitivo e la sua comunità o alla bella eticità dei Greci che, nella perfetta compene-trazione tra cittadino e polis, Hegel contrappone alla morale moderna fondata sull’autonomia indivi-duale; ancora nel mondo odierno vediamo quanto l’interiorizzazione delle norme sociali sia fonda-mentale nella formazione del soggetto (ed è soprattutto per questa via che la soggettività può farsi strumento di dominio). Tutto quello che si può dire del soggetto individuale – della sua genesi e della sua natura, del suo fondarsi in un mondo precategoriale in cui trovano origine anche le sue pratiche scientifiche – deve potersi dire delle società e delle civiltà; anzi, la fondazione soggettiva delle cate-gorie scientifiche non può essere individuale, ma è sempre collettiva, come collettivi sono il loro scopo (favorire la vita di una società), i loro mezzi (il linguaggio e le altre forme simboliche devono favorire la più larga intellegibilità), la loro pratica (la comunità degli scienziati). In questo contesto il bisogno comincia a rivelare la sua portata sociale; anzitutto le modalità di soddisfazione dei bisogni implicano quasi sempre azioni di gruppo: il bisogno di cibo vede all’opera agricoltori, allevatori,

3 Si potrebbe fare un discorso analogo per il desiderio, ma per ragioni metodiche esso andrà studiato in seguito, analiz-zandolo inoltre nella sua relazione col bisogno e nella sua distinzione da questo: il desiderio, di cui la psicoanalisi evi-denzia il carattere inconscio, sembra sottrarsi maggiormente alla coscienza rispetto al bisogno – del resto alcuni marxisti indicano nel bisogno il desiderio consapevole, cfr. Á. Heller, La teoria dei bisogni in Marx, trad. it. di A. Morazzoni, Feltrinelli, Milano, 1974, pp. 45-46: l’autrice attribuisce, è vero, sulla scorta dell’Ideologia tedesca di Marx, al bisogno una politicità che il desiderio non avrebbe, ma noi cercheremo di mostrare nella quinta sezione il carattere politico del desiderio stesso – e dunque in esso l’alterità rispetto al soggetto sarebbe più accentuata; d’altro canto, mentre il bisogno pare riferirsi (anche se non esclusivamente) a oggetti materiali, il desiderio sembrerebbe intercorrere tra individui e dun-que riavvicinarsi maggiormente alla soggettività.

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commercianti, cuochi, prima di essere soddisfatto a tavola, il bisogno sessuale implica chiaramente una soddisfazione condivisa, il bisogno di vestiti, attrezzi e abitazioni mette in moto attività produttive svolte collettivamente. Più radicalmente, quanto detto a proposito del bisogno (ossia che esso po-trebbe aiutare a comprendere l’origine del soggetto in ciò che è altro da sé) si applica forse a maggior ragione alle società, le quali da un lato vanno intese come dei “macrosoggetti” in quanto composte da individui senza i quali non avrebbero senso, dall’altro rappresentano l’insieme di condizioni entro cui il soggetto si forma: la società stessa necessita di un rapporto con ciò che sta al di “fuori” di essa, sia esso un’altra società o la natura selvaggia, e questo rapporto ha l’urgenza di un bisogno (che può essere la mera sopravvivenza o la prosperità della società stessa), il quale si dispiegherà in una serie di bisogni particolari. Anche qui però non si dovrebbe parlare di società già formate, con bisogni di cui i loro membri sono consapevoli: crediamo che una delle ragioni per le quali le società si formano sia proprio quella di riuscire a soddisfare meglio determinati bisogni, che non sarebbero appagabili dal singolo. Lo stesso Platone, nei libri della Repubblica in cui si interroga sulla nascita della polis, mette al centro dell’indagine l’esigenza di soddisfare bisogni elementari come il cibo, il vestiario, la sicurezza, a partire dai quali si determinerebbero anche i ruoli sociali4. Una precisazione terminolo-gica: abbiamo usato i termini “sociale” (che rimanda a un generico sodalizio tra uomini) e “politico” (che implicherebbe invece leggi, istituzioni e rapporti di potere che regolano il funzionamento della società) come sinonimi; il fatto è che tra i due ambiti c’è un rapporto strettissimo (forse ancora più saldo nella polis greca, laddove la distinzione hegeliana tra Stato e società civile è resa possibile solo dagli sviluppi storici della modernità); il bisogno è alla base tanto del sociale, quanto del politico e potrebbe anche illuminare il passaggio dal primo al secondo: il bisogno di sicurezza ad esempio può essere garantito solo con l’esercizio delle armi da parte di un collettivo (sociale) di guerrieri che deve poi rispondere alle direttive dello Stato (politico), che si costituisce anche a tal fine. Come nel caso del soggetto, il rapporto tra la società e l’alterità in cui essa si forma è segnato dal bisogno, il quale

4 Platone nel libro II della Repubblica, 369b-372c, sostiene per bocca di Socrate, una nascita della polis a partire dal

bisogno, χρεία, in quanto nessuno basta a se stesso (cibo, casa, vestiti); a partire dal bisogno si stabiliscono anche i primi ruoli sociali, contadini, artigiani, commercianti, poi mercenari; Socrate, cfr. 372c-374d, spinto da Glaucone, comincia poi

a ipotizzare, sulla base di bisogni più raffinati, un’espansione quantitativa e qualitativa della città, che però porta alla guerra e alla nascita della classe di guardiani, dapprima i guerrieri (via via nel dialogo i politici-filosofi, cfr. Centrone, nota 47 al libro II, p. 729); interessante vedere come lo sviluppo dei bisogni porti a quello della comunità politica, come accadrà nella teoria marxiana dello sviluppo dei bisogni su quello delle forze produttive, anche se nella comunità antica un ruolo più centrale è rivestito dalla guerra. È interessante inoltre confrontare Platone con Aristotele, che dopo aver posto come scopo della nascita della polis l’autosufficienza e il bisogno di tutelare la vita, cfr. Politica, 1252b-1253a, 1261b, sembra teorizzare anch’egli un incremento della qualità della vita, quando parla di buona vita, cfr. 1280a, la quale fa della

socialità stessa (come a precorrere uno dei “bisogni radicali” dei marxisti) quasi un bisogno in quanto tale, cfr. 1278b;

per Aristotele però nella costituzione migliore gode della cittadinanza solo chi può esercitare una virtù, mentre escluso dalla virtù, dunque dalla cittadinanza, è chi svolge lavori manuali (che a rigore soddisfano bisogni “necessari”), cfr. 1277b-1278a; anzi, in 1328a-1329a, Aristotele dice che ciò e chi ha a che vedere con la vita necessaria (dunque i lavora-tori manuali, che è meglio che siano schiavi) non è veramente parte della città; vi è dunque in Aristotele un’embrionale distinzione tra bisogni “necessari” ed “elevati” e un’esclusione dei primi dal politico.

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