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Luciano Sesta Docente di Bioetica Università di Palermo

Direttore di “Questioni di Bioetica” email: lsesta@questionidibioetica.it RIVISTA QUADRIMESTRALE DI BIOETICA 11 - 2012

un cliché molto diffuso soprattutto in Italia – ma esponenti di una stessa fede che, tuttavia, appartengono a confessioni diverse. La comune radice religiosa, in questi casi, sembra accentuare i contrasti, che si fanno più insormontabili di quelli che si accenderebbero, ipotizziamo, fra un ateo e un credente. Ciò acca- de, forse, per un motivo analogo a quello che vede le inimicizie più aspre fra parenti piuttosto che fra estranei. In effetti, dove c’è qualcosa di comune le ten- sioni e i conflitti appaiono più vistosi, soprattutto se questo qualcosa di comu- ne non è un semplice legame di sangue o una Weltanschauung politica e filoso- fica, ma una fede religiosa. Vuoi o non vuoi, infatti, c’è, nella religione, una pre- tesa totalizzante che manca in altre forme di appartenenza. Anche quando que- sta pretesa è declinata in senso tollerante e liberale – come succede in certe chie- se riformate o anche nelle comunità valdesi italiane – l’intransigenza con cui si condanna la versione non liberale (che spesso è identificata con quella cattoli- ca) della religione professata, sembra confermare la presenza di un elemento “incondizionato” all’interno di ogni esperienza e confessione religiosa.

2. Savarino ricorda, giustamente, «che la questione dello statuto ontologico dell’embrione non è l’unico problema etico di un’indagine sulle problematiche relative all’origine della vita». Ci sono, a ben vedere, anche problemi come quel- li «della parità di accesso alle cure mediche tra cittadini dei paesi occidentali e paesi in via di sviluppo», quelli relativi all’«allocazione delle risorse terapeuti- che e, non ultimo, il problema della disponibilità di ovociti». Non direi però, come fa Savarino, che il problema dello statuto ontologico dell’embrione, oltre a non essere l’«unico» problema, non è «nemmeno» quello «principale». E infatti, una volta che si sia ammesso che il sacrificio di embrioni umani richiesto dalle pratiche di FA è uno dei problemi, non si potrà negare che sia il principa- le. Se prima non si affronta questo problema – in qualunque modo lo si voglia poi risolvere – concentrarsi sui problemi di disponibilità degli ovociti o di pari- tà di accesso alle pratiche di FA nei paesi in via di sviluppo è fuorviante. È evi- dente, infatti, che domandarsi se un’azione comporta o non un ingiusto sacrifi- cio di esseri umani è più importante di domandarsi in quale modo può essere garantita a tutti un’equa possibilità di compierla. Mutatis mutandis, in tema di trapianti di cuore non ci si può concentrare sulla giusta distribuzione degli orga- ni disponibili nelle liste di attesa senza dare prioritaria importanza al problema dell’accertamento della morte del donatore. Analogamente al caso dello statuto dell’embrione umano, si può dire senz’altro che qui il problema dell’accerta- mento della morte non sia l’unico, ma non si può negare che sia il principale.

Pur riconoscendo che nel mio testo si offre una confutazione della tesi che nega individualità ontologica all’embrione precoce, Savarino ritiene che in ogni caso rimane un «ragionevole dubbio». L’embrione precoce, in virtù della possi- bilità di gemellazione, potrebbe in effetti non essere ancora un individuo.

Sull’idea che un’argomentazione filosofica, per quanto buona, non possa risol- vere qualunque dubbio mi trovo perfettamente d’accordo con Savarino. Ed è quanto sostengo io stesso nel mio volume, quando, alla fine del secondo capito- lo, dedicato al problema dello statuto dell’embrione umano, riconosco che le argomentazioni pro e contro si bilanciano, mantenendo aperta la questione (non a caso il titolo del volume fa riferimento a un’origine della vita che, appun- to, è “controversa”). Ciò che conta, però, non è se vi siano o non dei dubbi, ma a) la qualità degli argomenti utilizzati per districarli e b) il grado di responsabi- lità morale che siamo disposti a investire nel gestire questa situazione di dubbio. Su questo secondo punto, a mio parere, l’argomento più plausibile rimane anco- ra quello tuzioristico, a cui ho fatto ampio ricorso nel mio testo e di cui ho anche cercato di evidenziare la capacità di superare le obiezioni che tradizionalmente gli vengono mosse. A mio avviso, infatti, di fronte al dubbio circa l’effettiva individualità dell’embrione umano, la soluzione più ragionevole è quella di trat- tarlo come un individuo. L’adagio in dubio pro libertas, infatti, può avere un senso quando il dubbio riguarda eventuali danni che possono coinvolgere se stessi, non gli altri. In caso contrario, ed è il caso degli embrioni umani che manipoliamo e sacrifichiamo con la FA, sarebbe più giusto astenersi, anche a prezzo di dolorose rinunce. A prescindere da qualunque opinione si abbia in merito, infatti, è oggettivamente preferibile dover tollerare la limitazione della libertà di un essere umano piuttosto che la sua ingiusta soppressione. Riconoscendo che nel caso della FA è in gioco da un lato il «desiderio, non il diritto» della coppia, e, dall’altro lato, il «ragionevole dubbio» che l’embrione sia (o non sia) persona, Savarino potrà concedermi che non si tratta di una con- clusione peregrina.

3. Dopo aver argomentato “laicamente” sullo statuto dell’embrione umano, Savarino discute la questione del “caso ideale” – e cioè di un intervento di FA che non comporta sacrificio di embrioni – dichiarando di non condividere la mia tesi a partire dallo stesso punto di vista da cui mi pongo anch’io, e cioè quel- lo di una «bioetica cristiana». Quest’affermazione mi lascia però perplesso. Non già perché io dubiti dell’esistenza di qualcosa come una “bioetica cristiana” o perché ritenga improprio assumerla come punto di vista, ma più semplicemen- te perché non è ciò che ho fatto. Nel mio libro, infatti, non ho mai assunto un punto di vista “cristiano”, limitandomi a discutere i problemi sulla base delle diverse argomentazioni, scientifiche e filosofiche, pro e contro la fecondazione assistita, con tutte le sfumature teoriche e pratiche che “laicamente” – e dunque razionalmente – si possono ritrovare in questi argomenti. Non che abbia un’idea della “ragione laica” come possibile cavallo di Troia di tesi cattoliche. Ritengo, piuttosto, che qualsiasi tesi, da qualunque parte provenga, debba essere tradot- ta – per dirla con Habermas (o anche con Rawls) – nel linguaggio delle cosid-

dette “ragioni pubblicamente accessibili”. L’idea di affrontare la questione anche da un punto di vista di bioetica cristiana, in ogni caso, non mi dispiace. Vorrei perciò aggiungere alcune osservazioni su quanto al riguardo sostiene Savarino, e lo faccio, naturalmente, dal punto di vista cristiano che mi è più familiare, e cioè quello cattolico, senza nessuna pretesa che si tratti del punto di vista “veramente” cristiano.

Dopo aver ricordato la mia tesi sulla strumentalizzazione del nascituro che si consuma nel “caso ideale”, Savarino fa notare che in questa mia riserva rischia di agire «l’ingenua pretesa di una purezza morale che agli umani non è dato attingere». In effetti, prosegue Savarino, «Non è forse il figlio frutto delle tecni- che di riproduzione medicalmente assistita (anche) un investimento umano, fatto di molteplici aspettative, desideri e sentimenti, tra i quali la gratitudine verso Dio, per i credenti, allo stesso modo di un figlio naturalmente concepito? E non è forse la riproduzione naturale (anche) la produzione di un oggetto figlio, nella misura in cui anche la riproduzione naturale può essere, pur in accordo con i ritmi della natura, decisa e intenzionalmente prodotta?».

Riconosco che forse la mia insistenza, nel quarto capitolo del testo, su que- sto aspetto del problema giustifica l’impressione di Savarino. Ho ricevuto osser- vazioni analoghe, su questo punto, da altri amici e colleghi e penso che se doves- si riscrivere quel capitolo non lo farei nel modo in cui l’ho fatto. La tesi che ho sostenuto, tuttavia, mi convince ancora. La esprimerei, per giungere subito al nodo della questione, in questi termini: l’esistenza in vita di un altro, che trova

nel concepimento il suo umile inizio biologico, non è mai il prodotto di una nostra decisione. Nel mio testo ho cercato di offrire un’ampia argomentazione antro-

pologica ed etica che potesse giustificare questo assunto, condiviso, fra gli altri, da autori di diversa impostazione come J. Habermas, R. Spaemann, M. Moneti Codignola e altri. Ma visto che Savarino mi ha garbatamente “trascinato” nel- l’orizzonte della bioetica cristiana, cercherò di declinare brevemente l’assunto anche in termini più teologici.

Sulla possibilità che, soggettivamente, una coppia che procrea artificialmen- te possegga un atteggiamento moralmente migliore di una coppia che procrea naturalmente non ho mai espresso dubbi, nemmeno nel mio testo. Qui non si tratta di impegnarsi in un odioso processo alle intenzioni. Il problema è un altro, e riguarda le azioni, non le intenzioni. L’obiezione che Savarino muove alla mia tesi potrebbe funzionare solo a condizione di non distinguere la mora- lità dell’agente da quella dell’agire. Distinzione che mi sono invece preoccupa- to di tracciare con chiarezza, non a caso, già nell’introduzione del libro. A risul- tare discutibile è dunque l’intervento di FA, anche a prescindere dall’intenzio- ne della coppia. Sono del tutto d’accordo con Savarino quando afferma che, in generale, «la tecnica costituisce (anche) una legittima cooperazione umana all’opera creatrice di Dio e non una (semplice) deviazione dalla realizzazione del

piano divino che si manifesta nell’ordine naturale». Ma questo vale anche, nello specifico, per un intervento tecnico di FA?

Non è possibile affrontare la questione in poche battute. In questa sede direi soltanto questo: con quale criterio stabilire dove finisce la legittima cooperazio- ne all’opera creatrice di Dio e dove comincia l’arbitrio di chi segue soltanto il proprio sovrano giudizio? Quando si cerca di giustificare teologicamente la FA la mia impressione è che si adotti un ragionamento del tipo: visto che la tecnica è ormai andata avanti prima di chiedersi cosa significhi collaborare con Dio, vediamo se possiamo, a posteriori, trasformarla in una collaborazione con Dio. Se dobbiamo “collaborare” con Dio, però, dobbiamo poterne udire la voce prima e al di là di ciò che è tecnicamente disponibile. In caso contrario non potremmo mai capire quando la tecnica “collabora” con Dio e quando, invece, distorce il suo disegno. Questo sguardo critico, se vuole essere religiosamente fondato, non può derivare da procedure di accordo democratico, né da una semplice consultazione della propria coscienza: “le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi, Signore, dalle colpe che non vedo” (Sal 19, 13). La mia idea è che una volta rimosso il (pur controverso) riferimento alla natura, non c’è più alcun criterio che possegga quella stessa “indisponibilità” che, in fondo, non fa altro che richiamare l’alterità del Dio con cui siamo chiamati a collaborare. “Collaborare”, peraltro, è diverso da “fare per realizzare”, come invece avviene nella FA. Per collaborare bisogna lasciare un margine di intervento a colui con cui si collabora, altrimenti la parola “collaborazione” è solo un flatus vocis. Rievocando l’idea del salmo secondo cui “I figli sono un dono del Signore” e che “è suo dono il frutto del grembo” (Sal 127, 3), la formula donum vitae, uti- lizzata dal celebre documento della Chiesa cattolica, vorrebbe descrivere appunto questo margine di intervento che noi lasciamo a Dio, affinché l’altro, il figlio, ci venga incontro senza mai essere solo il frutto di una nostra decisione e di una procedura finalizzata a “ottenerlo”. In questo senso una tecnica di colla- borazione può significare, per esempio, soltanto intervenire sul cattivo funzio- namento biologico dell’apparato riproduttivo – sulla causa seconda, per espri- merci con i termini della scolastica medievale – e non assemblare in vitro un figlio – frutto invece della Causa prima. In quest’ultimo caso infatti, non si favo- risce l’apertura all’atto creativo di Dio ma si persegue ciò che da esso, eventual- mente, proviene, e cioè il figlio stesso.

4. A voler dunque rimanere dentro l’orizzonte teologico dentro cui Savarino mi invita, ci si dovrebbe chiedere se le sue obiezioni siano compati- bili con la logica della gratuità iscritta nell’atteggiamento cristiano nei con- fronti della vita. La vita è un dono perché non è oggetto di un fare umano. Nella FA, invece, la presunta “apertura” al dono della vita si esprime attra- verso una procedura che non è, nella sua natura obiettiva, un atto di chi

attende un dono, ma l’atto di chi cerca, nel modo più efficace, di risolvere un problema.

A tale riguardo, già Tommaso d’Aquino ha messo in evidenza, in modo esemplare, quanto l’idea di un agire “per realizzare al meglio” la volontà di Dio non sempre coincida con la volontà di Dio: «Ora può capitare […] che una cosa sia buona secondo un aspetto particolare [il desiderio di un figlio da parte di una coppia sterile] e non lo sia secondo un aspetto universale [per es. il bene che bambini orfani, nel disegno di Dio, potrebbero ricevere da parte di quella coppia]. Quindi può capitare che una volontà sia buona nel volere, sotto un aspetto particolare, una cosa che Dio non vuole sotto un aspetto più universa-

le»2. Ciò significa che l’uomo non ha tanto il compito di volere ciò che Dio

vuole, ma di volere ciò che Dio vuole che l’uomo voglia, nelle circostanze in cui

Egli ha permesso che si trovasse3. Pensare diversamente, mi sembra, oltre che

pericoloso – visto che ci avvicinerebbe a una sorta di fondamentalismo – è anche scarsamente compatibile con una logica genuinamente cristiana, in cui a risultare decisive non sono le nostre “opere”, ma la “grazia” di Colui che, nel- l’apparente povertà che ci troviamo a vivere, attende solo di donarci una ric- chezza superiore a quella che possiamo “tecnicamente” procurarci da noi stessi.

2Tomma D’Aquino, Summa theologiae, Ia-Ilae, q. 19, a. 10. 3Ibidem.

Il panorama italiano vede la luce della nuova collana di “Studi Bioetici” della Edizioni Camilliane, inaugurata con la pubblicazione del volume