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Il dibattito pubblico sulla RU486: alcune osservazion

Massimo Reichlin

Professore Associato di Etica della vita, Facoltà di Filosofia,

Università Vita-Salute San Raffaele, Milano RIVISTA QUADRIMESTRALE DI BIOETICA 11 - 2012

rispetto degli obiettivi dichiarati della legge, è essenziale, in primo luogo, che restino stabili i criteri relativi ai momenti e alle ragioni che giustificano l’inter- vento; inoltre, che si mantenga il ruolo di medici e consultori socio-sanitari nel- l’aiutare le donne a prendere decisioni meditate e responsabili; infine, che si attivino le strutture di sostegno alla maternità che possono consentire di rimuo- vere le cause che conducono all’aborto. Ora, non sembra esservi alcuna ragio- ne per pensare che questi principi vengano meno con il passaggio da una meto- dica chirurgica ad una farmacologica; anche in questo secondo caso, infatti, resta fermo il principio di una socializzazione della scelta abortiva, attraverso il colloquio presso le strutture sanitarie indicate dalla legge e la realizzazione del- l’intervento presso un ospedale pubblico o convenzionato, unitamente alle misure per rendere tale scelta il più possibile libera e consapevole. D’altro canto, la stessa legge 194, all’art. 15, promuove «l’uso delle tecniche più moder- ne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza». Ora, sembra chiaro, almeno in prima battuta, che la soluzione farmacologica sia più moderna e, considerata la sua inferiore invasività, anche più rispettosa della sua integrità fisica e psichica, rispetto ad un intervento chirurgico; infine, essa appare intuitivamente meno rischiosa.

Proprio una accurata valutazione di rischi e benefici, tuttavia, rappresenta un’importante considerazione che può essere avanzata per sollevare il dubbio sulla intuitiva preferibilità della via farmacologica. Infatti, è ormai noto che l’aborto farmacologico non può affatto dirsi privo di disagi, dolori e potenziali

complicanze1; si tratta pur sempre di un evento traumatico, nel quale la donna

è inevitabilmente sottoposta ai dolori legati alle contrazioni che conducono all’espulsione del feto. Il fatto che, con la soluzione farmacologica, la donna possa affrontare questo processo a casa propria, può senza dubbio costituire un vantaggio dal punto di vista della comodità; ma il vivere questa esperienza in solitudine, senza il sostegno medico e psicologico che può venire dall’essere ricoverati in una struttura ospedaliera, può anche rappresentare un aggravio della difficoltà psicologica, indubbiamente già presente in qualunque donna che faccia ricorso all’aborto. Alcuni dati, pur aneddotici e privi di un chiaro nesso causale, hanno poi suggerito la possibilità che l’aborto farmacologico si leghi ad un’aumentata incidenza di endometriti potenzialmente mortali; se confermati, questi risultati determinerebbero un aumento significativo dell’incidenza della mortalità nel metodo farmacologico, rispetto a quello chirurgico, a parità di età

gestazionale2. Questi due aspetti – il dolore e il disagio connessi alla fase espul-

1Su cui insistono ampiamente A. Morresi, E. Roccella, La favola dell’aborto facile. Miti e realtà della pillola

RU 486, Franco Angeli, Milano 2006.

2Vedi M. F. Greene, Fatal Infections Associated with Mifepristone-Induced Abortion, «New England Journal

siva e la necessità di gestire efficacemente le possibili complicanze del farmaco – giustificano, secondo molti, l’obbligatorietà del ricovero ospedaliero, come in effetti è stato dapprima raccomandato dal Consiglio Superiore di Sanità e dall’Agenzia Italiana per il Farmaco, e poi formalmente stabilito da parte di molte regioni italiane.

Come deve essere interpretata questa decisione? Costituisce un tentativo di limitare la libertà di scelta femminile, o addirittura di disincentivare la scelta abortiva, oppure può essere sostenuta con ragioni imparziali, poten- zialmente condivisibili da tutti? Mi pare di poter dire che l’intenzione alla base della decisione sia senza dubbio quella di garantire alla donna le miglio- ri condizioni per un esito positivo della procedura, dal punto di vista della sua personale incolumità fisica e psichica; in effetti, la necessità, per una donna che ricorre all’aborto farmacologico, di controllare le abbondanti per- dite di sangue e di accertare personalmente l’espulsione dell’embrione, non- ché la necessità, in molti casi, di utilizzare antidolorifici e, talvolta, anche antibiotici, sembrano suggerire il ricorso all’ospedalizzazione come soluzio- ne decisamente preferibile, in vista della stessa tutela della salute della donna. D’altro canto, la probabilità che, per una donna che abbia scelto – sicuramente non senza dolore e difficoltà – di rinunciare a portare avanti la propria gravidanza e che stia ponderando costi e benefici delle soluzioni chi- rurgica e farmacologica, la necessità di un ricovero possa costituire un disin- centivo consistente all’aborto mi pare possa considerarsi trascurabile; potrebbe tutt’al più costituire un disincentivo alla modalità farmacologica dell’intervento, ma per l’appunto ciò che è in questione è un bilanciamento di costi e benefici in vista dell’interesse complessivo della donna, non invece il diritto della donna, che la legge riconosce, di ottenere l’interruzione della gravidanza in certe condizioni.

In realtà, come è noto, nonostante la scelta del regime di ricovero adottata da diverse Regioni, non è possibile obbligare un paziente adulto a permanere in ospedale, e vi sono già stati casi di donne che, sottoposte alla procedura farma- cologica, hanno poi firmato per essere dimesse, con ciò riducendo di fatto il proprio trattamento ad un regime di day hospital. A fronte di questa situazione, ci si può chiedere se l’ipotesi – che pure è stata affacciata – di una normativa specifica, volta ad obbligare formalmente le donne a trattenersi in ospedale fino al completamento dell’iter abortivo costituisca una scelta opportuna e consiglia- bile. Ora, posto che il ricovero ospedaliero appare senza dubbio la soluzione migliore e più sicura, non si può non considerare il fatto che, in questo tipo di decisioni, entrano in gioco diversi fattori di carattere soggettivo che possono condizionare la scelta, al di là di quelli puramente medici; d’altro canto, si può anche rilevare che non in tutti i paesi in cui viene utilizzata la RU 486 si preve- de necessariamente il ricovero, dato il sostanziale consenso internazionale sulla

sicurezza di questo farmaco3. Alla luce di ciò, sembra preferibile che, ferma

restando l’indicazione generale per il ricovero, singoli casi in cui la donna abbia ragioni consistenti per non essere ricoverata vengano trattati sulla base di un’adeguata ponderazione del rapporto tra costi e benefici, attuata nel dialogo tra medico e paziente. In sostanza, ciò su cui si dovrebbe maggiormente insiste- re è la qualità della relazione terapeutica, in particolare la capacità del medico di presentare alla donna la più ampia informazione intorno agli aspetti positivi e negativi delle diverse opzioni e di aiutarla a decidere quale possa essere la via tutto sommato preferibile, tenuto conto delle sue specifiche condizioni. Una corretta esposizione del processo e dei suoi svantaggi può convincere la donna che fosse diversamente intenzionata a privilegiare la scelta del ricovero, che la può maggiormente tutelare dal punto di vista fisico e psicologico. Analogamente, d’altronde, un’adeguata informazione può indurre molte donne a preferire la soluzione chirurgica, che ha il vantaggio di essere più rapida e di non esporre la donna ai dolori, la febbre, la nausea che caratterizzano il percor- so farmacologico.

È vero che la legge 194, all’art. 8, afferma chiaramente che «L’interruzione della gravidanza è praticata da un medico del servizio ostetrico-ginecologico presso un ospedale generale»; sicché il regime di ricovero sembra risultare mag- giormente coerente con tale previsione, giacché in questo caso la donna perma- ne in ospedale fino al completamento della procedura. Tuttavia, è anche vero che la modalità farmacologica viene a sua volta attuata in ospedale e che il medi- co continua a seguire la donna quando si ripresenta in ospedale per i controlli. La preferibilità, in linea di principio, del ricovero e la sua più chiara coerenza con i principi della legge 194 non tolgono che, nei casi in cui vi siano ragioni plausibili per farlo, si possa attribuire al vantaggio di non doversi assentare da casa per diversi giorni un peso in grado di controbilanciare il vantaggio, in ter- mini di sicurezza, del ricovero ospedaliero.

Una diversa obiezione, che è stata largamente avanzata nel dibattito pubbli- co, è che la possibilità di far ricorso alla RU 486 banalizzi la scelta abortiva; derubricando l’intervento a semplice assunzione di una pillola, la via farmaco- logica sminuisce il senso di gravità morale dell’aborto e dunque allarga la stra- da a quello che dovrebbe comunque essere considerato un disvalore, magari necessario o inevitabile in talune circostanze, ma pur sempre qualcosa che andrebbe il più possibile disincentivata. Questa obiezione è plausibile, ma – mi pare – altamente dubbia. In linea generale, non si può negare che la sola esisten- za di una legge che depenalizza l’interruzione volontaria della gravidanza smi-

3Sicurezza certificata sia dall’OMS (vedi Safe Abortion: Technical and Policy Guidance for Health Systems,

World Health Organisation, Geneva 2003) sia dall’EMEA (vedi Committee for Medicinal Products for Human

nuisca in certo senso la gravità morale dell’aborto; e, indubbiamente, qualsiasi miglioramento tecnico o scientifico che renda più sicuro o meno disagevole l’in- tervento potrebbe essere considerato un fattore che indirettamente promuove la pratica abortiva. L’aspetto centrale, dal punto di vista morale, è però la per- cezione del valore della vita umana e dell’obiettivo disvalore della sua uccisio-

ne, anche allo stadio fetale; ciò che conta, da parte di chi si oppone all’aborto4,

o lo considera tutt’al più un male talvolta inevitabile, è stimolare questa perce- zione, la quale è in grado di incidere sulla effettiva presa di decisione. Tale deci- sione, mi pare di poter dire, è anteriore alla scelta tra via chirurgica e via farma- cologica e si può sensatamente sostenere che, nella stragrande maggioranza dei casi, non sia influenzata dalla disponibilità dell’una o dell’altra modalità prati- ca. Non è il divieto dell’aborto farmacologico, in altri termini, a rendere possi- bile una riduzione del tasso di abortività, ma la costante formazione delle coscienze al valore della vita umana e della genitorialità responsabile. Ciò che conta, dal punto di vista etico, è porre tutte le condizioni affinché la scelta sia seria, ponderata e informata; e non è il fatto di passare per un intervento chirur- gico, né il fatto di essere ricoverate in ospedale, a garantire che lo sia effettiva- mente; pensare che la disponibilità dell’intervento farmacologico renda di per sé la scelta meno ponderata e più superficiale mi pare tutto sommato un poco ingeneroso nei confronti delle scelte delle donne.

C’è poi un’ulteriore osservazione critica, che forse è stata sollevata più rara- mente, ma che invece sembra avere un rilievo importante proprio ai fini di una scelta seria e meditata, che è appunto ciò che soprattutto conta in questo con- testo. Si tratta del fatto che, tra le due opzioni possibili, in base alle ricerche svolte a livello internazionale sull’efficacia del farmaco, il nostro paese ha adot- tato quella più restrittiva: mentre cioè, nella maggior parte degli altri paesi euro- pei, la RU 486 può essere assunta fino alla nona settimana di gravidanza, in Italia può essere assunta solo entro il 49° giorno dall’ultima mestruazione. L’Agenzia Italiana per il Farmaco ha motivato questa scelta in base alla conside- razione che gli eventi avversi riportati hanno una maggiore incidenza nelle set- timane dalla settima alla nona; sembra inoltre che tale restrizione dei termini possa garantire una maggiore certezza di efficacia, e quindi un minore ricorso all’intervento chirurgico, a correzione di un aborto farmacologico non piena- mente riuscito. Tuttavia, questa limitazione temporale riduce parimenti il tempo disponibile ad una donna per ponderare con attenzione e serietà la propria scel- ta. Una volta presa coscienza dello stato di gravidanza, infatti, la decisione sul se ricorrere all’aborto viene influenzata significativamente dal fatto che, stanti anche i sette giorni che – in base all’art. 5 della legge 194 – devono intercorre-

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4Ho cercato di argomentare questa opposizione in termini puramente etico-filosofici nel volume Aborto. La

re tra il colloquio col medico e la realizzazione dell’intervento, la finestra tem- porale che consente il ricorso alla via farmacologica risulta piuttosto ristretta. In altri termini, la scelta della fascia più sicura di efficacia del farmaco pone un vin- colo consistente ai processi decisionali, spingendo a decisioni più affrettate che potrebbero in taluni casi risultare meno ponderate. Ciò può altresì costituire una fonte di disagio psicologico, giacché la donna sembra essere costretta a decidere velocemente, come sospinta dai fatti e dai giorni che inesorabilmente passano. Questo aspetto non è stato forse ponderato con sufficiente attenzione; una revisione di questa decisione potrebbe essere utile ai fini di un più corretto inserimento dell’aborto farmacologico nel nostro ordinamento. È chiaro poi che occorre monitorare la pratica e che l’analisi comparativa delle due diverse modalità di intervento e delle circostanze e delle ragioni che spingono all’uno o all’altro, nonché l’uso o non uso del ricovero nel caso della soluzione farmaco- logica, assieme ai risultati clinici delle due pratiche in termini di complicanze ed effetti collaterali, potrà fornire indicazioni preziose ai fini di una eventuale cor- rezione della prassi corrente.

Resta infine un’ultima obiezione, forse meno rilevante da un punto di vista morale, ma nondimeno tutt’altro che indifferente. Si tratta del fatto che, consi- derata la necessità di un ricovero di tre giorni, un effetto inevitabile del passag- gio alla modalità farmacologica è l’aumento dei costi sanitari per realizzare que- ste procedure, che come è noto sono inquadrate nell’ambito del diritto alla salu- te e pertanto offerte dal servizio sanitario nazionale. Anche se solo una parte, magari minoritaria, delle donne che ricorrono all’IVG sceglierà la via farmaco- logica, è altamente probabile che l’impatto delle procedure abortive sulla spesa sanitaria registri un certo aumento. Questo argomento, come detto, non è affat- to irrilevante; soprattutto se l’esperienza dovesse confermare le previsioni più pessimistiche, che parlano di una notevole incidenza di eventi avversi legati alla procedura farmacologica e quindi di una sequela sanitaria potenzialmente più consistente rispetto all’intervento chirurgico, ci si potrebbe sensatamente chie- dere se sia opportuno impegnare queste risorse aggiuntive in un ambito di ser- vizi sociali come quello delle cure sanitarie, che già fatica a soddisfare tutti i bisogni esistenti. Se invece queste previsioni si rivelassero errate e vi fosse una piena paragonabilità degli eventi avversi tra le due procedure, e se nel contem- po, alla luce dell’esperienza concreta, si verificasse un’effettiva preferenza per la procedura farmacologica, si potrebbe ritenere giustificato l’eventuale aumento dei costi, in nome dei vantaggi offerti dalla soluzione farmacologica. Anche da questo punto di vista, in sostanza, vi sono senza dubbio preoccupazioni impor- tanti e meritevoli di attenzione, rispetto alle quali solo l’esperienza e una sua attenta valutazione potranno fornire indicazioni affidabili.

Premessa

L’aspirazione universalistica della filosofia morale occidentale, che affonda le proprie radici nell’aurora moderna e trova nella filosofia kantiana il punto di massima eccellenza, è senza dubbio il terreno su cui si è sviluppata la questione legata alla elaborazione, prima, e alla progressiva estensione, poi, dei diritti umani universali. Il vincolo che lega i diritti all’universalismo etico moderno è tale da stringere a doppia mandata questi plessi tematici. L’etica universalistica, infatti, se per un verso sostanzia lo hintergrund speculativo su cui prende vita la riflessione sui diritti umani, per l’altro riconosce nelle democrazie, pur nella complessità e nella diversità con cui si articolano fattualmente, il sistema capa-

ce di garantire e tutelare i soggetti etici1. Il riconoscimento di un simile vincolo

non può, tuttavia, coincidere con l’attribuzione di una dinamica di causa e effet- to tra l’una, l’etica universalistica moderna, e l’altro, i diritti umani; e cioè, se è certamente vero che tra modernità e diritti universali sussista un forte legame, non è altrettanto evidente che i diritti universali siano stati generati dalla moder-

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Diritti universali, dignità personale