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3 L’ONORE IN TRIBUNALE

“«In tal caso,» osservò la guardia, accendendo una sigaret- ta « la giustizia …» «Per carità, parliamo della legge.»”143

Prima di occuparci del soggetto di questo lavoro, il “processo dei Russi”, come venne chiamato con riferimento all’origine di vittima e imputati, è utile accennare alle coordinate in cui si inquadrava, all’inizio del XX secolo, la giustizia in Italia, analizzando questi aspetti:

- il dibattito, che ha preso le mosse con l’Illuminismo e si è sviluppato lungo l’intero arco dell’Ottocento, sui principi ispiratori del diritto, i rapporti fra il potere giudiziario e gli altri poteri, la figura del giudice e del reo, la qualità e quantità delle pene;

- la prassi processuale, sia dal punto di vista generale (passaggio dal processo inquisitorio al processo accusatorio, ruoli dell’accusa e della difesa) sia osservando le modalità di svolgimento di un processo in Corte d’Assise nel 1910; - il ruolo svolto dalla pubblica opinione, che da pochi decenni si era andata formando, parallelamente all’evoluzione in senso liberale della classe borghese, alla diffusione della stampa e dei luoghi pubblici di confronto politico, nonché la nascita, all’inizio del XX secolo, del pubblico interesse per i processi celebri; - il concetto giuridico dell’onore, gli articoli del codice penale che ad esso si

riferiscono, i “delitti d’onore”.

3.1 Il dibattito istituzionale

La storia delle istituzioni, dopo la rivoluzione americana e quella francese, può essere ricostruita attorno al trinomio diritti, legge e giustizia. Questi termini sono strettamente collegati a poteri costantemente in tensione tra loro: cittadini, parlamenti, governi, partiti politici, magistratura, mezzi di informazione. “In una immaginaria mappa delle nostre istituzioni, all’inizio del secolo, il centro sarebbe occupato dal Parlamento e dal governo e la periferia dalla magistratura. I cittadini sarebbero quasi del tutto assenti, in

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un Paese dove aveva diritto al voto, prima della riforma giolittiana del 1912, il 9.50 per cento della popolazione”.144

Le relazioni tra legge, diritti e giustizia si possono classificare secondo tre modelli principali, quello statunitense, quello francese dopo la Rivoluzione, quello europeo continentale, che si rifà sostanzialmente al francese, sia pure con sue modalità specifiche.145 Negli Stati Uniti, i primi costituzionalisti erano preoccupati che venisse riconosciuta la sovranità del Parlamento, come nel sistema inglese da cui si erano appena emancipati, e che questa sovranità potesse esercitare un potere eccessivo sui singoli cittadini. Pertanto, loro problema centrale fu quello di individuare mezzi atti a limitare il potere del legislatore. Lo scopo di non permettere alla politica di prevaricare sui cittadini fu raggiunto riconoscendo l’esistenza di diritti preesistenti alla Costituzione (diritto alla vita, alla libertà, alla felicità …): “Le corti sono state designate ad essere un organo intermedio tra il popolo e il corpo legislativo al fine, tra l’altro, di mantenere quest’ultimo nei limiti imposti al suo potere … come i baluardi di una costituzione rigida contro i possibili soprusi legislativi”.146

La Rivoluzione Francese partì dal punto di vista opposto, ravvisando nel Parlamento l’elemento fondamentale in grado di difendere la società dai soprusi monarchici, e costituire l’unico rappresentante dell’unità della nazione. Si conferì un ruolo centrale alla rappresentanza del popolo, ed alla legge come emanazione di quella rappresentanza. Ci si pose l’obiettivo di formulare un Codice di leggi semplici, chiare, conformi alla Costituzione. Se gli Stati Uniti avevano posto al centro il cittadino, la Francia collocò al centro la legge ed il Parlamento: se la legge avesse conculcato i diritti, si riconosceva il diritto del popolo non ad un giudice, ma alla rivoluzione (come in effetti avvenne, più di una volta, nel corso della storia francese successiva) “quand le gouvernement viole les

droits du people, le plus sacré des droits et le plus indispensable des devoirs” (art. 35

della Dichiarazione dei Diritti). I francesi non ignorarono i rischi dell’eccesso di potere legislativo, e la questione fu oggetto di un intenso dibattito negli anni 1791 - 1793, quelli che videro il passaggio dalla Costituente alla Convenzione, ma il problema non fu risolto. Furono proposti organismi come la magistrature des droits du people, il tribunal

national, l’autorité censoriale, i corps assessoriaux, il jury national. Il problema era

originato dal fatto che l’unità del potere era considerata il bene primario, e si temeva di

144

Luciano Violante (a cura di), Storia d’Italia. Annali vol. 14, Legge Diritto Giustizia, Torino, Einaudi, 1997, p. XVII.

145 V. a questo proposito Mirjan R. Damaška, The Faces of Justice and State Authority, New

Haven, Yale University Press, 1986, trad. it. Andrea Giussani, I volti della giustizia e del potere - analisi comparatistica del processo, Bologna, Il Mulino, 1991. Autore comparatista, Damaška ci introduce alle differenze tra la common law americana e la civil law europea, delineandone i tratti caratteristici e descrivendo le cause che generarono questa dicotomia nella storia del diritto, soprattutto per ciò che concerne la figura del giudice; inoltre l’Autore evidenzia le correlazioni e le contaminazioni fra le due diverse concezioni, estendendo lo sguardo ad altri ambiti ideologici, quali il russo ed il cinese. Illuminanti inoltre le sue osservazioni sul diverso ruolo esercitato dai giurati nel processo americano ed in quello europeo.

146

A. Hamilton, J. Jay, J. Madison, The Federalist (1787 - 1788), New York, 1788, trad. it. B. M. Tedeschini Lalli, Il Federalista, Pisa, 1955, pp. 533 - 535.

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costituire due poteri diversi, tra loro opposti e rivali. Il giudice rimase subalterno agli altri poteri, e la medesima impostazione è rilevabile negli altri modelli della Europa continentale.

La struttura dei Codici ridusse i margini interpretativi consentiti ai magistrati, il carattere scientifico della dogmatica giuridica, così come si venne strutturando nel XIX secolo, non consentiva grandi adattamenti in via interpretativa: l’Esecutivo finì con il tenere sotto controllo il Giudiziario.

Possiamo concludere che nel sistema americano i diritti preesistono alla legge, nei sistemi francese ed europei la legge preesiste ai diritti, almeno fino alla Seconda Guerra Mondiale, in seguito alla quale le Costituzioni divennero il fondamento sia dei diritti individuali che delle leggi.

Naturalmente, a ciascuna di queste concezioni corrisponde un ruolo diverso della legge, del Parlamento e dei giudici. Negli Stati Uniti, il giudice costituisce una garanzia contro gli abusi del Parlamento, l’autorità del legislatore non può estendersi fino a toccare i diritti difesi dai giudici: di qui la forza del potere giudiziario americano. In Francia il giudice ebbe ridotte capacità di manovra, dovendo limitarsi ad applicare e non interpretare la legge; in Europa l’equilibrio rimase instabile, anche se la tendenza nel tempo fu orientata in direzione di un aumento dei poteri della magistratura, quale possiamo osservare anche ai nostri giorni.147

Anche nell’esperienza italiana si osserva, fino alla seconda metà del XX secolo, il primato della legge, cioè del potere politico. Secondo la Statuto albertino, tutti i diritti: libertà personale, di stampa, di riunione, di domicilio, di proprietà, sono garantiti da leggi che non possono essere interpretate: l’art. 73 recita: “l’interpretazione delle leggi, in modo per tutti obbligatorio, spetta esclusivamente al potere legislativo” (il Re e le Camere). L’art. 69 dispone: “i giudici nominati dal Re, ad eccezione di quelli di mandamento, sono inamovibili dopo tre anni di esercizio”. La ragione di questo triennio di prova va vista nella volontà di sperimentare la fede politica dei magistrati, come si poté verificare nelle epurazioni di magistrati attuate da Cavour. I mezzi di controllo della magistratura da parte del governo erano:

- dipendenza del pubblico ministero dal governo;

- potere di iniziativa disciplinare del pubblico ministero nei confronti dei giudici, i quali, peraltro, non potevano esercitare censura sugli ufficiali del pubblico ministero;

- potere del ministro della Giustizia di orientare l’intervento dei pubblici ministeri e dei giudici, mediante circolari;

- controllo, diretto ed indiretto, sulla carriera dei magistrati; - potere di trasferire i magistrati da una sede all’altra.148

147

Luciano Violante, Storia d’Italia …, op. cit., pp. XVIII - XXVII.

40 3.2 Orientamenti del pensiero penalistico

Le tappe salienti del percorso del diritto penale, tra Ottocento e Novecento, possono essere così schematizzate:

- l’Illuminismo; - la scuola classica; - la scuola positiva; - il socialismo giuridico; - la scuola tecnico - giuridica.149

L’Illuminismo150 focalizzò l’attenzione sulle garanzie individuali: il principio di stretta legalità, il divieto di applicazione analogica della norma penale, il principio di certezza del diritto, il principio di irretroattività della legge, il principio di personalità della responsabilità penale, il divieto di pene inumane, il principio di proporzione fra gravità del reato e qualità e quantità della pena. Nel quadro delle pene, inoltre, doveva essere privilegiata la carceraria151; le pene dovevano essere inflitte con rapidità e ineluttabilità, per avere efficacia intimidatoria. La pena doveva essere uguale per tutti, indipendentemente dalle condizioni personali e sociali del reo. Questi principi, cui non era stata estranea la Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, furono accettati dall’Assemblea Costituente del 1790 (che sancì che i delitti della stessa specie devono essere puniti con la medesima pena, e che le condanne non comportano conseguenze per i familiari del condannato), e confermati nei codici penali del 1821 (ribadito il rifiuto di pene crudeli o infamanti) e di tutte le successive legislazioni. Figlio dell’Illuminismo, il pensiero liberale vide nel diritto penale l’espressione di una giustizia giuridico-morale, nel diritto un minimo etico, nella pena la reintegrazione dell’ordine infranto dal reato e la giusta punizione del reo. Furono mantenute le garanzie illuministe, ma la pena non fu più commisurata alla ricerca del minimo necessario, come sosteneva Beccaria, ma piuttosto alla necessità di rendere esemplare la punizione. Coerente a questi principi fu il Codice napoleonico del 1810.

La “scuola classica”, il cui maggior esponente fu Francesco Carrara, tentò di costruire un sistema scientifico immutabile, ancorato a valori assoluti, senza tener volutamente conto della temperie politica e sociale. “Il giure penale ha la sua genesi e la sua norma in una legge che è assoluta, perché costitutiva dell’unico ordine possibile all’umanità

149 Carlo Federico Grosso, Le grandi correnti del pensiero penalistico italiano tra Ottocento e

Novecento, in Storia d’Italia …, op. cit., vol. 12, pp. 7 - 34.

150

Sono i temi affrontati in modo speciale da Cesare Beccaria, (Dei delitti e delle pene, 1764, ed. di riferimento a cura di Renato Fabietti, Milano, Mursia, 1973).

151

A questo proposito, l’Autore che ha meglio affrontato la questione è Michel Foucault, in Surveiller et punir. Naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975, trad. it. Alceste Tarchetti, Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1976.

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secondo le previsioni e i voleri del Creatore. Subordinate così a una norma assoluta, le leggi penali sono nei principi cardini assoluti.”152

Nessuno deve essere punito per i soli pensieri o intenzioni. Tutto deve essere elaborato scientificamente senza badare alle contingenze politiche, salvo per il delitto di lesa maestà, che fa necessariamente eccezione. I presupposti ideologici della scuola classica trovano corrispondenza nella teorizzazione dei rapporti fra i poteri dello Stato nella seconda metà dell’Ottocento e, in particolare, nel ruolo assegnato alla magistratura, “neutrale, applicatrice imparziale della legge, al di sopra delle competizioni sociali e degli interessi politici contingenti, vincolata solo al comando della legge, indipendente dal potere esecutivo.”153

Pur senza voler entrare in dettagli che esulano dagli scopi di questo lavoro, va segnalato che alcuni studiosi rifiutano l’eccessivo schematismo di questa bipartizione in “scuola classica” e “scuola positiva” di un dibattito articolato e durato decenni. Ad esempio, Mario Sbriccoli154 sostiene che una vera e propria “scuola classica” non vi fu mai, che esistettero piuttosto centri giuridici a Napoli, Firenze, Milano, che di questi problemi si occuparono personalità diverse come Gian Domenico Romagnosi, Giovanni Carmignani, Pellegrino Rossi, Carlo Cattaneo, e penalisti quali Giuliani e Ambrosoli, Buccellati, Arabia e Zuppetta, filosofi penali, come Guerrazzi, Cantù, Pisanelli, Tommaseo, Conforti, Minghetti, Mamiani, Rosmini e Mancini: tutto ciò viene semplicisticamente ricondotto all’opera di Francesco Carrara e al codice Zanardelli del 1889.

Si discuteva dei principi che riguardavano la funzione del diritto penale, dei limiti dell’incriminazione, della responsabilità del reo, della preminenza del valore della libertà individuale, tutelata soprattutto nelle sue sfere espressive (pensiero, parole, scritti), delle garanzie processuali, della chiarezza e della tassatività degli enunciati normativi raccolti in corpus, delle diverse funzioni della pena, del principio di adeguazione, di quelli di inesorabilità e certezza, accompagnati tuttavia ad una esigenza di generali addolcimento delle pene stesse. Inoltre, di alcuni fondamentali principi/valori, quali il principio di legalità e della non retroattività delle norme penali, del divieto di procedere per analogia o della presunzione di non colpevolezza.155

Sbriccoli identifica una sorta di vizio d’origine nel fatto che l’Italia unita si formò sotto il segno dell’emergenza, soprattutto a causa del brigantaggio nel Meridione; le leggi “eccezionali” volute per sconfiggere il brigantaggio del Sud imposero un duplice livello di legalità; l’emergenza legittimava la prevenzione, ma gli istituti di polizia preventiva comportarono inevitabili arbitri ed abusi, nonché un dualismo nelle regole: giurisdizione

versus amministrazione, codice penale versus leggi di pubblica sicurezza, galantuomini

152 Francesco Carrara, Programma del corso di diritto criminale, Parte generale, vol. I, Lucca,

1882, p. 31.

153

V. Guido Neppi Modona e Luciano Violante, Poteri dello Stato e sistema sociale, Torino, Tirrenia, 1978.

154

Mario Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano (1860 - 1990), in Storia d’Italia …, op. cit., vol. 14, pp. 487 - 534.

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versus birbanti … Anche questi problemi misero in luce la centralità del problema penale

nella vita politica italiana: “col penale avevano a che fare la crescita della libertà, l’ammodernamento dei rapporti tra Stato e cittadini, la maturazione civile della società nel suo complesso … si può dire che ogni questione aperta in materia di libertà, di crescita civile, di giustizia, trovasse un suo necessario riferimento in primo luogo nel sistema penale”.156

Anche la dialettica fra necessità di libertà e necessità di efficaci garanzie contribuì ad alimentare il dibattito. Fu possibile in tal modo pervenire, dopo uno studio durato trent’anni, al Codice Zanardelli, propugnato dalla Rivista Penale, animata da Luigi Lucchini,157 codice che restò in vigore quarant’anni, rimane tuttora una pietra miliare nella storia del diritto ed ha fornito un indirizzo e modello per i legislatori successivi. Fra le molte innovazioni, va segnalata l’abolizione della pena di morte, che Carrara aveva definito “il rossore del nostro governo”, la bipartizione dei reati fra delitti e contravvenzioni, un modo nuovo per commisurare le sanzioni e valutare le circostanze dei reati, il principio di stretta legalità, di irretroattività della legge penale, di punibilità dei concorrenti morali, dell’imputabilità posta a fondamento della penalità, il principio di gradualità (valutazione di infermi di mente, minori, ubriachi, semi-imputabili …), la distinzione fra reclusione e detenzione.158

La “scuola positiva” nasce negli anni Ottanta del XIX secolo, soprattutto ad opera di Enrico Ferri, autorevole figura benché ancora assai giovane, che avviò una vera e propria battaglia contro l’establishment della penalistica di allora, fondando la “scuola positiva di diritto criminale”, con nuove idee sulla responsabilità penale, sulla prevenzione, sul delitto inteso come fenomeno umano e sociale, sulla figura del delinquente, che occupa il centro della scena al posto della pena e del reato. Fu una “bufera dottrinale” quella avviata da Ferri: l’approccio scientifico cambiò radicalmente, passando dal metodo deduttivo a quello induttivo, privilegiando cioè la ricerca sul campo ed i moderni metodi di indagine; la focalizzazione dell’attenzione sulla personalità del reo conduceva a vedere nel reato non tanto un cattivo uso del libero arbitrio, quanto una devianza sociale, che postulava adeguate azioni di recupero e prevenzione tramite riforme sociali e rieducazione. Al concetto di imputabilità morale si sostituiva quello di responsabilità legale.159

A cavallo del secolo, il diritto penale si collocava “tra ingiustizie sociali e pubbliche libertà”160, la cultura penale vedeva protagonisti Enrico Ferri161, Arturo Rocco (futuro

156

Mario Sbriccoli, Caratteri originari …, op. cit., p. 493.

157

V. Mario Sbriccoli, Il diritto penale liberale. La “Rivista Penale” di Luigi Lucchini 1874 - 1900, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, n° 16 (1987), pp. 105 - 183.

158 Sul Codice Zanardelli v. Sergio Vinciguerra (a cura di), I codici preunitari e il codice Zanardelli,

Padova, 1993; Pietro Nuvolone, Giuseppe Zanardelli e il codice penale del 1889, in AA. VV., Studi in memoria di Giacomo Delitala, Milano, 1984.

159 V. Enrico Ferri, I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale, Bologna, Zanichelli, 1881;

La scuola positiva di diritto criminale, Siena, Torrini, 1883; Le ragioni storiche della Scuola positiva di diritto criminale, in Rivista di filosofia scientifica, II, 1882 - 1883, p. 5.

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redattore del Codice del 1930), Vincenzo Manzini, Bernardino Alimena, Luigi Lucchini, Eugenio Florian162, Alfredo Prezzolini, Vittorio Emanuele Orlando. Si diffuse il cosiddetto “socialismo giuridico”, non una vera e propria scuola di diritto, ma piuttosto un atteggiamento culturale di critica degli aspetti più autoritari della legislazione penale, di difesa dei principi liberali contro le distorsioni della interpretazione politica e della prassi giudiziaria: una denuncia forse più politica che giuridica.

Il 1910 vede la nascita della “scuola tecnico-giuridica”. Ne fu il manifesto una prolusione pronunciata da Arturo Rocco all’università di Sassari. Nella sua analisi, il diritto penale era in crisi a causa delle sovrapposizioni di antropologia, psicologia, statistica, sociologia, filosofia, medicina, come nel caso delle dottrine lombrosiane, osannate dapprima, criticate poi, finalmente pressoché abbandonate in quegli stessi anni. I “classici” erano inaccettabili per aver preteso di elaborare un diritto immutabile, universale, assoluto, sganciato dalla realtà. I “positivi” andavano ugualmente rifiutati per aver ridotto il diritto ad una branca della sociologia e della criminologia. Era giunto, a giudizio di Rocco, il momento di “tenersi fermi, religiosamente e scrupolosamente attaccati allo studio del diritto positivo vigente”163, il solo che possa formare oggetto della scienza giuridica penale, circoscritta a “un sistema di principi di diritto, a una teoria giuridica, a una conoscenza scientifica della disciplina giuridica dei delitti e delle pene. È questo l’indirizzo cosiddetto tecnico-giuridico, il solo indirizzo possibile”.164 In altri termini, il diritto penale è scienza del diritto verificabile positivamente alla luce dell’esperienza: il giurista interpreta le leggi ed agisce in conformità ad esse. Filosofia del diritto, politica criminale, antropologia e sociologia criminale, non sono discipline ausiliarie, ma piuttosto ostacoli da sormontare.

3.3 Il processo

Forme e tempi del processo165, nel periodo che ci interessa, si rifanno ancora al Code

d’instruction criminelle del 1808, codice napoleonico che “non sfuggì ad un paradosso

161

È il caso di ricordare che Enrico Ferri fece parte del collegio di difesa nel processo Murri, che precedette di quattro anni quello dei Russi, e fu forse la più celebre delle cause celebri, con più di una analogia con le vicende di Maria Tarnowska: anche allora si trattava di una donna della buona società accusata di aver ispirato un delitto, vi erano amanti e relazioni sessuali illecite, cocaina, spese folli, tentativi di suicidio dei protagonisti, tutti elementi in grado di stimolare la morbosa attenzione del pubblico.

162

V. Eugenio Florian, La fase odierna del problema penale, in Rivista di diritto penale e sociologia criminale, I, 1900, pp. 4 - 21. V. anche Pietro Costa, Lo Stato immaginario. Metafore e paradigmi nella cultura giuridica italiana fra Otto e Novecento, Milano, Giuffrè, 1986.

163

Arturo Rocco, Il problema e il metodo della scienza del diritto penale, in Rivista di diritto e procedura penale, I, 1910, parte I, pp. 497 - 521, 560 - 582.

164 Arturo Rocco, Il problema e il metodo …, op. cit., ibidem. 165

V. Marco Nicola Miletti (a cura di), Riti, tecniche, interessi - il processo penale tra Otto e Novecento, in Atti del Convegno di Foggia, 5 - 6 maggio 2006, Milano, Giuffrè, 2006, ed in particolare gli interventi: Adelmo Manna, La giustizia penale fra Otto e Novecento: la disputa tra

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ricorrente nella storia nazionale, ovvero che le critiche e i giudizi senza appello, più che affrettarne la scomparsa, consolidarono il suo orizzonte di vita”.166

Principi fondamentali del processo, mutuati dall’Illuminismo, sono quelli di pubblicità, oralità ed elettività delle funzioni giudiziarie. Il processo era diventato, da rito inquisitorio, quale quelli tipici dell’Antico Regime167, in cui la figura del giudice rappresentava al contempo quella dell’accusatore, un rito accusatorio, cioè un processo

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