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II. L’insinuarsi del concetto di tragico in quello di natura da Hyperion

2.3. Il Grund zum Empedokles

2.3.1. Die tragische Ode…: la “più pura interiorità”

Il breve frammento introduttivo, privo di titolo, che inaugura lo scritto teorico a fondamento della tragedia di Empedocle, consiste in un’analisi sul procedimento che guida la scelta della materia della tragedia e che consta della composizione di un’ode tragica; tale analisi si riferisce, indirettamente, all’ode Empedokles, composta due anni prima.

Ciò che fa scaturire il conflitto tragico esposto nell’ode è subito individuato da Hölderlin nello “spirito puro, l’interiorità più pura”386 (die reine

Innigkeit) e nel suo infiammarsi (“l’ode tragica inizia nel fuoco più alto”)387; il

permanere dell’interiorità “nel fuoco più alto” significa lo sprofondare di questa nell’abisso illimitato della ricerca individuale della vita e si rivela, dunque, come la posizione soggettiva che si ravvisa nel personaggio di Empedocle all’inizio dell’ode che porta il suo nome, quando egli cerca “la vita nelle fiamme”388, ed

equivale allo stato in cui il protagonista è guidato solo dal pulsare del suo cuore, dunque, dalla sua più profonda essenza, dal suo violento Streben verso l’illimitato. È proprio dal sostare nell’interiorità più pura e dall’ardere del profondo desiderio dell’assenza di vincoli che scaturisce il conflitto tragico: “lo spirito puro”, continua Hölderlin, “non ha saputo moderare a sufficienza quegli aspetti della vita – la coscienza, la riflessione o la sensibilità fisica – che sono comunque, di per sé, necessariamente inclini al contatto e che, in una situazione di completa interiorità, sviluppano a dismisura questa inclinazione”389.

Ecco che l’emergere della tensione che dà la direttiva alla tragedia è rintracciato già nella Übermaß del protagonista; lo squilibrio iniziale non è altro, per il nostro autore, che l’”eccesso di interiorità”, nella pretesa di una permanenza duratura nella purezza del proprio spirito, nel rifiuto categorico del misurare la

386 Hölderlin, La morte d‘Empedocle, cit., p. 207.

387 Ibidem. Palese riferimento alla morte di Empedocle e alla sua corrispondenza con l’elemento del

fuoco.

388 Op. cit., p. 3. 389 Op. cit., p. 207.

147 propria interiorità con i vincoli del contatto con il mondo finito, nella vigorosa opposizione dell’eroe tragico a contaminare quanto di più genuino esiste nella propria interiorità con le limitazioni dell’esistenza finita. Lo squilibrio che innesca questa condizione è, in particolare, riconosciuto nell’incapacità di “moderare”, ossia di mediare e, in un certo senso, di frenare lo stimolo all’illimitato in tre attività cardinali della vita: la coscienza (das Bewußtseyn), la riflessione (das Nachdenken) e la sensibilità fisica (die physische Sinnlichkeit), ossia tre attività che abbiamo imparato, già dalla lettura di Urtheil und Seyn390, essere il prodotto di una

scissione originaria tra soggetto e oggetto. Se, di fatto, divenire coscienti di noi stessi non significa altro che fare della nostra esistenza l’oggetto della nostra coscienza, e se, anche secondo la lezione di Hyperion, l’atto del riflettere si traduce nell’assumere ad oggetto del proprio pensiero (denken nach) la propria storia e i procedimenti del proprio intelletto, allora va da sé che anche la sensibilità fisica è il frutto della scissione che porta a identificarsi con la propria capacità di sentire e a scindere questa capacità da quella intellettuale.

Se, dunque, il soggetto, tramite la pretesa di oltrepassare i limiti del contatto con l’esistenza finita, si sottrae alla scissione tra soggetto e oggetto, tentando di concepire se stesso esclusivamente come “interiorità più pura” e di permanere solo nel lato del soggetto e se, ancora, esso applica questo eccesso di fondo alle attività della vita, il risultato è che anche in esse verrà a maturare “a dismisura”391 l’inclinazione verso l’illimitato, concependole non più come una

tensione di forze opposte, ma come attività egualmente smisurate e prive di limiti. In altre parole, potremmo dire che, in origine, il personaggio entro cui matura il conflitto tragico non riesce a concepire la negazione né l’opposizione alla sua individualità, che percepisce come infinita: la coscienza di se stesso diviene, pertanto, la coscienza di essere tutto, la riflessione su di sé diventa appropriazione di ogni storia e di ogni processo, la sensibilità fisica, infine, è sussunzione percettiva di ogni sensazione e di ogni passione. Per questo Empedocle cerca la sua vita nella vita originaria, la sua storia nella storia del mondo, il vibrante fremito del suo cuore nella “pulsazione” lavica del fuoco originario che scaturisce dall’Etna. La situazione in cui è sprofondato il protagonista dell’ode tragica e che si configura con l’origine del più grave dei conflitti è, in definitiva, l’affermazione illimitata della propria soggettività senza ammetterne mai la possibilità di

390 Cfr. infra, par. 1.3.2. 391 Op. cit., p. 207.

148 negazione o, se questo avviene, reagire “infiammandosi”, odiando il vincolo dell’esistenza finita e far scaturire da questo il processo tragico.

Ecco che, col richiamo ai tre “aspetti della vita”, il nostro autore riesce mirabilmente a riagganciare la meccanica del conflitto tragico alla sua ricezione delle filosofie di Schiller e Fichte e a ricondurre la tensione alla base della materia tragica al dibattito filosofico sulle possibilità dell’io, che aveva affrontato, appunto, in Urtheil und Seyn e nelle lettere a Hegel e al fratello del periodo jenese, testimoniando, così, l’insospettabile connessione tra i “periodi” e gli aspetti del suo pensiero; il nucleo alla base del conflitto tragico e, quindi, della più umana e insanabile tra le opposizioni, risiede proprio in quell’eccesso del soggetto, incline a concepirsi come illimitato e a non ammettere la negazione al suo interno, e si identifica, in ultima istanza, nel problema che l’idealismo tedesco ha posto e affermato con forza. Per questi motivi, in particolare, una eminente parte della critica (Henrich, Wöhrmann) ha suggerito, non troppo velatamente, l’identificazione del personaggio di Empedocle con l’Io fichtiano e ha invitato a concepire il protagonista del conflitto tragico come l’individuo soggetto a tutte quelle contraddizioni cui è esposto l’absolutes Ich della Wissenschaftslehre e che Hölderlin faceva emergere nel suo carteggio con Hegel392.

Per quanto una tesi siffatta possa apparire radicale, è indubbio che l’inclusione della teoria del tragico hölderliniana nel dibattito idealistico a cavallo tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo ha diversi pregi nell’interpretazione della concezione del nostro autore e ha l’immenso merito di legittimare la speculazione alla base di Der Tod des Empedokles come un’indagine filosofica a tutti gli effetti. Tale operazione ci sentiamo, in questa sede, di sposare e di assumere nell’ottica di un ricongiungimento delle diverse istanze della produzione hölderliniana e non in quella atta a ravvisare nel personaggio di Empedocle una mera polemica anti-idealistica. Sui rapporti tra i summenzionati periodi di Hölderlin torneremo nel prossimo capitolo.

Siamo giunti, dunque, al cuore dell’argomentazione hölderliniana sul concetto di tragico. La nascita del conflitto che muove il processo dell’ode tragica si configura nella pretesa di annullare l’azione della negazione su quella del

392 C’è anche chi, in questo dibattito, ha suggerito un raffinato parallelismo tra il gesto di

Empedocle e i postulati espressi da Kant nella sua seconda critica e, nella fattispecie, che ha proposto di leggere il gesto suicida del protagonista come una critica alla nozione di imperativo categorico; su questo, si veda Klaus-Rudiger Wöhrmann, Hölderlins Wille zur Tragödie, Fink, München, 1967, pp. 55-65.

149 soggetto e nel piombare del personaggio nell’Abgrund della più pura interiorità: dall’incompatibilità di questo atteggiamento con la realtà dell’esistenza finita sgorga la tensione che dà origine allo svolgimento dell’azione che motiva il procedere dell’ode.

Il processo che scaturisce da questa tensione iniziale corrisponde alla dottrina poetologica dell’alternanza dei toni393 formulata negli anni di Homburg,

ma delinea pure una visione filosofica ben determinata. Il postulato su cui si regge il resto del frammento introduttivo, infatti, è quello secondo cui il divino che si cela dietro alla più pura interiorità deve, per manifestarsi, passare attraverso il contrario dell’atteggiamento iniziale e sperimentare una serie di squilibri e di negazioni di se stesso che fanno in modo che gli stessi contrari, che si avvicendano nell’ode, risultino, alla fine, svuotati, e che nel gesto catartico, culmine del tragico, si intraveda la più completa delle riconciliazioni.

Per questo, dunque, l’abisso dell’individualità indeterminata deve passare all’estremo “della distinzione e della necessità”394 per apparire, e, ancora,

rivolgersi di nuovo “all’estremo della non-distinzione”395; la sperimentazione di

uno squilibrio così violento provoca una ricaduta nell’interiorità, ma questa volta “più moderata, poiché l’interiorità originaria, più divina e più audace, le è apparsa come un estremo”396. Insomma, il protagonista dell’ode tragica deve, all’inizio,

misurarsi con gli opposti più estremi e in essi scoprire la totale incompatibilità con l’esistenza a cui la mancanza di misura condanna la sua più pura interiorità; a questa violentissima opposizione, il personaggio deve reagire moderandosi, tentando di concepire il suo permanere in un atteggiamento in modo meno estremo, con pretese meno irrealizzabili, e facendo coincidere in questo il suo più alto tentativo di adeguarsi all’esistenza finita e di trovare un modo per risolvere il brutale conflitto di cui è preda. Anche questo atteggiamento, tuttavia, è destinato a rivelarsi fallace: poiché, infatti, esso si traduce per l’interiorità nel suo proprio estraniarsi dalla lotta di cui prima era stata preda e nel percepire come altra da sé un’opposizione di cui inizialmente lei stessa era stata protagonista, ecco che l’interiorità si trova in una nuova contraddizione, ma con se stessa.

393 Cfr. il commentario di Polledri in Hölderlin, La morte di Empedocle, cit., p. 340. 394 Op. cit., p. 207.

395 Ibidem. 396 Ibidem.

150 Infatti, l’operazione per cui, tentando di moderarsi, di “passare dagli estremi della distinzione e della non-distinzione alla pacatezza e al sentimento”397

si tenta di sottrarsi al conflitto originario fa in modo che la tensione iniziale emerga con maggiore chiarezza e violenza; questo perché il protagonista scopre che l’inconciliabilità vera e propria non caratterizza, o, almeno, non solo, il dissidio tra sé e il mondo, ma quello, più profondo e irrisolvibile, interno alla sua stessa essenza. L’ode tragica, passando attraverso questa alternanza di toni, che, negli scritti poetologici, è descritta come il “procedere oltre di un tono” e il suo concludersi con “il tono della sua catastrofe”398, deve fare emergere l’essenzialità

del conflitto tragico e la necessità imprescindibile della risoluzione all’atto del suicidio. Tramite l’esperienza dei toni totalmente opposti e, quindi, tramite la sperimentazione, da parte della soggettività tragica, di posizioni tra loro completamente distanti, “l’ideale che unisce le opposizioni emerge più puro; il tono originario viene ritrovato di nuovo e con pacatezza e, attraverso un moderato e più libero riflettere o sentire, essa [l’interiorità] torna da qui […] più sicura, più libera e più consapevole al tono iniziale”399. Il procedimento poetico

che guida l’ode tragica si dirige, in ultima istanza, al forte ritorno del contrasto iniziale e alla convinta affermazione della sua necessità; per far questo, deve passare attraverso alla forte opposizione di contrari per dimostrare che essi possono essere svuotati, ricadere l’uno nell’altro, e per fare in modo che essi, nella serena rassegnazione al destino della metabolē, producano la placida risoluzione all’atto culmine della catastrofe e, quindi, alla morte.

La complessa dinamica qui descritta può essere, come accennato, ravvisata in quella che motiva lo svolgimento dell’ode Empedokles; se la prima quartina propone il contrasto originario nella sua insanabilità, la seconda suggerisce la contestazione di quello stesso contrasto con la proposizione del tema della Verwendung di Empedocle e, quindi, della sua hybris; infine, la strofa conclusiva ha il fine di riproporre il contrasto iniziale, forte della sua esposizione a ulteriori contrasti, e a legittimare come indispensabile la decisione di Empedocle

397 Ibidem.

398 Hölderlin, Alternanza dei toni in Scritti di estetica, cit., p. 121. Si veda, su questo, il commentario di

Ruschi: “Il termine catastrofe, […] deve essere inteso secondo l’etimologia greca di ‘rovesciamento’, indicando appunto quel momento in cui l’ordine di successione dei toni si capovolge”, p. 190.

151 di darsi la morte. Il senso degli ultimi versi dell’ode (“e lo seguirei, / quell’uomo santo, /se tenero amore non mi trattenesse”400) si delinea con più chiarezza a

partire dalla legge dell’alternanza dei toni e fa scaturire il contrasto iniziale dal tentativo di moderazione e di riproposizione delle figure proprie dell’esistenza limitata; il gesto di Empedocle si rivela, dunque, l’unico che il filosofo poteva compiere per dare una ricomposizione risolutiva ai contrasti.

Se la reine Innigkeit è stata rintracciata a fondamento dell’ode tragica, il passo successivo, che bisogna compiere per chiarire la concezione di tragico che Hölderlin ha maturato nel suo scritto teorico più completo, è quello di chiedersi a quale trasformazione sarà soggetta questa interiorità profonda per fondare, invece, la tragedia come composizione drammatica; più in generale, bisognerà chiarire quali ulteriori contrasti dovrà subire tale principio primo per riaffermare il contrasto originario nella forma compositiva successiva, ossia quella che il nostro autore ha scelto per formulare il dissidio di Empedocle.