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Il suicidio del theîos anēr: Empedocle di Agrigento e la mediazione di Herder

II. L’insinuarsi del concetto di tragico in quello di natura da Hyperion

2.2. Il problema della morte del vivente e il delinearsi dell´eroe tragico

2.2.2. Il suicidio del theîos anēr: Empedocle di Agrigento e la mediazione di Herder

Se la rappresentazione della figura di Socrate e del significato della sua morte era, all’interno del dibattito fine settecentesco, tutt’altro che univoca, quella di Empedocle potrebbe definirsi totalmente sfuggente. Se, come nota Hölscher, “nemmeno noi […] sappiamo che tipo di immagine dovremmo farci di Empedocle”287, la complessità dell’immagine del filosofo agrigentino è dovuta

principalmente alla difficoltà di interpretare le fonti, dirette o indirette, della sua vita e della sua filosofia; Empedocle non ha ma avuto un biografo illustre, come nel caso di Socrate, ma alla sua figura accennano moltissimi interpreti dell’antichità, che riferiscono aneddoti fantastici e, spesso, discordanti tra loro, sulla sua vita. Non è troppo d’aiuto neppure il fatto, che parrebbe facilitare molto la ricerca sul suo conto, anche e soprattutto rispetto a Socrate, che abbia lasciato qualcosa di scritto, di cui ci sono pervenuti i frammenti: i poemi empedoclei presentano, per lo più, epigrammi sapienziali lacunosi e sconnessi, scritti con uno stile più somigliante a quello di poeta o, addirittura, di un santone che a quello di un filosofo. Tutte queste ragioni hanno contribuito all’oscura equivocità dell’immagine di Empedocle e, insieme, al fascino misterioso che questa continua ad esercitare anche per i contemporanei. Il personaggio dell’agrigentino si configura da sempre come un essere straordinario e i racconti sugli eventi della sua vita lo vedono sempre teso tra veridicità e leggenda; la sua immagine, dunque, risente di questa tensione e dà luogo a interpretazioni molteplici e disparate, tanto da configurarlo come un poeta, un filosofo, o, addirittura, come un santone o un personaggio mitico.

È argomentazione canonica nel dibattito tra gli studiosi di Hölderlin che il nostro autore subì una forte fascinazione per la figura di Empedocle e per le leggende che aveva letto sul suo conto288; l’individuazione del sapiente agrigentino

come protagonista di una tragedia da parte di Hölderlin fu dovuta, secondo gran parte della critica, più all’attrazione per la sua immagine che ad un vero e proprio influsso della sua filosofia sul suo pensiero. È senz’altro vero, infatti, che il legame di corrispondenza tra il personaggio e la sua morte, che Hölderlin aveva già,

287 Hölscher, op. cit., p. 17 (trad. mia).

288 Cfr. il saggio introduttivo di Elena Polledri in Hölderlin, Der Tod des Empedokles (1826), trad. a

109 verosimilmente, stabilito nel caso di Socrate, sia alla base della decisione di rendere il suo gettarsi nel cratere dell’Etna l’episodio attorno a cui costruire un dramma. In più, il dibattito settecentesco attorno alla morte del filosofo agrigentino, di cui Hölderlin deve essere stato testimone, si incentra quasi esclusivamente sulle sue vicende biografiche e l’abbozzo così fumoso della figura di Empedocle del XVIII secolo dipende prevalentemente dal suo emergere da aneddoti leggendari e sempre contrastanti tra loro, risentendo della mancanza di un biografo accreditato o di una tradizione univoca delle gesta del presocratico.

La fonte primaria cui Hölderlin, come altri interpreti del tempo289,

fece riferimento nel formulare una lettura della figura di Empedocle fu, senza dubbio, l’ottavo libro delle Vite di Diogene Laerzio, quello dedicato ai filosofi italici e ai pitagorici: in esso, lo storico ricostruisce la maggior parte degli aneddoti della vita dell’agrigentino, insieme ai punti salienti della sua visione del mondo, discutendone la verosimiglianza e evidenziandone i punti di contrasto. Proprio Diogene Laerzio riporta la leggenda della morte nel cratere dell’Etna il giorno stesso in cui Pantea, la donna agrigentina cui Empedocle aveva salvato la vita290,

aveva organizzato un banchetto per ringraziare il suo benefattore. Diogene Laerzio riporta, inoltre, anche i contrasti politici che il sapiente ebbe con i suoi concittadini (tanto accesi da suscitare la leggendaria versione della morte in esilio di Empedocle291) e il suo discusso amore per la democrazia292. I personaggi che

ruotano intorno ad Empedocle nella ricostruzione di Diogene Laerzio, che, comunque, risulta la più completa e imparziale, vengono ripresi da Hölderlin e inseriti nelle stesure della sua tragedia293. Con la lettura delle Vite dei più illustri

289 Tra gli altri, si ricordino Louis Moreri, in Le Grand Dictionnaire Historique, Johann Franz Budde

nella quarta parte dell’Allgemeines Historische Lexikon (1674), Gabriel Naudé, Apologie pur les grands

hommes soupçonnez de Magie (1653), Benito Feyjoo, il primo libro del Satisfacción al Escrupuloso (1727),

Johann Jackob Bruker, Kurtze Fragen aus der Philosophischen Historie (1731).

290 Probabilmente si tratta della donna che, secondo la leggenda tramandata da Eraclide in Sulle malattie, aveva giaciuto esanime per trenta giorni e che era stata salvata da Empedocle, “sia medico

sia profeta”, interpellato da Pausania, da lui amato. Su questo, cfr. Diogene Laerzio, Vite e dottrine

dei più illustri filosofi in dieci libri, trad. a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2005, XVIII libro,

pp. 993-5.

291 Cfr. op. cit., pp. 995-9.

292 Anche gli aneddoti su questo aspetto sono contrastanti. Persino la lettura di un Empedocle

antidemocratico, perché santone divinizzatosi e postosi al di sopra degli agrigentini, ebbe fortuna nel dibattito settecentesco. Su questo, cfr. Pierre Nicolas Bonamy, Recherches sur la vie d’Empédocle in

Mèmoires de Litterature tirès de Registres de l’Academie Royale des Inscriptions et belle Lettres (1736), tomo X.

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filosofi, il nostro autore entrò in contatto con la collazione degli aneddoti della vita di Empedocle più minuziosa che esista; grazie a tale tramite, egli apprese i tanti lati della personalità del filosofo che inserì, poi, nel suo dramma e si formò un’idea della complessità della sua figura, facendosene affascinare.

Esistono altre due fonti antiche, tuttavia, che furono risolutive per la sfumatura che assunse Empedocle agli occhi del nostro autore, vale a dire la conclusione dell’Ars Poetica di Orazio e la Morte di Peregrino di Luciano di Samostata. L’importanza di tali fonti per Hölderlin deriva dal fatto che entrambe dibattono la vexata quaestio della morte nell’Etna discutendo il dato, tramandato da Diogene Laerzio, che questa fosse causata “dall’intento” di Empedocle “di dare credito alle dicerie sul suo conto, che fosse diventato un dio; successivamente, però, si scoprì la verità, poiché uno dei suoi calzari fu restituito dal vulcano: era infatti abituato a portare calzari di bronzo”294. Entrambe le versioni attribuiscono

all’atto di Empedocle un valore compensativo: per Orazio, in particolare, la scelta di far finire la propria vita gettandosi nella lava vulcanica è motivata sì dalla volontà del filosofo di provare il fatto di essere un “deus immortalis”295, ma è dovuta

anche alla freddezza del sangue di Empedocle, caratteristica che gli vale l’appellativo “frigidus”296 nell’ode oraziana e che “descrive il suo temperamento

come stupido, triviale, insulso, lo contrassegna come povero d’ingegno, con un termine retorico per la realizzazione dell’espressione lo qualifica come poeta pretenzioso”297.

Dunque, il connotato del filosofo come “uomo dal sangue freddo”, che viene usato da Orazio per fare ironia sulla sua povertà d’ingegno, sarebbe la vera causa del suo suicidio. A riprova della fortuna che tale lettura aveva guadagnato nel diciottesimo secolo e della celebrità che aveva raggiunto anche per Hölderlin, valga la prima menzione che il nostro autore fa di Empedocle, alla fine dell’ultimo libro di Hyperion: “Ieri salii lassù sull’Etna. Mi ricordai del grande siciliano che, un giorno, stanco di contare le ore, fidandosi dell’anima del mondo e

294 Diogene Laerzio, Vite, cit., p. 1001.

295 Orazio, Ars Poetica, trad. a cura di Eckart Schäfer, Die Dichtkunst, Réclam, Stuttgart 1972, verso

464, p. 34.

296 Ibidem, verso 465.

297 Birkenhauer, op. cit., pp. 149-50 (trad. mia). Birkenhauer riprende qui il commentario, curato da

E. Schäfer, dell’edizione tedesca dell’Ars Poetica cui si sta facendo riferimento, che spiega il termine

111 pieno di ardimentoso desiderio di vita, si precipitò nelle splendide fiamme; e un freddo motteggiatore lo irrise dicendo che il freddo poeta aveva dovuto scaldarsi al fuoco”298, laddove il “freddo motteggiatore” è, naturalmente, proprio Orazio.

Luciano di Samostata riprende, per parte sua, nella sua Morte di Peregrino la teoria compensativa della morte di Empedocle, ma, questa volta, pur mantenendo la verve satirica che è stata rinvenuta in Orazio, la ribalta, attribuendo la causa del suicidio del siciliano alla sua melancolia. Inserendosi in un illustre filone di pensiero dell’antichità, che vanta persino una menzione nel trentesimo dei Problemata Physika degli Pseudo-Aristotele299, Luciano attribuisce il suicidio di

Empedocle ad un’eccedenza di bile nera e, dunque, secondo l’antica teoria pitagorica degli umori che ebbe ampio seguito in Ippocrate e, soprattutto, Galeno300, ad una preponderanza dell’umore melanconico. Per questo, la sua

morte viene contrapposta a quella del Peregrino Proteo (che, invece, si era gettato in una pira ardente), sebbene in entrambi fosse ravvisabile il “dolore della fama”301, ed Empedocle viene espulso, alla fine del dramma, dall’isola dei beati,

per essere trasferito in quella di Aiace, insieme agli altri melanconici. La descrizione satirica di Luciano ebbe nella cultura tardo-settecentesca una popolarità considerevole e paragonabile a quella dell’ode oraziana; sebbene non sia provato che Hölderlin abbia letto direttamente il Peregrinus, è certo che la connotazione di Empedocle come affetto da melanconia gli risultasse nota e, anzi, che l’influsso di tale tratto distintivo si propaghi per tutto il lavoro sulla sua tragedia. In più, il carattere melanconico di Empedocle è suggerito, come nota Ava Chitwood302 dalla stessa lettura di Diogene Laerzio, quando essa pone

l’accento sulla gravità del suo carattere e sul suo egoismo; questi sono i tratti

298 Hölderlin, Iperione, cit., p. 170.

299 Cfr. Studi sui Problemata Physika aristotelici, a cura di B. Centrone, Bibliopolis, Napoli 2011. Il

trattato annovera Empedocle tra i melanconici, insieme a Platone, Socrate, Eracle, Bellerofonte e, soprattutto, Aiace, che diventò simbolo degli affetti da melanconia.

300 Sulla teoria dei temperamenti, cfr. Gianni Micheli, Le ricerche medico biologiche: Galeno e, in

particolare, il cap. V, La dottrina dei temperamenti, in Storia del Pensiero filosofico e scientifico, a cura di Ludovico Geymonat, Garzanti, Milano 1970, vol. I, L’antichità e il medioevo, pp. 379-82.

301 Luciano di Samostata, Sämtliche Werke, trad. a cura di Cristoph Martin Wieland, Leipzig, 1788-9,

p. 87, VI parte (trad. dal tedesco mia).

302 Cfr. Ava Chtiwood, Death by Philosophy. The Biographical Tradition in the Life and Death of the Archaic Philosophers Empedocles, Heraclitus, and Democritus, The University of Michigan Press, 2004, p. 20.

112 distintivi del θειος ανηρ nella rappresentazione classica e tali tratti si sposano indissolubilmente con lo stato d’animo melanconico.

Proprio questa connessione tra la grandezza d’animo, l’eroicità e la divinità di Empedocle con il suo temperamento melanconico e non, naturalmente, la visione di tale morbo come causa del suo suicidio, deve essere assunta come fondamento del quadro hölderliniano di Empedocle. Se si tiene ferma tale connessione, infatti, la figura del sapiente siciliano come taumaturgo, essere divino, da un lato, e come eroico riformatore e coraggioso filosofo, dall’altro, si tinge necessariamente di una sfumatura mesta; la sua malinconia è obbligatoria conseguenza della solitudine dei grandi, della superiorità (Überragendheit) dell’eroe, della dolorosa condizione di contrasti altalenanti, in definitiva, dei personaggi leggendari con la propria comunità303. Di più: la connotazione di Empedocle come

malinconico porta ad avvicinarlo non solo ad eroi e semidei, ma anche e soprattutto alla categoria dei poeti e rende, dunque, il poeta stesso al centro del conflitto tragico.

La fortuna della caratterizzazione del poeta come tipo “lunare” e come affetto da melanconia è, nella storia della cultura occidentale, indubbia, e ha il pregio di avvicinare la figura del poeta a quella del filosofo e, nella tradizione greco-antica, a quella dell’eroe. Questo fil rouge è di fondamentale importanza per il nostro discorso, tanto più che ha il merito di ampliare la raffigurazione di Empedocle agli occhi di Hölderlin e di far sì che all’interno del suo personaggio convergano il piano filosofico, quello artistico e quello politico. È il poeta, in altre parole, colui che, in virtù della sua straordinaria connessione con la natura e con il divenire e dell’entusiasmo che proprio dalla natura gli è infuso, l’uomo che più è soggetto all’urto tra la dimensione della All-Einheit e quella del procedere ciclico degli eventi, colui che più sente il contrasto del vivente e che più è sospinto tra l’amore per le cose e l’ardore per la riformazione; in Empedocle si assommano, pertanto, l’eroicità del rivoluzionario, l’ardore del poeta, la santità del religioso e la sconsolata solitudine del filosofo. Una figura siffatta risulta perennemente tesa tra gli impulsi e le “dissonanze del mondo”304 e deve trovarsi, per sua intrinseca

303 Cfr. su questo, Raymond Klibansky, Erwin Panofsky, Fritz Saxl, Saturn und Melancholie, Studien zur Geschichte der Naturphilosophie und Medizin, der Religion und der Kunst, Suhrkamp, Frankfurt am

Main 1990.

113 costituzione, nel nucleo del conflitto tragico: egli vive quel conflitto, lo combatte e, alla fine, deve soccombergli.

Ancora più importante risulta tale caratterizzazione se si pensa che quella hölderliniana è la prima tra le rappresentazioni di Empedocle in ambiente fine-settecentesco a conferire alla morte del siciliano un valore positivo e propositivo: la morte di Empedocle non è, per il nostro autore, una reazione alla sofferenza che il morbo della melanconia gli arrecava, né (o, meglio, non solo) la conseguenza finale del suo egocentrismo, ma assume un valore immortale, addirittura rappresentativo, come vedremo, dei dissidi della stessa condizione umana. Il suicidio di Empedocle è, dunque, un sacrificio e non una compensazione; la scelta dell’agrigentino come personaggio tragico ha, infine, per Hölderlin il senso di scagliarsi contro la celebre e antica lettura compensativa del gesto di gettarsi nell’Etna e di far scaturire il suo potenziale tragico proprio da quello comico, che era stato individuato dalle antiche satire citate, a riprova della stretta parentela che intercorre tra i due generi.

L’opinione, pur diffusa e accreditata, dell’indifferenza di Hölderlin per la filosofia empedoclea può, peraltro, venir contestata e il ravvisare accanto alla fascinazione del nostro autore per la figura del sapiente siciliano quella per la sua filosofia potrebbe rafforzare il legame tra Empedocle e il concetto di tragico. Sebbene, infatti, il nostro autore non abbia mai, presumibilmente, studiato la filosofia empedoclea, ciò non significa che egli non sia mai venuto a contatto con i suoi punti cardine, che non li abbia inseriti nella struttura della sua teoria del tragico e che, infine, alcuni dei suoi postulati non abbiano contribuito alla scelta del nostro autore di rendere Empedocle il personaggio tragico per eccellenza.

Questa tesi pare sostenere Uvo Hölscher305 quando sottolinea

l’influenza dello scritto Liebe und Selbstheit di Herder nella redazione dei primi abbozzi hölderliniani della sua filosofia del tragico. Com’è noto, il saggio herderiano sviluppa una critica contro la nozione di desiderio (Verlangen306),

espressa dal neoplatonico olandese Hemsterhuis nella sua celebre Lettre sur les

305 Hölscher, op. cit., ma anche Empedokles von Akragas. Erkenntnis und Reinigung, in Hölderlin

Jahrbuch 1963-4, pp. 21-43.

306 La dicitura originale hemsterhuisiana recita, in realtà, dèsirs, dunque “desideri” al plurale; la

forzatura di Herder di tradurre il termine al singolare [verlangen] si inquadra nelle ragioni della sua critica contro il filosofo olandese; su questo, cfr. Salvatore Tedesco, Economia del desiderio: piacere e

conoscenza nella prima filosofia di Herder, Aisthesis, 2010, anno III, vol. II. La lettera è stata pubblicata

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désirs, e cerca di integrare la nozione hemserhuisiana di desiderio in quanto spinta verso l’amore e la totale riconciliazione comunitaria con le nozioni di Selbstheit (“egoità”) e di isoliertes einzelnes Dasein (“esserci isolato e unico”). Tale integrazione serve a Herder per ridimensionare la visione un po’ ingenua del filosofo olandese e per porre l’accento sui limiti che il desiderio come spinta verso l’unificazione si trova a contrastare.

Per Herder, se è vero che il principio dell’unificazione motiva il desiderio e, dunque, si configura come un motore dell’intera vita umana, è vero anche che tale principio possiede dei “confini” e che al principio dell’amore, che tutto tende a conciliare, è opposto quello dell’odio, che agisce dissolvendo e separando: Hemsterhuis pare aver dimenticato questa azione doppia e reciproca dei due principi, prestando attenzione solo a una delle direzioni possibili che il movimento desiderante può prendere, e “non risulterà sgradevole seguire tale doppio cammino, quanto meno dal momento che Hemsterhuis ci ha guidato solo attraverso uno di essi. Egli si è riservato l’altro per un’altra trattazione, che non ha ancora scritto, o quanto meno non ho visto.”307. Il nostro esserci autonomo e

indissolubile costituisce, per Herder, il polo opposto rispetto a quello del desiderio di ricongiungimento a tutte le cose. La vita umana si configura, così, come incessante movimento tra i due poli e come il prevalere incostante dell’uno sull’altro, senza che una vera ricomposizione avvenga mai e senza che “vincoli di desiderio e nostalgia”308 riescano mai ad abbandonare il desiderio d’amore: se

questo avvenisse, infatti, l’egoità del nostro esserci risulterebbe per sempre dissolta e l’essere umano, travalicando i limiti della sua finitezza, ne uscirebbe totalmente snaturato.

Non è difficile comprendere quanto il saggio di Herder sia stato fondamentale per la costruzione della nozione di tragico da parte del nostro autore. Non solo, infatti, il movimento descritto dal saggio sulla Selbstheit risulta molto simile a quello tratteggiato in diversi saggi hölderliniani, su tutti la già analizzata prefazione al Thalia-Fragment, ma alla fine del trattatello herderiano è presente un altro riferimento che abbiamo visto essere uno dei tratti fondativi della concezione hölderliniana: riprendendo, infatti, a sua volta una metafora già usata da Hemsterhuis, Herder la ribalta e afferma che “per quel che riguarda infine

307 Herder, Liebe und Selbstheit, trad. a cura di Salvatore Tedesco, Amore ed Egoità, Aisthesis, 2009,

anno II, vol. I, p. 82.

115 il godimento dell’Essere supremo, esso rimane e deve rimanere sempre […] iperbole col suo asintoto. L’iperbole si avvicina sempre più all’asintoto, ma non lo raggiunge mai; per la nostra beatitudine non possiamo mai perdere il concetto del nostro esserci, e raggiungere il concetto infinito che noi siamo Dio.”309

L’immagine dell’iperbole e del suo asintoto è la stessa che Hölderlin pone alla fine del frammento Hermokrates an Chephalus (“nel frattempo lascia che io chieda se veramente l’iperbole si congiunga con i propri asintoti”310), un’indagine che

abbiamo imparato ad inserire, nel corso del capitolo precedente311, all’interno della

polemica contro il “quietismo scientifico”312 e, nella fattispecie, contro Schiller;

tale forte riferimento alla critica di Herder a Hemsterhuis nell’opera di Hölderlin testimonia, dunque, la centralità che la lettura dello scritto sull’egoità e l’argomentazione che lì trova spazio ebbe nella filosofia del nostro autore.

Nel trattato di Herder esiste, tuttavia, un ulteriore elemento di grande importanza per i nostri scopi. Infatti, l’argomentazione herderiana contro Hemsterhuis prende l’avvio da “una bella leggenda dell’antica poesia, che amore abbia tratto il mondo dal caos e legato reciprocamente fra loro le creature con vincoli di desiderio e di nostalgia”313, ossia proprio dalla “leggenda” tramandata

per primo da Empedocle di Agrigento (“ed io credo sia stato Empedocle a fare dell’odio e dell’amore le figure della creazione”314), e si avvale del frammento

empedocleo 21315, da cui “durante il regno dell’odio [kòtos] ogni cosa ha forma

distinta e sta separata, mentre quando regna amicizia [philìa] si uniscono insieme e si desiderano l’una con l’altra. Da essi infatti tutte quante le cose che erano sono e saranno: hanno avuto origine gli alberi, uomini, donne, e fiere, uccelli e pesci che vivono in acqua; […] correnti l’una attraverso l’altra, diventano oggetti di vario aspetto: tanto vasto è lo scambio prodotto dalla mescolanza”316. Il fondamento

309 Op. cit., p. 93.

310 Hölderlin, Ermocrate a Cefalo in Scritti di estetica, cit., p. 52. 311 Cfr. infra, par. 1.3.1.

312 Hölderlin, Ermocrate a Cefalo in Scritti di estetica, cit., p. 52. 313 Herder, op. cit., p. 81.

314 Ibidem.

315 Anche qui, come nel caso di Eraclito, si farà riferimento alla numerazione Diels-Kranz.

316 Empedocle, Frammenti, trad. a cura di Franco Trabattoni e Carlo Sini, Marcos y Marcos, Milano