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141 Dietro a tutto questo alla fine c’è un’idea di agricoltura, da cui uno poi trae gli obiettivi per le sue

ricerche. Qual è secondo lei l’agricoltura del futuro o il modello agricolo da utilizzare, anche in rapporto ai problemi legati al cambiamento climatico?

Gran parte dell’Italia ancora oggi vive in città di dimensioni tali per cui non è impossibile fare venti chilometri e andare a fare la spesa da un agricoltore. Qui ad Ascoli Piceno, una città di 50.000 abitanti, ci sono i mercatini rurali dove gli agricoltori vengono a vendere i loro prodotti due-tre volte la settimana. Se i consumatori cominciano a premiare questo sistema, rubando qualcosa al loro trantran quotidiano, soprattutto riuscendo a capire il collegamento molto stretto che esiste tra il cibo e la salute… È vero che sono discorsi difficili in periodi di crisi economica, ma quando vedo persone che fanno la fila per il nuovo IPhone, o che in centro ad Ascoli Piceno ci sono negozi di borse, cappelli, vestiti, scarpe e tutti riescono a sopravvivere, significa che la gente investe molto sul vestirsi perché l’apparire è molto importante. Oggi nessuno pensa a mettersi un vestito che costa un po’ meno e a utilizzare quel denaro per spendere un po’ di più per comprare cibo biologico. È il dare il giusto valore alle cose. Per cui io vedo un mondo agricolo fatto di cooperative, come intorno a Bologna, o “Campi aperti”, Gruppi di acquisto solidale, che si stanno moltiplicando. Il 27 aprile dovrei fare una conferenza a un Gruppo di acquisto solidale ad Ascoli Piceno con una dimostrazione di panificazione fatta con il lievito madre, farina di miscugli ecc. di un panettiere qui abbastanza famoso. Se il numero di persone che decidono di dedicare queste energie al cibo, quindi premiando anche un certo modo di fare agricoltura, si moltiplica, poi alla fine molti agricoltori che non hanno magari grosse motivazioni di tipo umanitario, nel senso che non gliene frega niente di fare agricoltura per fare del bene alle persone ma lo fanno semplicemente per avere un reddito che gli consente di vivere, si accorgono che fare agricoltura in un certo modo si può. Molte persone oggi si indirizzano al bio perché il bio in tutti questi anni difficili è stato il settore che ha continuamente aumentato il fatturato. Ma allora perché, per esempio, non c’è un’attenzione della ricerca per il bio, dove è tutto da scoprire? Io adesso sto cercando, attraverso i miei rapporti con l’Università di Bologna, di trovare dei tesisti che facciano delle tesi per saggiare l’ipotesi che il mondo bio può essere completamente trasformato se smettiamo di pensare al miglioramento genetico e al sistema sementiero così come congegnati per l’agricoltura convenzionale. Se immaginiamo un tipo completamente diverso di miglioramento genetico e un tipo completamente diverso di sistema sementiero, potremo arrivare a pensare a un’agricoltura biologica che produce cibo allo stesso prezzo del convenzionale. E allora lei si immagini le conseguenze. Essendo ancora così giovane e avendo davanti tutta la carriera… questa è la mia visione del futuro.

Stefano Masini

Responsabile Ambiente e consumi di Coldiretti, professore associato di diritto agrario presso l’Università di Roma Tor Vergata

21 marzo 2018

Oggi che a livello internazionale si discute molto dell’impatto dell’agricoltura sull’ambiente e sul clima, nella vostra esperienza come Coldiretti gli agricoltori che percezione hanno di questi temi? Sono più sensibili rispetto al passato?

Forse dovremmo costruire una comparazione in termini invertiti: sono i cittadini a essere più sensibili rispetto a quanto gli agricoltori sempre abbiano dimostrato sensibilità, attenzione, preoccupazione per questi temi. Non sono ignoti alla campagna, sono rimasti a lungo estranei alla cultura corrente degli studiosi e dei cittadini. Io di mestiere faccio il giurista, non traduco tutto in termini normativi, ma la caratterizzazione dell’impresa agricola si basa sul rischio biologico, che è del tutto estraneo alla costruzione di un’impresa commerciale. Questo per dire che storicamente il fattore natura ha inciso profondamente e di questo c’è sempre stata consapevolezza da parte degli agricoltori.

E rispetto al cambiamento climatico, visto che oggi i suoi effetti sono abbastanza evidenti ormai?

I cittadini si sono accorti di quello che accade in campagna.

E gli agricoltori come reagiscono rispetto a questo problema?

Gli agricoltori hanno sempre tentato di costruire con la natura un rapporto in grado di sviluppare forme di resilienza dal punto di vista ambientale; soprattutto nell’agricoltura tradizionale fino alla rivoluzione verde, quindi fino alla metà del secolo trascorso, l’agricoltura si era sviluppata sempre in forme tradizionali, con un rapporto attività-suolo anche nelle modalità di allevamento degli animali. Quindi l’agricoltore è sempre stato capace di utilizzare le risorse disponibili, soprattutto di replicarne la rinnovabilità. Oggi il tema dell’impatto che lei ha usato all’inizio della sua discussione è sollevato soprattutto in quelle aree e in quelle culture dove l’agricoltura ha assunto una traiettoria di sviluppo diversa, molto intensiva, legata alle scale dimensionali e a un orientamento produttivo quantitativo. L’Italia, che ha caratteristiche ambientali speciali – l’agricoltura italiana si sviluppa su 10 milioni di ettari, un terzo della superficie del Paese, di cui un terzo è superficie boscata e un terzo soltanto destinata all’agricoltura cerealicola, di coltivazioni estensive –, non ha i numeri a livello produttivo per allarmare in termini di impatto, così come altri sistemi produttivi oggi sono oggetto di attenzione. Si tratta sempre di migliorare i cicli di produzione. Diventa facile per l’agricoltore quando ha un orientamento legato alla qualità, perché significa anche saper tradurre in valore aggiunto la produzione, nuove caratteristiche e prestazioni del prodotto. Il chilometro zero ha espresso un’agricoltura appunto carbon free, in grado di assicurare un equilibrio nelle emissioni, si presta a essere serbatoio carbon sink per

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quanto riguarda l’immagazzinamento di CO2 attraverso colture a ciclo più lungo di produzione. C’è consapevolezza, perché questo si traduce anche in una diversa aspettativa di reddito.

Come vi rapportate con la ricerca scientifica? Tra i vari strumenti a disposizione degli agricoltori per fare un’agricoltura più sostenibile e per rimanere al passo con le nuove sfide dell’agricoltura moderna, come vedete le biotecnologie agrarie?

La ricerca è fondamentale, però deve essere complementare a quelli che sono gli obiettivi. Le biotecnologie non sono complementari a un modello di agricoltore di qualità, identitario, attento all’ambiente. Mi sembra una ricerca piegata a forme aggressive di competizione, poco compatibili con gli equilibri ambientali e la tutela dell’ecosistema. Nel momento in cui è accertato anche da fatti giuridici, cioè da sentenze, quindi delle decisioni inoppugnabili… come quella della Corte di Giustizia sull’inquinamento genetico del polline trasportato dalle api a distanza e poi contenuto in sostanze destinate a comporre integratori alimentari messi in vendita con danno per l’agricoltore che era un agricoltore biologico. Se questo è il modello di agricoltura che vogliamo, probabilmente non appartiene a delle scelte di qualità che questo Paese ha fatto. Per cui siamo piuttosto perplessi, se questa è la ricerca. Per noi la ricerca, ad esempio, è aver lavorato con una società multinazionale, con un’università italiana importante, per recuperare un ceppo di un batterio tradizionalmente diffuso in pianura padana per creare delle resistenze alla formazione di aflatossine nel mais nei periodi di forte stress climatico. Questa è una ricerca significativa, che si lega anche alle peculiarità del nostro territorio, alla conoscenza della flora batterica tradizionale. Significa rendere diversa la nostra agricoltura. Alla fine ambiente ed economia si integrano, combinando migliore qualità ambientale e migliore risultato economico.

Con biotecnologie io intendevo le nuove tecniche di cui si parla oggi, perché “biotecnologie” è un termine generico che vuol dire tante cose.

Allo stato attuale sul mercato c’è ancora il mais MON810, che è l’unico prodotto autorizzato alla vendita. Per il resto, seguiamo con grande attenzione il dibattito anche di queste settimane sulle

New Breeding Techniques. Vedremo, però dovremo, insieme alle valutazioni scientifiche,

inserire anche occasioni di approfondimento per quanto riguarda la brevettabilità del vivente.

Quindi per adesso non siete contrari a priori al genome editing e a queste tecniche?

Non siamo mai stati contrari di per sé, non siamo portavoce della sindrome del giardino del vicino. Abbiamo sempre valutato caso per caso le varie situazioni messe a disposizione. Sicuramente quando gli scienziati dicevano che, per aumentare la produttività, bisognava alimentare le mucche con le farine animali, abbiamo avuto qualche perplessità, come quando di recente la Commissione Europea ha di nuovo aperto alla possibilità di utilizzare in specie diverse dai ruminanti farine di pesce. Bisogna sempre fare attenzione a costruire un modello di agricoltura legato al consumo, non alla produzione, al mercato, perché il cibo non è una merce. Non si fabbrica il cibo come in una industria si fabbricano merci assemblate, con dei prodotti privi di caratteristiche, perché il cibo viene ingerito. Probabilmente c’è bisogno di molta ricerca,

se è vero che aumentano intolleranze e allergie; assistiamo alla messa in commercio di prodotti cosiddetti “senza”, per cui il consumatore è privato della possibilità di avere una scelta alimentare ampia rispetto alle conseguenze che ne derivano per la salute. Penso al glutine, alla ricerca sui grani antichi: per esempio una forma di agricoltura molto moderna che abbiamo sostenuto è quella di rimettere a seminare, attraverso l’impegno di una società che fa capo a Coldiretti, che è SIS, Società Italiana Sementi, grano per la varietà senatore Cappelli, diffuso in poche centinaia di ettari e in un anno già coltivato su oltre 8mila ettari di superficie. Un dato importante, perché presenta migliori caratteristiche anche nutrizionali.

Che importanza date come Coldiretti alla comunicazione delle questioni scientifiche? A chi vi rivolgete nella comunicazione e con quali obiettivi? Con chi non riuscite a comunicare?

Sicuramente non riusciamo a comunicare con chi magari dice che i neonicotinoidi o il glifosate fanno bene, poi magari apriamo “Le Monde” e ci accorgiamo che anche l’EFSA ha commesso degli errori rilevanti. Ecco, con quel mondo non vogliamo comunicare. Chiaramente la comunicazione è aperta. Leggiamo i giornali, le riviste scientifiche nazionali e internazionali, ci informiamo… Cerchiamo di comunicare anche noi attraverso l’allestimento di seminari, momenti di approfondimento, di ricerca, chiamando ricercatori, sollecitando studi, aprendo convenzioni con le università, per cui il rapporto con l’informazione è abbastanza vivace.

Oggi esiste una nuova generazione di agricoltori giovani che sono abbastanza diversi dallo stereotipo classico dell’agricoltore: magari sono laureati, si informano molto anche di quello che accade a livello europeo. In generale oggi come avviene il trasferimento di conoscenze tecnico- scientifiche tra gli agricoltori? Attraverso le associazioni di categoria o anche attraverso altri canali?

Il livello interno, almeno in Coldiretti, è molto forte, come la parte legata agli approfondimenti interni: seminari, iniziative, confronti. La formazione è un altro elemento su cui investiamo molto, a tutti i livelli, interna ed esterna, perché abbiamo diversi strumenti con cui facciamo formazione, anche ai magistrati nelle materie che riguardano appunto il diritto, così come siamo aperti a lezioni di giornalisti e operatori del settore. In particolare noi curiamo molto la formazione dei giovani.

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