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147 Il miglioramento genetico partecipativo coinvolge gli agricoltori fin dall’inizio, direttamente in

campo, e non soltanto alla fine come prevedono i progetti di miglioramento genetico convenzionale. Secondo lei la ricerca “partecipata” che esce un po’ dai laboratori e va sul territorio può essere anche un modo per aumentare la fiducia reciproca fra queste due categorie?

Se parti da un gruppo che non si fida, sì. Il punto è che, se aumenti la fiducia, è perché hai bisogno di aumentarla. Se hai di fronte un gruppo di agricoltori che già si fida degli scienziati perché magari li conosce, ci lavora insieme e si è sempre trovato bene, non hai bisogno di migliorarla. Come tutte le azioni di comunicazione, e quella è anche un’azione di comunicazione, l’efficacia dipende dall’obiettivo e dal target. Quindi in teoria sì, poi in pratica dipende. Sono sicura che certi agricoltori di fronte a un’azione del genere storcerebbero il naso, altri invece la accoglierebbero in maniera entusiastica.

Oggi esistono a livello europeo delle figure di facilitatori, chiamati innovation brokers, per favorire la trasmissione dell’innovazione in campo agricolo, anche perché si riconosce che questo processo non può più essere dall’alto al basso, cioè dalla ricerca agli agricoltori. Secondo lei questa figura può essere utile, e la comunicazione che ruolo può avere?

La comunicazione credo sia fondamentale, altrimenti non farei questo mestiere! Riguardo alla figura specifica… dargli un nome addirittura mi sembra un po’ marketing, però di sicuro ha senso creare più situazioni possibili di dialogo tra categorie diverse, ma che hanno gli stessi interessi. Poi come li chiami va bene, so che potrei essere definita una innovation broker…

Non sono delle persone esterne, anzi, in genere stanno già all’interno di una rete, di un sistema, magari sono degli agricoltori più avanzati di altri o che hanno delle relazioni più sviluppate di altri, che tengono insieme diverse realtà.

Si fa anche in Italia in realtà, anche se non li chiamano così, attraverso le varie associazioni di categoria. Io conosco bene Confagricoltura, che regolarmente crea occasioni di incontro e di scambio di conoscenze tra agricoltori e ricercatori. Il nostro festival è rivolto al pubblico, ma anche agli operatori del settore, per cui parallelamente al programma per il pubblico abbiamo un programma anche per gli addetti ai lavori, dove creiamo workshop, dibattiti ecc. Nel corso dell’anno ci sono tantissime occasioni di incontro e di discussione intorno ai temi scientifici che li riguardano. Magari sui giornali si parla in generale di agricoltura di precisione, però loro poi vanno nello specifico, nel dettaglio, cercano di capire cosa vuol dire, quali sono le innovazioni che devi mettere in campo per riuscire ad attuarla. Ci sono degli esempi anche molto belli di agricoltori che fanno innovazione. Io ho conosciuto dei risicoltori che hanno iniziato a fare agricoltura di precisione quando ancora non esisteva questo termine, per cui portavano in campo degli strumenti fatti in garage e iniziavano a prendere le prime misure; poi pian piano hanno iniziato a collaborare con le università e alla fine adesso magari quelle cose sono diventate dei sensori in vendita che dialogano con i satelliti. Per cui ci sono esempi molto belli di innovazione dal basso, che poi non è così bassa.

Oggi si discute molto delle nuove tecniche di modificazione genetica come il genome editing, soprattutto sul fatto se siano da considerare OGM o meno, però il dibattito non sembra cambiato molto rispetto a quello, ormai vecchio, sugli OGM.

Secondo me invece è cambiato molto. Non sono cambiati i soggetti pro e i soggetti contro: Greenpeace è sempre contrario, i vari Fidenato & co. sono sempre favorevoli e immutabili nel tempo. Però è cambiato tanto a livello di opinione pubblica, e anche di apertura di certi gruppi che sono sempre stati contrari agli OGM, ma che intravedono in queste nuove tecniche delle possibilità concrete di miglioramento. Banalmente, Farinetti è uno che ha aperto al genome

editing e addirittura agli OGM cisgenici sulla vite, l’ha scritto in un libro che era favorevole. Lo

stesso ex ministro Martina, che era contrario alla coltivazione di transgenici in Italia, è favorevole alle nuove tecnologie e agli OGM cisgenici. Slow Food in più occasioni ha dichiarato un’apertura nei confronti di queste tecnologie. Per cui io non credo che sia la stessa cosa, rischia di diventarlo se il dibattito prende una piega di contrapposizione e di radicalizzazione, perché poi alla fine, quando si inizia a urlare sui giornali, tutto si radicalizza, però per il momento mi sembra che ci siano delle aperture insperate fino a qualche anno fa.

Secondo lei è solo una questione di comunicare in maniera efficace e di dare il nome corretto a queste tecniche, oppure gli scienziati hanno anche qualche responsabilità nell’atteggiamento diffidente dell’opinione pubblica, nel senso che magari hanno sottovalutato alcuni aspetti extra- scientifici che alla gente interessano?

Quello sì; se leggi il libro che ho scritto con Dario Bressanini, noi dedichiamo un capitolo agli errori della comunicazione sugli OGM. Gli scienziati hanno sicuramente una parte di responsabilità in quello che è successo, perché, da un lato, li hanno presentati come una sorta di supereroi che avrebbero risolto ogni problema, e dall’altro hanno messo un po’ da parte quella che poteva essere la ricerca pubblica nell’interesse del consumatore e dei nostri agricoltori, per inseguire le multinazionali nei loro obiettivi. C’era anche un po’ l’idea all’epoca – erano altri anni – che i cittadini non dovessero tanto dire la loro su temi scientifici, l’approccio era di calare le cose dall’alto senza preoccuparsi di come l’avrebbero presa in basso. Adesso le cose sono un po’ diverse. Gli scienziati che la pensano così ci sono ancora, però fortunatamente ce ne sono anche altri che ragionano su quali sono le strategie di comunicazione migliori. Il nome è fondamentale, per esempio, perché banalmente il fatto di dare un nome alle cose già crea dei problemi. Gli OGM sono configurati in una categoria per legge, ma non lo sono dal punto di vista biologico. Il fatto di dar loro un nome li ha resi tutti simili, tutti uguali. Tante altre tecniche che si usano per produrre piante non sono passate sui media, per cui non si parla di “mutagenizzati”, per esempio, anche se i “mutagenizzati” ci sono, ma nessuno li identifica; non si parla di “irradiati”, però è pieno di piante ottenute per irraggiamento. Quindi dar loro un nome li ha già condannati. Spero che non si faccia lo stesso con le piante ottenute con le nuove biotecnologie, perché si indurrebbe a vederle in maniera diversa dalle altre piante, cosa che da un punto di vista biologico non sta tanto in piedi.

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