• Non ci sono risultati.

La differenza nell’esercizio dei diritti: dalle asimmetrie di potere all’autosfruttamento

LA DIFFERENZA OLTRE LA ‘CULTURA’: SUPERDIVERSITA’ E CITTADINANZA

4.2 La differenza nell’esercizio dei diritti: dalle asimmetrie di potere all’autosfruttamento

Dopo aver analizzato la capacità dello Stato di definire forme di inclusione e di esclusione dei migranti attraverso il criterio della cittadinanza, ed il rinnovato ruolo del welfare state nei confronti di soggetti vincolati dalla residenza legale nel territorio, e dunque titolari provvisori dei diritti di cittadinanza (la c.d. denizenship), è necessario ora sviluppare una riflessione ulteriore.

Limitarsi a valutare la questione dell’accesso ai diritti in relazione al criterio giuridico-formale della ‘titolarità’ può risultare in taluni casi, sebbene importante, alquanto riduttivo, specie se si considera che l’entitlement non porta necessariamente ad una concreta ed effettiva capacità di esercizio di tali diritti, la quale al contrario dipende spesso da condizioni estranee al dato formale e normativo, ed è ricollegata in maniera stringente ad elementi oggettivi e soggettivi di asimmetria di potere, subalternità, paura, precarietà, vulnerabilità

dei singoli individui. Come sottolineato da Riccio e Scandurra259, il nodo essenziale in merito ai c.d ‘diritti di cittadinanza’ è rappresentato dal grado in cui la ‘differenza’ costituisce una discriminante tra i cittadini, ossia, oltre a considerare i cittadini titolari dei medesimi diritti, è fondamentale valutare se la capacità dei primi di esercitare appieno tali diritti sia indebolita a causa di vari fattori, come le asimmetrie di posizione e potere, il genere, la cultura, l’etnicità, tra gli altri. Per tale motivo, secondo gli Autori, non sarebbe dunque possibile rinvenire un univoco modello di cittadinanza, quanto piuttosto un “ordine negoziato e spesso contestato”, all’interno del quale sono proprio i gruppi più marginali, i non-cittadini, ad esercitare un maggiore impatto trasformativo della sfera pubblica e dei suoi confini. Per questo motivo, dunque, gli Autori, sottolineano come “le battaglie sulla cittadinanza sono spesso battaglie in merito al reale significato della politica e della membership all’interno della comunità”. Alla luce di tali riflessioni, pare opportuno esaminare alcune delle limitazioni emerse nella presente ricerca in merito alla sostanziale capacità delle badanti di esercitare i propri diritti, anche quando dotate di regolare contratto lavorativo, e dunque formalmente ammesse al godimento dei diritti e delle garanzie previste dal nostro ordinamento.

L’analisi si concentrerà, in particolare, sulle limitazioni esistenti al godimento dei diritti previsti dal contratto di lavoro e dalla legislazione in materia, per tentare di comprendere quali siano i soggetti dotati del potere di comprimere il nucleo normativo delle garanzie previste per queste lavoratrici e quali dinamiche di riduzione di tali diritti si configurino all’interno di un rapporto lavorativo che, proprio per le sue peculiarità, spesso confonde la sfera relazionale con quella professionale.

259

B. Riccio e G. Scandurra, Citizenship: anthropological approaches to migration and social

exclusion, in corso di pubblicazione. Si ringraziano gli Autori per l’accesso al manoscritto

Se analizziamo il rapporto di lavoro in termini di condizioni e di diritti e garanzie previsti, è quasi un’ovvietà sottolineare come, a prescindere dagli accordi intercorsi tra le parti, il lavoratore in possesso di un regolare permesso di soggiorno abbia maggiori possibilità di fare valere i propri diritti, potendosi rivolgere anche agli enti preposti, e goda di maggiori garanzie individuali. Lo straniero privo di un documento di soggiorno, e dunque di un contratto lavorativo, è certamente più vulnerabile, non potendo contare su accordi regolari e non potendo rivolgersi per la salvaguardia delle proprie condizioni lavorative a nessun ente (si pensi, tra gli altri, ai casi di maternità, infortunio, malattia, etc.). Il rischio è ancora più alto se si considera che i lavori svolti presso abitazioni private sono pressoché esclusi dai controlli delle competenti autorità. È però vero che, anche nei casi di possesso di regolare contratto di lavoro, il confine tra le mansioni richieste o “dovute” nei casi – non di certo rari – di co- abitazione tra l’assistente familiare e la persona anziana accudita, e situazioni di “sfruttamento”, può essere molto sottile. Come emerge da alcune testimonianze raccolte:

“La badante è un lavoro molto pesante perché non hai orario… quando la signora di notte si sveglia vado da lei, di giorno, sempre… non hai un orario… io esco la domenica, ma solo dopo che l’ho preparata, le ho dato da mangiare, le medicine, poi quando arrivano i figli esco… le ore che sono scritte sul contratto non sono vere, io lavoro sempre…” (Iréne, ucraina, 52 anni)

“Quante ore lavoro? tutte, esco solo il mercoledì pomeriggio e la domenica pomeriggio, ma del resto lavoro sempre… cosa posso fare? lasciarla in casa da sola? E in casa faccio di tutto, se lei dorme non è che mi posso riposare, mi metto a fare i lavori che non riesco a fare quando è sveglia, stirare, lavare,

pulire, etc…solo la sera ho qualche ora per me, ma sono stanca, guardo la tv e poi dormo…” (Inga, moldava, 38 anni)

Addirittura, Samira, la ragazza di origine marocchina già incontrata nei precedenti paragrafi, dice di non avere alcun giorno libero:

“Non mi danno niente, non mi danno neanche un giorno di riposo, sono sempre lì in casa, devo lavorare per la signora e poi per i figli, tutto il lavoro che mi danno loro… non esco mai, mi viene solo a trovare mia cugina la domenica”.

Se domandiamo ad alcune di queste donne il motivo per cui non abbiano pensato di rivolgersi ai sindacati per tutelare i propri diritti, e rendere effettive la garanzie previste dal contratto, capiamo la distanza che esse stesse sanno perfettamente esistere tra quanto è loro garantito ‘su carta’ e quanto sia esigibile nella pratica:

“Qualcuna ogni tanto ci va al sindacato, ma… cosa faccio io al sindacato? Cioè, lo sanno tutte che fare la badante vuol dire lavorare sempre. Che hai solo qualche ora la domenica, che la notte se la signora sta male vai tu e la mattina dopo sempre tu… il contratto… serve il contratto, per avere il permesso di soggiorno, per non essere clandestini, per tornare a casa ogni tanto… ma per il lavoro no…. io dovrei fare 36 ore di lavoro, c’è scritto questo sul contratto! Ma sono sempre con la mia signora, o cucinare per lei, o la pulizia della casa… cosa denuncio? Vedi, anche se cambio famiglia è lo stesso… questo è il lavoro, se non ti piace vai! Ma io voglio fare la badante in casa, non voglio cercare una casa per me, pagare l’affitto, voglio stare qui ancora due-tre anni e poi tornare a casa mia. È un sacrificio che ho fatto per tornare a casa, va bene così. Si, lavoro molto, ma ormai sono abituata. Tanto anche le badanti che hanno più

tempo stanno al parco o in giro, ma dove vai tante ore se non hai un posto?” (Eva, 51 anni, moldava)

“Molte volte devi litigare, farti ascoltare dai figli… non sono mai andata al sindacato, però ho litigato tante volte… devi fare capire che non possono chiedere, chiedere, chiedere, e poi ti metti d’accordo… il contratto non serve a niente, cioè serve, ma poi per quello che devi fare ti metti d’accordo, alcuni sono più buoni altri più cattivi, se non ti piace cambi famiglia..” (Tania, 49 anni, moldava)

“Vedi, un lavoro come questo non è facile da dire quello è scritto sul contratto e faccio quello, e quello non c’è e non lo faccio… tu devi fare quello che c’è da fare, se la signora si ammala lavori anche la notte, e non è che ti pagano di più… io per esempio sono fortunata perché a volte la figlia o il marito mi hanno chiesto la domenica che avevano bisogno che andavano via, e la domenica è il mio giorno libero, ma mi hanno pagata, mi hanno dato dei soldi per la giornata … vedi, ti metti d’accordo, ma certo alcune famiglie pretendono che sei sempre lì, altre capiscono e sono disposte a pagare di più… insomma, a volte litighi,a volte ti metti d’accordo..” ….” (Olena, 51 anni, ucraina)

Le interviste fin qui riportate descrivono la quotidiana attività di mediazione con i diversi soggetti del nucleo familiare italiano: il rapporto lavorativo sembra essere costantemente oggetto di negoziazione in merito a impegno orario, spazi di libertà, diritti e doveri.

Il ‘pragmatismo’ di queste donne le aiuta a risolvere alcuni problemi quotidiani, e l’atteggiamento ‘disincantato’ verso i rapporti di potere fa pensare che esse per prime “utilizzino’ la discrasia strumentalmente al raggiungimento dei propri obiettivi.

Nessuna lavoratrice dimostra di pensare al contratto di lavoro come quadro di riferimento per le proprie mansioni, e riconduce alla quotidianità la definizione e la contrattazione, attraverso strategie ogni volta differenti, dei propri ‘confini’. Più che esigere i propri diritti (nelle apposite sedi) queste lavoratrici sembrano essere orientate ad un’attività di incessante ‘costruzione’ di tali diritti.

Per comprendere appieno i motivi soggiacenti l’accettazione di talune condizioni lavorative è necessario collocare il lavoro di “badante” all’interno del quadro complessivo del progetto migratorio. Se da un lato è vero che il timore legato alla condizione di irregolarità può impedire alla lavoratrice di denunciare talune situazioni di sfruttamento o di sottrarsi alle ipotesi di abuso da parte del datore di lavoro, dall’altro lato è pur vero che in molti casi, la scelta di lavorare in co-residenza e l’accettazione – spesso implicita - del gravoso orario lavorativo sono legate al progetto migratorio, ossia all’ambizione già evidenziata di comprimere la migrazione in un relativamente breve arco temporale, aumentare la redditività del disegno migratorio, raccogliere il denaro sufficiente alla realizzazione del progetto di crescita economica e sociale in patria. Come confermato in letteratura, “la tendenza all’autosfruttamento finalizzata ad accumulare capitale, una concezione e un progetto migratorio costruito su un periodo di duro sacrificio, l’impellente necessità e le pretese della cerchia familiare nel paese di origine, la mancanza di alternative dovute alla condizione di clandestinità possono già essere elementi sufficienti per accettare forme degradate e sottopagate di lavoro”260.

Come si è visto in precedenza, la formula co-abitativa è particolarmente apprezzata da quelle lavoratrici (anche regolari) che, a causa dell’età e

260

S. Ceschi, M. Mazzonis, Le forme dello sfruttamento servile e paraschiavistico nel mondo

del lavoro in Carchedi F., Mottura G., Pugliese E.(a cura di), Il lavoro servile e le nuove schiavitù, FrancoAngeli, Milano, 2003, p. 105. A conclusioni analoghe giunge M. Tognetti

Bordogna, Fasi e flussi migratori: le donne come protagoniste, in La Rivista delle Politiche