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Problemi di care-drain: il vuoto di cura che le “badanti” si lasciano alle spalle.

LE ‘BADANTI TRANSNAZIONALI’: CAUSE, CONSEGUENZE E STRATEGIE MIGRATORIE

1.2 Problemi di care-drain: il vuoto di cura che le “badanti” si lasciano alle spalle.

Come è stato osservato in letteratura, il lavoro di cura sottosalariato è uno dei maggiori segmenti del mercato del lavoro aperto alle donne immigrate, e fa sì che “the bottom of many nations’ occupational distributions is becoming internationalized”160. Tuttavia, proprio perché tali attività si svolgono all’interno delle realtà domestiche di molti paesi “sviluppati”, questo fenomeno resta difficile da quantificare, osservare, fotografare.

È importante sottolineare come la ristrutturazione economica in corso a livello mondiale abbia creato nuove forme occupazionali che hanno molte caratteristiche del lavoro femminile retribuito e dei lavori familiari e di cura non retribuiti161. Salazar Parreñas sottolinea come “the globalization of the market economy has extended the politics of reproductive labor162 into an international level”, con la conseguenza che l’entrata nel mondo del lavoro di cura da parte delle donne provenienti da diversi paesi “in transizione”, o in “via di sviluppo”, sarebbe dunque il frutto della divisione internazionale delle mansioni di cura. Sulla scorta di uno studio sulle donne migranti provenienti dalle Filippine, Parreñas introduce il concetto di “trasferimento internazionale del lavoro di cura”: mentre le donne dei paesi di accoglienza comprano il lavoro a basso- costo delle lavoratrici domestiche filippine, queste ultime fanno contestualmente

160

M. K. Zimmerman, J. S. Litt and C.E. Bose, Global Dimensions of Gender and Carework, Stanford Social Sciences, Stanford, 2006, p. 104

161

Ibidem, p. 106

162

Con il termine “reproductive labor” Parreñas intende il lavoro necessario per sostenere la forza lavoro produttiva, in particolare la cura degli anziani e dei bambini. Cfr. R. Salazar Parreñas, Migrant Filippina Domestic Workers and the International Division of Reproductive

ricorso per la cura dei propri familiari in patria, ai servizi ancor più economici delle donne troppo povere per emigrare, e dunque rimaste in patria163.

Anche con rispetto al caso italiano, alcuni studi evidenziano il problema di care drain, intendendo con questo termine quel “vuoto di cura” che con la migrazione femminile si viene a creare nei contesti di origine164. È chiaro come la partenza da molti paesi dell’est Europa di un numero cospicuo di donne che rappresentano il fulcro del lavoro di care-giving all’interno delle proprie famiglie abbia prodotto la sostanziale privazione dell’attenzione per i componenti più deboli o bisognosi del nucleo, in particolare bambini e/o adolescenti figli delle emigrate, al punto da spingere alcuni a parlare di “orfani sociali”165.

A differenza di quanto sostenuto da Parreñas, nella presente ricerca non sono stati, in ogni modo, rinvenuti casi di “sostituzione” della madre migrante con lavoratici salariate esterne al nucleo familiare166. Il deficit di cura che la partenza della donna-madre indubbiamente tende a produrre all’interno del nucleo familiare sembra essere mitigato – non potendosi dire risolto - attraverso altri membri della famiglia allargata, ossia grazie alla riorganizzazione interna del nucleo parentale, che diventa beneficiario diretto dei proventi della migrazione.

Le testimonianze raccolte tra le assistenti familiari modenesi mostrano come sia possibile infatti, per alcune o molte di loro, evitare che con la propria assenza si verifichino situazioni di vero e proprio “abbandono” dei figli. Se da un lato è

163

“In other words, migrant filippina domestic workers hire poorer women in the Philippines

to perform the reproductive labor that they are performing for wealthier women in receiving nations”. R. Salazar Parreñas, op. cit, p. 49

164

In particolare si veda E. Castagnone, M. Eve, E. R. Petrillo, F. Piperno, Madri Migranti Le

migrazioni di cura dalla Romania e dall’Ucraina in Italia: percorsi e impatto sui paesi di origine, CESPI, Working paper 34/2007, Roma, febbraio 2007

165

Ibidem, p. 35.

166

L’attività sostitutiva svolta dai familiari non deve essere necessariamente intesa come ‘gratuita’, perché può comunque essere concordata dietro compenso economico, o per lo meno attraverso l’accesso o la gestione di parte delle rimesse inviate dalla migrante.

vero che in alcuni casi il marito “resiste” alla partenza della moglie e continua a svolgere un importante ruolo (ma mai perfettamente sostitutivo), compensando in parte l’assenza della figura materna, è altresì vero che altre figure femminili del nucleo familiare controllano e lavorano affinché ai figli (e, quando c’è, al marito) rimasti in patria non manchino le attenzioni quotidiane relative alla cura della casa, all’alimentazione e all’educazione167. Sono le madri delle lavoratrici emigrate a sostituirsi di frequente alle figlie, oppure sorelle o zie che fin da subito concordano la propria presenza in sostituzione della parente emigrata. Come racconta Natalia, una donna ucraina di 44 anni:

“Sono partita dall’Ucraina serena… ho lasciato mia madre coi miei figli. Degli uomini sai che non puoi fidarti, molte donne quando emigrano sanno che li perderanno, li troveranno al ritorno con altre donne… ma io ho una madre e una sorella che curano i miei figli, e so che a loro non manca niente… anche se è tanto difficile, perché ho voglia di vederli, e loro di vedere me.”

Le donne emigrate mettono così in pratica strategie di bilanciamento della propria assenza che limitino gli effetti distorti della propria lontananza. Non è sempre facile, infatti, per molte di loro tornare frequentemente a casa, in particolar modo nella prima fase di irregolarità che distingue il soggiorno lavorativo in Italia. La mancanza di regolare permesso di soggiorno inficia infatti la capacità di ridurre la distanza geografica tra se e i propri figli, ed una figura “sostitutiva” o “compensativa” risulta indispensabile almeno per i primi anni del progetto migratorio.

167

La figura del padre nelle famiglie transazionali in cui la moglie/madre è emigrata emerge come “latente” anche in altri studi. In particolare si veda R. S. Parreñas, Servants of

globalization. Women, migration, and domestic work, Stanford (Cal.), Stanford University

Press, 2001, p. 54 e, della stessa Autrice, Bambini e famiglie trasnazionali nella nuova

“All’inizio non avevo il permesso di soggiorno, e sono stata tre anni interi senza tornare a casa.(…) Non so come avrei fatto senza mia madre, forse non sarei mai partita…” (Helena, moldava, 43 anni)

Secondo alcune sono poi gli stessi figli ad “abituarsi” ai privilegi economici che il lavoro in Italia della madre permette loro, e l’assenza fisica della madre è “ricompensata” dalle cospicue rimesse inviate, che consentono ai figli di continuare gli studi, intraprendere alcune carriere professionali, costruire una casa più grande.

“Io continuo a chiedere ai miei figli se vogliono che rientri, ma loro mi dicono che ancora non è il momento, che ci sono ancora tante cose da fare. All’inizio per loro è stato traumatico, ma adesso si sono abituati a vivere coi soldi che gli mando, a volte penso che preferiscano avere più soldi e non avere una mamma” (Yuliya, 53 anni, ucraina).

La ricerca empirica ha comunque posto in evidenza come, in particolare nei casi in cui la madre migrante abbia ancor figli in età pre-adolescenziale o adolescenziale, la sostituzione di figure parentali femminili si riveli ad ogni modo insufficiente, e le lacune affettive prodotte dalla partenza della madre persistano168. Inoltre, dalle testimonianze raccolte è facile intuire come,

168

F. Piperno, Welfare for whom? The impact of care drain in Romania and Ukraine and the

rise of a Transnational welfare, CESPI, 2007, p. 2. L’importanza acquisita dal tema è

dimostrata dalla crescente attenzione sollevata da istituzioni ed associazioni locali dei paesi di emigrazione verso il vuoto che l’emigrazione al femminile produce verso le generazioni rimaste sole in patria: in particolare si veda G. Irimescu, A.L. Lupu, Home alone! An inquiry

conducted in Iaşi on children separated from one or both parents by their leaving to work abroad, Alternative Sociale, Iaşi, 2006; FRCCF and UNICEF, Foreignland: dreamland or nightmare? Research study on the migration phenomenon from Oaş, Ottobre 2005; M.

Alexandru, Unaccompanied minors in Italy. A community study in two Romanian villages, CeSPI, Roma, Novembre, 2005.

nonostante la strategia migratoria avvantaggi, almeno economicamente, il marito stesso, le donne migranti non sono in grado molto spesso di “negoziare” con il secondo i ruoli svolti all’intero del nucleo familiare, e riproducono a loro volta gli stereotipi culturali che vogliono solo la donna responsabile dei lavori di cura della casa e dei figli. In questo senso colpisce altresì la scarsa fiducia che le donne sembrano riporre nella capacità - in senso di “forza morale”, non solo di “potere sociale” - dell’uomo di supplire alla loro assenza, come dimostrano le parole di Olha, 54 anni, ucraina:

“Gli uomini sono deboli, quando la moglie va via bevono e basta, al massimo si trovano un’altra donna… sono stati trattati come bambini tutta la vita, e ora non accettano di vedere che le donne sono autonome, si sentono inutili… come puoi lasciare i tuoi figli a loro? Hai bisogno di un’altra donna della famiglia che ti aiuti… magari alcune donne sono state più fortunate e i mariti sono rimasti coi figli e hanno fatto un bel lavoro, ma per me in casa non erano da soli, qualcuno li ha aiutati, una nonna, una zia, una sorella, o magari le figlie se sono grandi…”.

Il marito rimasto in patria non sembra dunque rappresentare un soggetto “fidato” cui fare riferimento durante il periodo da trascorrere all’estero: le donne descrivono casi di alcolismo, di abbandono del nucleo familiare, di costituzione di nuove famiglie da parte di molti uomini rimasti soli a seguito della migrazione della moglie. Inoltre, alcune intervistate mettono in evidenza l’aspetto psicologico giocato sull’uomo dalla trasformazione del proprio ruolo sociale e familiare:

“Tanti mariti quando la moglie viene qui in Italia, o va in altro paese, bevono, stanno giorni e giorni ubriachi, vanno con le altre donne, fanno anche figli con

le altre. Sai perché? Perché si sentono perdenti, e sentono che le loro donne non hanno bisogno di loro! Le donne coi soldi costruiscono una bella casa, mandano tanti soldi ai figli, e loro invece non lavorano, sanno solo bere. Insomma, vedono che non sono importanti, che la donna è più forte! Non sono tutti così sai, ma tanti si, fanno così…” (Khrystyna, 49 anni, ucraina).

È possibile dunque osservare come la sostituzione nel lavoro di cura ai familiari vulnerabili delle donne dei paesi sviluppati con donne di paesi ‘in via di sviluppo’ o ‘in transizione’ apra uno scenario di transnazionalizzazione del welfare che crea non pochi problemi: le lacune di welfare sono coperte, in Italia, da donne migranti che lasciano, contestualmente, sprovvisto di copertura di carework il proprio nucleo familiare ricorrendo, a loro volta, ad altre donne nel proprio paese di origine. La trasposizione dei ruoli di genere in ottica transnazionale conferma ciò che in letteratura è stato messo in luce, ossia come attraverso il trasferimento del lavoro di cura nella scala gerarchica dell’universo femminile, “the traditional division of labor in the patriarchal nuclear household has not been significantly renegotiated in various coutries of the world”169. I ruoli di genere non sono dunque messi in discussione, e si ricorre al trasferimento del ruolo femminile su gradini più bassi della scala sociale mondiale attraverso la messa a frutto dei differenziali di reddito. In questo senso è possibile però dimostrare come, contrariamente a quanto vorrebbe una certa letteratura gender-oriented170 che vede solo la relazione di potere tra la donna “occidentale” datrice di lavoro e quella immigrata assoggettata alla prima, le stesse immigrate “lungi dall’essere esclusivamente destinatarie di forze che le

169

R. Salazar Parreñas, Migrant Filippina Domestic Workers and the International Division of

Reproductive Labor, in M. Zimmerman, J. S. Litt and C. E. Bose, Global Dimension of Gender and Carework, Stanford University Press, 2006, p. 61.

170

In particolare J. Andall, Gender, Migration and Domestic Service: The politics of Black

Women in Italy, Ashgate, Aldershot, 2000 e B. Anderson, Doing the Dirty Work? The Global Politics of Domestic Labour, Zed Books, London, 2000; Ehrenreich B., Hochschild A. R. (a

sovrastano e alle quali esse rispondono passivamente, sono le protagoniste attive di una struttura di opportunità creata tanto da fattori strutturali quanto dal proprio comportamento, ovvero dalla propria offerta di servizi”171.

È opportuno ad ogni modo rilevare come, in questo quadro, i meccanismi di stratificazione sociale a livello globale appaiono vieppiù rafforzati. È forse possibile pensare che tale catena sia infinita? Quali saranno gli strati socio- economici della popolazione dove tale sostituzione non potrà trovare più concreta realizzazione? La “catena globale del lavoro di cura”172 che si genera su scala mondiale presenta, chiaramente, profondi interrogativi di sostenibilità sociale sul lungo periodo.