6.1. Applicazioni generali della prospettiva relazionale nella sociologia economica e dell’organizzazione
Come si è avuto modo di discutere approfonditamente nel corso del quarto capi-tolo, il modello relazionale parte dall’assunto che gli scambi di mercato sono pro-fondamente segnati dai problemi della cooperazione e dell’incertezza (cfr. par. 4.3.3). Affinché le potenzialità di scambio si possano concretizzare, in particolare quando il contesto è soggetto a forze di innovazione e richiede standard di quali-tà elevati, è necessario che gli attori maturino dei giudizi di affidabiliquali-tà sugli in-terlocutori dello scambio e sulle rappresentazioni (o “immaginari”) degli scenari futuri in cui potranno maturare i vantaggi economici attesi. Diventano pertanto decisivi i processi cognitivi legati agli scambi e alla circolazione di informazioni, conoscenze e credenze, oltre che alla presenza di aspettative fiduciarie, sia riferi-te ai rapporti inriferi-terpersonali sia riguardanti gli aspetti sisriferi-temici. Il network di re-lazioni sociali (ongoing social relations secondo Granovetter) costituisce il mileu in cui si (ri)producono i processi di costruzione intersoggettiva di tali elementi. In questo contesto, un ruolo chiave è detenuto dai soggetti (individuali e collettivi) che si collocano in posizioni intermediarie tra diversi reticoli sociali e tra diversi livelli del sistema.
Cosa significa leggere e interpretare i fenomeni di diffusione della tecnologia FV a partire da questa prospettiva? Lo schema analitico considera sia la
struttu-120 ra di opportunità potenzialmente derivante da fattori tecnici ed economici (cfr. par. 5.2) sia il sostrato di norme e valori che influenzano le scelte degli investitori (cfr. par. 5.3) come elementi di sfondo. Invece, i fattori contestuali di differenzia-zione che spiegano la variabilità della forma e dell’intensità della diffusione della tecnologia FV riguardano le caratteristiche dei sistemi di relazioni che si dispie-gano in questo settore, la natura e le strategie degli attori coinvolti e i processi a cui danno vita. Tali sistemi di relazioni vengono letti non in astratto, ma come «concreti sistemi di azione» (Crozier e Friedberg 1978) che si delineano e pren-dono forma in maniera differenziata su base contestuale e situazionale.
Assumendo tale prospettiva, dunque, il fatto che la tecnologia FV si diffonda in certi contesti con maggiore intensità e pervasività non dipenderebbe, priori-tariamente, da una maggiore convenienza, fattibilità o opportunità economica dell’investimento. Al contrario, tenuto conto dei fattori facilitanti di ordine nor-mativo discussi in precedenza, risulterebbe decisivo il modo in cui viene affron-tata l’alea d’incertezza che avvolge tale innovazione. Ovvero, si tratta di analizza-re come i sistemi di analizza-relazioni canalizzano informazioni, conoscenze, canalizza-redenze e sostengono atteggiamenti fiduciari, sia verso la soluzione tecnologica in sé sia nei confronti dei soggetti con funzioni intermediarie tra produttori e investitori, collocati nello spazio mediano, ad alta densità relazionale, tra le forze technology
push e demand pull (cfr. par. 5.1).
È noto che la prospettiva relazionale ha trovato molte applicazioni nell’ana-lisi dei fenomeni economici. Nel corso di questo capitolo ne analizzeremo al-cune, cominciando, nel presente paragrafo, da quelle di carattere più generale. Successivamente verranno affrontate quelle riguardanti il rapporto tra intersog-gettività e tecnologia, il ruolo delle figure intermediarie nei processi di diffusio-ne delle innovazioni, la dimensiodiffusio-ne relazionale applicata diffusio-negli studi sui consumi di energia e sugli investimenti in dispositivi energy-saving.
6.1.1. Relazioni economiche come processi situati
Cominciando dagli studi di carattere più generale, osserviamo che la prospetti-va relazionale ha avuto, come è facile immaginare, innumerevoli applicazioni in vari campi di ricerca della sociologia economica e dell’organizzazione. Tra l’altro, negli ultimi decenni, gli studi riconducibili a questa prospettiva analitica han-no visto un crescente ricohan-noscimento scientifico e una costante proliferazione e ampiamento del raggio d’azione (Barbera e Negri 2008; Trigilia 2009). Data la vastità di questi studi, dobbiamo avvicinarci ad essi con un criterio necessaria-mente molto selettivo, richiamando quelli capaci non solo di arricchire la nostra “cassetta degli attrezzi” di riferimenti empirici, elementi di comparazione e chia-vi interpretative, ma anche di delineare qualche possibile meccanismo di intera-zione con lo specifico fenomeno studiato.
121 6. il modello relazionale
Il primo riferimento prende le mosse dagli studi, ormai “classici”, sui distretti
industriali attorno a cui si è sviluppata in Italia una fiorente letteratura,
soprat-tutto nei decenni passati, sia nell’ambito sociologico sia in quello dell’economia industriale1. Si tratta di un campo d’indagine che, date le caratteristiche del feno-meno sotteso, porta “naturalmente” a enfatizzare la prospettiva relazionale (per come l’abbiamo discussa in precedenza), anche se quasi sempre questa si ibrida con quella normativa.
Come è noto i distretti industriali sono sistemi costituiti da piccole e medie imprese collocati in specifici contesti territoriali. In questi sistemi si realizza un’elevata divisione del lavoro su tutta la filiera produttiva, sia in senso verticale che in senso orizzontale. Ne deriva un fitto reticolo di interdipendenze produtti-ve e relazioni di interscambio. I distretti sono caratterizzati da specializzazione merceologica che si coniuga con un’elevata flessibilità produttiva e qualità dei prodotti realizzati che dà adito a una certa capacità competitiva (cfr. Osti 2010b 128 ss.; Ramella 2013, 212 ss.; Trigilia 2009, 192 ss.). È inoltre presente una forte propensione all’imprenditorialità, nonché elevati livelli di professionalità diffu-sa (Paci 1999).
La componente relazionale su base comunitaria costituisce una chiave di lettura imprescindibile per la comprensione di questo fenomeno, come emer-ge distintamente fin dalle prime definizioni, come quella fornita da Becattini. Quest’ultimo ha descritto il distretto industriale come:
un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area terri-toriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di una popolazione di imprese industriali. Nel distretto, a differenza di quanto accade in altri ambienti (es.: la città manifatturiera), la comunità e le imprese tendono per così dire, a interpenetrarsi a vicenda (Becattini 1989, 112).
Parliamo di relazioni di tipo diffuso che poggiano su strutture parentali allargate, amicali, di vicinato e associative. La caratteristica di queste relazioni, fortemente radicate nel territorio, è che la base sociale ed economica, ovvero la natura for-male e inforfor-male, tendono a compenetrarsi. La letteratura è concorde nel con-siderare questo tipo di “infrastruttura relazionale” la chiave del successo delle formazioni economiche distrettuali e della loro peculiare capacità di risolvere i principali problemi del funzionamento dell’economia di mercato (cfr. par. 4.3.3): quello della cooperazione e quello dell’incertezza (e della razionalità limitata).
Rispetto al problema della cooperazione il tessuto relazionale genera e ripro-duce le risorse fiduciarie, ovvero il “capitale sociale” necessario a sostenere i
com-1 Le fondamenta definitorie del concetto di distretto industriale sono state gettate già alla fine dell’ottocento da Alfred Marshall (1890). Il concetto è stato ripreso ed elaborato soprattutto in Italia, nei lavori di Bagnasco (1977; 1988) in ambito sociologico e da quello di Becattini (1989) in ambito economico. Per quanto riguarda la letteratura internazionale uno degli studi più in-fluenti è stato quello realizzato da Piore e Sabel (1984). Sulle evoluzioni recenti dei distretti industriali si veda: Antonelli e Marino (2012), Becattini et al. (2009), Crouch et. al. (2004), Guelpa e Micelli (2007), Provasi (2002).
122 portamenti cooperativi, soprattutto grazie al contenimento di quelli opportuni-stici e alla conseguente riduzione dei costi di transazione.
[…] il radicamento territoriale consente interazioni più dirette, e forme di circolazione delle informazioni e di monitoraggio dei comportamenti che alimentano la fiducia e consentono di isolare rapidamente, e di sanzionare con meccanismi di esclusione, coloro che si allontanano dalle aspettative condivise (Trigilia 2009, 199).
La disponibilità di risorse fiduciarie radicate nella struttura di relazioni sociali costituisce la premessa per la generazione e riproduzione anche delle risorse co-gnitive necessarie a fronteggiare i problemi di incertezza connaturati all’azione economica. Su queste basi, nei circuiti relazionali si genera un’intensa circola-zione e condivisione di conoscenze e informazioni, nonché «processi di appren-dimento sinergici e collettivi» (Camagni 1991, 3). I reticoli costituiscono una fondamentale infrastruttura sociale dei distretti, poiché consentono di ottenere facilmente «notizie cruciali per gli scambi commerciali: ad esempio sulla qualità dei prodotti, sui prezzi, sull’affidabilità dei fornitori, ecc.» (Ramella 2013, 213). Inoltre, su questa stessa base, si generano degli spillover di conoscenza, grazie alla
presenza di uno stock di specifiche conoscenze e competenze specialistiche, legate al contesto locale, che agevolano la produzione di nuove idee e la loro diffusione tra le PMI (ibidem).
In base a questa prospettiva, i distretti possono essere descritti come dei luoghi in cui si realizzano processi di apprendimento collettivo, dove la conoscenza vie-ne gevie-nerata, scambiata e ricombinata, a partire dal fatto che le risorse relazio-nali disponibili facilitano una comunicazione frequente e a basso costo tra part-ner, competitori, fornitori, clienti e organizzazioni infrastrutturali di supporto (Rekers 2011, 5).
Per questi motivi i distretti industriali dimostrano una «capacità innovati-va diffusa» (Ramella 2013, 215) e si possono rappresentare come delle «mac-chine acceleratrici» dell’innovazione e degli «incubatori» di imprenditorialità (Ciciotti 1993, 79). Analogamente Becattini e Rullani li hanno descritti come
dei veri e propri laboratori cognitivi, in cui nuove varietà vengono continuamente spe-rimentate, selezionate, conservate (Becattini e Rullani 1994, 323).
Un aspetto saliente è che all’interno di questi laboratori cognitivi si viene a de-terminare una fruttuosa integrazione della conoscenza esplicita – cioè quella co-dificata, incorporata nelle conoscenze generali di tipo scientifico, tecnologico, or-ganizzativo, comunicativo e produttivo che circolano nella rete globale – e della conoscenza tacita2 di cui sono permeati tali contesti di pratiche condivise (ibidem,
2 L’autore che per primo ha elaborato il concetto di conoscenza tacita è Michael Polanyi (1966). Il concetto parte dalla semplice constatazione che tutti noi «sappiamo più di quello che riuscia-mo a dire» (ibidem, 4). Vi sono almeno due riuscia-motivi per cui alcune componenti della conoscenza divengono tacite. Il primo riguarda la consapevolezza soggettiva: «Esistono infatti alcune
com-123 6. il modello relazionale
323). Si genera in questo modo un sapere contestuale, circolante nei reticoli so-ciali, che svolge un ruolo fondamentale nel tradurre e applicare su scala locale quanto si
produce nei “grandi circuiti” della conoscenza, scientifica, tecnica e applicativa.
In continuità, tematica e teorica, con la letteratura sui distretti industriali si sono sviluppati più recentemente degli studi su “sistemi locali di innovazione” e “distretti high-tech” (Ramella e Trigilia 2010).
Essi sono caratterizzati dalla concentrazione in un particolare territorio di imprese di piccole e medie dimensioni specializzate in settori ad alta tecnologia, per il cui svi-luppo è necessario un legame più stretto con i progressi tecnico scientifici (Trigilia 2009, 202).
Tra i sistemi di piccola impresa ad alta tecnologia, particolare rilievo assumono le bio-tecnologie, le produzioni di software e le telecomunicazioni, le produzioni legate ai media (film, televisione, ecc.) (ibidem, 203).
Rispetto ai distretti industriali, tali sistemi locali di innovazione assumono un più spiccato carattere knowledge intensive e una vocazione innovativa più radicale, essendo orientati alla costante generazione e lancio di nuovi prodotti che si collo-cano sulla frontiera delle conoscenze scientifiche e tecnologiche. Per questo sono necessari forti collegamenti con le strutture deputate alla produzione di tali co-noscenze, come le università e i centri di ricerca pubblici e privati (Trigilia 2009, 205). Ma è importante, in termini peculiari, anche il ruolo di società fornitrici di beni e servizi per le imprese di natura specialistica (ibidem, 206). Si tratta spesso di società o organizzazioni che assumono funzioni intermediarie tra il mondo della ricerca e il sistema delle imprese (Pichierri 2002)
Il caso più noto, riferibile a tale specifico fenomeno, è quello della Silicon Valley (Saxenian 1994), un contesto territoriale – collocato nella parte meridio-nale della Baia di San Francisco, in California – che presenta una forte concentra-zione di aziende operanti nel settore ICT. La Silicon Valley costituisce un sistema fortemente caratterizzato in senso relazionale, con connessioni che trascendono la dimensione puramente interaziendale, coinvolgendo vari soggetti apparte-nenti al contesto territoriale.
Per le imprese della SV i rapporti strategici sono a livello locale, poiché le relazioni fac-cia a facfac-cia e la rapidità negli scambi giocano un ruolo crufac-ciale nello sviluppo dei loro prodotti. La proliferazione di relazioni sociali, un mercato del lavoro aperto e mobile, la nascita continua di nuovi imprenditori e, soprattutto, la competizione tra le impre-se, garantiscono alla SV un continuo rinnovamento. L’apprendimento e l’innovazione traggono beneficio dalla mobilità dei lavoratori e da una struttura organizzativa che all’interno delle aziende è basata su gruppi di lavoro poco gerarchizzati e con «lega-petenze e prestazioni che sono padroneggiate senza sapere esattamente quali regole vengono seguite» (cfr. Ramella 2013, 186). Il secondo motivo dipende dalla «difficoltà di comunicare attraverso il linguaggio (parlato o scritto) alcuni aspetti delle nostre competenze, per cui la loro trasmissione ad altri avviene per mezzo dell’esemplificazione e dell’apprendimento pratico piuttosto che attraverso la codificazione e lo studio» (ibidem).
124
mi deboli», che agevola la comunicazione tra le varie divisioni aziendali, così come quella con i clienti e i fornitori. Anche all’esterno i confini aziendali sono permeabili, sia verso le altre aziende che verso le altre organizzazioni e istituzioni locali, come le università, le agenzie pubbliche e le associazioni di categoria (Ramella 2013, 220)
L’aspetto fondamentale che accomuna i sistemi locali di innovazione con i più tradizionali distretti industriali è dunque il ruolo cruciale del tessuto relazionale che supporta il funzionamento di tali sistemi. Una struttura che si ramifica capil-larmente coinvolgendo non solo le imprese ma anche di un insieme di «struttu-re intermedie» (Arrighetti e Serravalli 2009), categoria a cui afferiscono vari sog-getti articolabili per ruolo (anche di livello istituzionale) e per livello sistemico di collocazione.
L’aspetto relazionale è particolarmente enfatizzato: si tratta di rapporti tra sfere isti-tuzionali diverse, tra attori individuali e collettivi, tra soggetti pubblici e privati. Gli attori dell’innovazione (siano essi imprenditori, ricercatori, centri di ricerca ecc.) si avvalgono per le loro attività di relazioni e legami personali (deboli e forti) che veico-lano risorse cognitive di varietà, così come risorse normative di coesione e di fiducia (Ramella 2013, 230).
Le imprese innovative […] interagiscono e cooperano non solo con i fornitori, i concor-renti e i clienti, ma anche con le organizzazioni formative, i centri di ricerca, le agen-zie d’intermediazione tecnologica, le agenagen-zie finanziarie, gli enti pubblici (Ramella 2013, 199).
Infine, va sottolineato il primato analitico della dimensione spaziale. Infatti, i sistemi qui descritti «tendono a concentrarsi territorialmente e la loro disloca-zione spaziale non è casuale» (Ramella 2013, 229). La caratterizzadisloca-zione in chia-ve geografica di tali sistemi è stata evidenziata fin dai primissimi studi svolti su questo fenomeno, quando Bagnasco parlò di Terza Italia (Bagnasco 1977), riferen-dosi alla particolare predisposizione delle regioni del Nordest e di parte dell’Ita-lia centrale (in particolare le regioni affacciate sull’Adriatico) a sviluppare questo tipo di economie3, con caratteristiche fortemente distinte da quelle industriali del Nordovest e quelle meridionali.
Se è vero che al territorio sono ascrivibili dei fattori di diversificazione delle forme assunte dall’economia di mercato e dei percorsi dello sviluppo economi-co (Blasutig 2001), pur tenendo economi-conto delle forze livellanti esercitate dai recenti processi di globalizzazione (cfr. Ramella 2013, 229 ss.; Trigilia 2009, 291 ss.), un elevato numero di studi suffragherebbe l’ipotesi che i territori o, perlomeno, al-cuni territori, sarebbero in grado di esprimere una specifica “personalità” nell’in-terpretare il proprio ruolo nello scenario economico generale. Tale personalità dipenderebbe in maniera significativa dai sistemi di relazioni che si strutturano al loro interno e di come gli attori che li compongono interpretano
strategica-3 Sono state riscontrate e studiate analoghe tendenze anche in molte altre realtà regiona-li tra cui le più note, probabilmente, sono il Baden-Wurttemberg in Germania, lo Jutland in Danimarca o l’area della Smaland in Svezia (Trigilia 2009, 193).
125 6. il modello relazionale
mente il proprio ruolo. Naturalmente, questi fattori riferibili alla struttura e al funzionamento delle reti sociali si “mescolano” in maniera inestricabile con fat-tori di carattere normativo, quali le tradizioni, la cultura e l’identità del terrifat-torio (cfr. Osti 2010b).
Non è difficile immaginare di estendere questa ipotesi anche al fenomeno af-frontato in questo studio e andare a ricercare le differenze che hanno caratteriz-zato la diffusione della tecnologia FV nel confronto tra i diversi territori alla luce del sistema di relazioni che si sono costituite con lo sviluppo di questo settore. È possibile che queste relazioni si caratterizzino per delle analogie e anche per delle parziali sovrapposizioni con quelle chiamate in causa per spiegare i sistemi locali di innovazione. Nel corso del settimo capitolo avremo modo di constatare che questa ipotesi trova degli ancoraggi sul piano delle evidenze empiriche.
6.1.2. Ambienti, reti e campi organizzativi
La teoria dell’organizzazione ha conosciuto a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso un passaggio fondamentale dalla concezione dell’organizzazione come sistema chiuso alla concezione dell’organizzazione come sistema aperto (cfr. Hatch 2009. 55 ss.; Morgan 1993, 55 ss.; Scott 1985, 123 ss.). La chiave teorica che innescò tale evoluzione nel pensiero organizzativo è rappresentata dalla teoria generale dei sistemi (Von Bertalanffy 1968; Boulding 1956). Il presupposto meto-dologico di questo approccio è che
la comprensione di molte entità sociali, oltre che biologiche, richiede di analizzare le subcomponenti costitutive e le loro relazioni interne ed esterne (Catino 2012, 74).
Senza voler entrare nel merito di questo approccio teorico generale, dal punto di vista dell’analisi organizzativa, uno degli aspetti più rilevanti che ne discendono è che tutte le organizzazioni interagiscono costantemente con il proprio
ambien-te e che tale inambien-terazione risulta cruciale sia nell’analisi delle capacità di
adatta-mento all’ambiente stesso sia nell’analisi delle scelte di progettazione e gestione delle componenti, delle relazioni e dei processi organizzativi (Catino 2012, 74). In particolare, assumono rilevanza esplicativa primaria il livello di complessi-tà, determinato dalle caratteristiche del sistema di relazioni interorganizzative che possono essere più o meno numerose, eterogenee e diversificate, e il livel-lo di instabilità dell’ambiente, dato dalla dinamicità degli elementi ambientali rilevanti e quindi dal grado di imprevedibilità di tali dinamiche (Emery e Trist 1965). Dall’interazione di queste due dimensioni dipende il livello di incertezza che l’organizzazione deve fronteggiare (Daft 2004, 128-131). Su questi presup-posti viene meno l’idea che esista un solo modello universale e ottimale di orga-nizzazione (Bonazzi 2008, 382). Il principio dell’one best way viene soppiantato dal principio dell’one best fit, principio cardine dell’approccio delle contingenze
126 La consapevolezza della rilevanza dei rapporti con l’ambiente affonda le proprie radici anche in un altro terreno teorico, sviluppatosi più o meno conte-stualmente a quello testé menzionato. In questo caso, il rapporto con l’ambiente viene osservato in base a una chiave di lettura più “politica”, ossia considerando la dimensione strategica dell’agire organizzativo, interpretato alla luce delle ne-cessità di controllo sull’ambiente di riferimento, ovvero sulle relazioni rilevan-ti e sulle risorse cruciali per la vita dell’organizzazione. È questa la prospetrilevan-tiva istituzionalista assunta da Selznick (1949), nel suo celebre studio sulla Tennesy
Valley Authority, ma anche, qualche decennio dopo, da Pfeffer e Salancik (1978)
nella loro teoria sulla dipendenza dalle risorse4.
Particolarmente utili ai fini della nostra analisi sono le definizioni dell’am-biente in cui operano le organizzazioni ricavabili della letteratura. Si tratta di defi-nizioni che enfatizzano la dimensione relazionale e contengono, come ve dremo, degli elementi euristicamente rilevanti, evidenziando alcuni aspetti fondamenta-li del campo di interazione generato e sostenuto dai rapporti interorga nizzativi.
Diciamo, in prima approssimazione, che l’ambiente organizzativo è dato dall’insieme «di tutti gli elementi, al di fuori dei confini dell’organizzazione, che sono in grado di influenzare l’organizzazione stessa o una sua parte» (Daft 2004, 122). A partire da questa definizione, si può in primo luogo considerare
l’ambien-te generale. Esso comprende l’insieme di forze e l’ambien-tendenze generali che caratl’ambien-teriz-
caratteriz-zano il sistema in cui opera l’organizzazione e che la influencaratteriz-zano indirettamente. Questi elementi riguardano, ad esempio, l’andamento dell’economia, gli avanza-menti della scienza e tecnologia, i cambiaavanza-menti sociali e culturali, l’evoluzione della cornice politica e normativa (Hatch 2009, 88-94).
In secondo luogo, il livello ambientale con cui le organizzazioni interagisco-no più direttamente e operativamente è rappresentato da quello che viene va-riabilmente definito ambiente di riferimento o ambiente operativo (task environment) (Catino 2012, 73), ma anche network interorganizzativo, denominazione, quest’ul-tima, che enfatizza la forte caratterizzazione in senso relazionale dell’ambiente operativo (Hatch 2009, 87).
Questo livello dell’ambiente «comprende fattori ed elementi che hanno un impatto diretto e rilevante sull’organizzazione nel perseguimento dei suoi obiet-tivi» (Catino 2012, 74). Tali aspetti vengono veicolati dal sistema di interazioni e scambi che l’organizzazione intrattiene, in maniera diretta o indiretta, con una pluralità di soggetti da cui essa stessa trae le risorse necessarie per la propria so-pravvivenza e il raggiungimento dei propri scopi.
L’organizzazione interagisce con quegli attori ambientali che regolano o controllano i sui scambi, come gli investitori, i concorrenti, i fornitori, i distributori, i partner commerciali, le agenzie di pubblicità, le associazioni di rappresentanza, le istituzioni governative e i media. Nel loro insieme, questi individui, gruppi o organizzazioni