1. Il patrimonio ovino mondiale ha registrato una crescita progressiva sino agli anni Ottanta del secolo scorso (un miliardo e duecento milioni di capi nel 1990), si è contratto nel decennio successivo ed infine è aumentato leggermente negli ultimi anni. Alla base di questa flessione è possibile individuare come cause principali la modernizzazione e la razionalizzazione dei sistemi produttivi, lo sviluppo di allevamenti intensivi, l‟avvio di politiche gestionali tese a ridurre i costi di produzione e ad ottimizzare i livelli strutturali delle aziende. Dagli ultimi dati a disposizione si rileva che con 146 milioni di capi la Cina occupa il primo posto a livello internazionale per patrimonio ovino posseduto (il 13% del totale); segue l‟Australia con 86 milioni di capi e l‟India con oltre 64 milioni. Nelle statistiche per Continenti, l‟Europa, con poco più di 136 milioni di capi, si trova al terzo posto dopo Asia e Africa5. L‟Italia, nella classifica per paesi, occupa la quattordicesima posizione con 8 milioni e 200 mila pecore. Relativamente all‟Europa, il Regno Unito è il primo paese con quasi 34 milioni di capi, segue la Spagna con poco più di 22 milioni di ovini, mentre l‟Italia occupa il sesto posto. Nel bacino del Mediterraneo la prima posizione è occupata dalla Turchia, seguita dalla Siria e poi dalla Spagna; l‟Italia è preceduta dalla Grecia e dalla Francia che possiedono rispettivamente 8 milioni e 800 mila e 8 milioni e 500 mila capi ovini. Proiettando i valori dell‟Italia su scala internazionale s‟intuisce come la consistenza dell‟allevamento ovino si collochi in posizione marginale (meno dell‟1%) all‟interno della più vasta economia zootecnica mondiale, anche se, per contro, assume una certa rilevanza nel panorama pastorale europeo (6%). Nell‟ultimo decennio, in Italia, il patrimonio ovino si è fortemente contratto (quasi
5 Alcuni ricercatori della Facolta di Agraria di Sassari hanno rilevato i seguenti dati: «con 456
milioni di pecore – pari a circa il 42% del patrimonio ovino mondiale – l‟Asia occupa il primo posto. L‟Africa è oramai stabilmente in seconda posizione con 280 milioni di pecore – pari a circa il 26% del totale – avendo superato abbondantemente, da oltre un decennio, Europa e Oceania. In questi due ultimi continenti vengono allevati rispettivamente 136 e 124 milioni di pecore, con un‟incidenza sul totale delle greggi mondiali pari, rispettivamente, al 13 e al 12% circa. Il Nord America contribuisce marginalmente alla composizione del gregge mondiale – poco meno di 18 milioni di capi pari a meno del 2% del totale – mentre in America Latina si rinviene la presenza di circa 73 milioni di ovini (7% circa)» (Idda, Furesi, Pulina, 2010, pp. 23-4).
del 25%), passando da 11 milioni a poco più di 8 milioni di capi. Si tratta di una riduzione che non ha paragoni con gli altri paesi europei: l‟allevamento ovino italiano, infatti, è stato scavalcato, come si è rilevato sopra, dalla Grecia e dalla Francia (Idda, Furesi, Pulina, 2010, p. 25).
È opportuno ricordare che, su scala mondiale, il principale prodotto derivato dall‟allevamento ovino è la lana, e, di conseguenza, la maggior parte delle aziende, soprattutto in Australia, Cina e Nuova Zelanda, è orientata alla produzione e alla commercializzazione del prodotto laniero. Per quanto riguarda la produzione di latte, invece, il primo paese al mondo è la Cina; seguono la Siria e la Turchia, mentre al quarto, al quinto e al sesto posto si collocano i paesi del Mediterraneo occidentale, rispettivamente Grecia, Romania e Italia: quest‟ultima concorre con una percentuale del 6% nella produzione mondiale. Le regioni del Mediterraneo e dei Balcani concentrano quasi interamente la produzione di latte del continente europeo. Il comparto, infatti, si è affermato nella trasformazione del prodotto lattiero, raggiungendo alti livelli di specializzazione, soprattutto sotto il profilo tecnologico, organizzativo e commerciale. I dati portano a concludere che, nonostante il latte sia preceduto per importanza economica dalla lana e dalla carne, la pastorizia e l‟industria lattiero-casearia ovina occupano un posto importante nell‟economia di numerose realtà. Nei paesi affacciati sul Mediterraneo, il pastoralismo ovino da latte è infatti particolarmente diffuso e radicato in Sardegna, in Grecia, in Spagna, nel sud della Francia e in Corsica. L‟Italia, che oggi concorre in Europa con una produzione di latte ovino del 18,6%, è preceduta, come già accennato, dalla Grecia e dalla Romania, mentre nei primi anni del XXI secolo il continente italiano deteneva in Europa il primato sulla produzione. La contrazione di questi ultimi tempi è imputabile segnatamente alla riduzione del capitale animale, un fenomeno che ha interessato diverse regioni della penisola, in particolare quelle colpite dalla Blue tongue, epizoozia che ha ridimensionato il patrimonio zootecnico di numerosi territori meridionali e in Sardegna soprattutto ha portato all‟abbattimento e alla morte di migliaia di capi. In sostanza, a differenza degli altri paesi leader europei (Grecia, Romania, Spagna e Francia) che negli ultimi anni hanno aumentato la produzione lattifera, l‟Italia ha perso diversi punti percentuali (ivi).
2. Il quadro di riferimento sinteticamente delineato è utile ad evidenziare il ruolo che hanno i paesi del Mediterraneo nella produzione, nella trasformazione e nella commercializzazione di prodotti derivanti dalla pastorizia ovina ed ancor più serve a chiarire l‟importanza che assume il comparto zootecnico della Sardegna nel medesimo contesto mediterraneo ed europeo. Infatti, con 3.317.410 capi – oltre il 40% del patrimonio nazionale – l‟isola è in Italia la regione con il capitale ovino più consistente e riveste una posizione egemonica nel sistema economico- produttivo lattiero-caseario; il secondo posto è occupato dalla Sicilia con 874.881 capi, segue il Lazio con 749.141e la Toscana con 477.7956.
L‟allevamento di pecore da latte, l‟attività di mungitura, di trasformazione e di vendita dei formaggi hanno assunto un ruolo di primo piano in Sardegna, influendo, conseguentemente, nell‟economia nazionale e, seppur in misura ridotta, in quella internazionale. Lo sviluppo e le trasformazioni che hanno interessato numerose aziende isolane a partire dal secondo cinquantennio del secolo scorso contribuiscono a collocare la Sardegna in una posizione di preminenza rispetto ad altre regioni italiane e, assieme ad alcune realtà del Mediterraneo, svolge un ruolo trainante all‟interno del più vasto quadro dell‟economia agricola europea. Dagli allevamenti sardi proviene oltre il 50% del latte nazionale, segue a distanza la Toscana con poco più del 10% (Idda, Furesi, Pulina 2010, p. 59).
In linea generale, e a prescindere dalla situazione di precarietà che interessa la pastorizia ovina già da un decennio, la Sardegna si attesta quindi come una delle maggiori produttrici ed esportatrici nel settore lattiero-caseario. Per tali motivi, da un punto di vista metodologico, si ritiene opportuno considerare l‟isola come l‟epicentro da cui partire e il riferimento su cui continuamente tornare per condurre un‟indagine sui sistemi pastorali. In questo senso, e considerando le singole specificità, l‟obiettivo di analisi è quello di adottare un approccio di tipo comparativo che consenta di cogliere le differenze tra i diversi comparti europei operanti nel terzo millennio, alla luce delle nuove dinamiche politiche, economiche, sociali e culturali.
6 Dati aggiornati al 31 agosto 2010. Fonte: Anagrafe Nazionale Zootecnica – Istituto
In via preliminare è necessario ricordare che le regioni mediterranee sono al loro interno particolarmente diversificate, con tratti peculiari e caratteristici e, nel caso specifico degli orientamenti produttivi, cambiano talvolta in modo improvviso da una zona all‟altra: il pastoralismo sardo, quello siculo, quello spagnolo, quello francese, ecc., infatti, hanno portato nel corso del tempo alla costituzione e all‟affermazione di numerose micro realtà pastorali. È evidente in questo senso che per poter effettuare un‟indagine sistematica su tutte le aree interessate dalla pastorizia si dovrebbe ricorrere ad un insieme di ricerche locali che spesso non esistono, oppure, metodica ancor più evidentemente problematica, osservare sul campo tutte le zone interessate dal fenomeno oggetto di studio.
Per tali motivi appare doveroso chiarire le modalità con le quali è concepito e condotto il presente lavoro. In questa sede, per pastoralismo mediterraneo s‟intendono i sistemi pastorali operanti nelle regioni occidentali del Mediterraneo stesso. Questa precisazione di carattere geografico si rende necessaria in seguito al dibattito oramai decennale teso a stabilire i confini tra Europa del nord, Europa meridionale e Mediterraneo orientale, con quest‟ultimo intese le regioni nordafricane ed asiatiche, ovvero il Vicino ed il Medio Oriente. Già Braudel aveva chiarito che un‟indagine sul Mediterraneo diventa possibile se questa vasta area viene delimitata e definita, ed in tale direzione, nonostante il panorama vario e composito, è possibile tentare un‟analisi comparativa in relazione alle dinamiche recenti che hanno interessato i diversi comparti zootecnici. D‟altronde, le istanze teorico-metodologiche di riferimento sugli studi del Mediterraneo sviluppatesi negli ultimi decenni non sembrano ricondursi all‟analisi di singole specificità né, allo stesso tempo, hanno l‟obiettivo di elaborare assunti di carattere generale. L‟antropologia del Mediterraneo, infatti, è orientata attualmente all‟impiego dell‟approccio comparativo e ha abbandonato gli studi localistici (indagini su comunità e aree definite) propri della vecchia tradizione (cfr. Albera, Blok, Bromberger, 2007). In tal senso, «l‟apporto di questa diversità di prospettive e di approcci ha determinato alcuni cambiamenti sostanziali, i quali, sormontando le divergenze e le convergenze, hanno restituito una visione multiforme del Mediterraneo, che ha rinnovato l‟interesse degli
antropologi per la comparazione, a partire da un punto di vista meno “confinato” dell‟area studiata» (Miranda, 2007, p. 15).
Un‟applicazione sistematica del metodo comparativo è stata proposta nel 1977 da John Davis, che, nel noto lavoro prima citato People of the Mediterranean. An Essay in Comparative Social Anthropology, ha sostenuto la possibilità di analizzare in maniera comparata le diverse regioni del Mediterraneo, indagandone le somiglianze e le differenze. Le ipotesi teorico-metodologiche di Davis sono state sottoposte a revisione nel dibattito sugli studi mediterranei che si è sviluppato negli ultimi decenni e che ha avuto un punto di inizio con alcuni convegni e la pubblicazione dei relativi atti a partire dalla fine degli anni Cinquanta (cfr. Pitt-Rivers, 1963; Peristiany, 1965; 1968). Il dibattito è maturato in modo particolare dagli anni Sessanta grazie all‟antropologia anglo-americana, si è protratto nei decenni successivi con esiti alterni, per rinnovarsi infine agli inizi del nuovo millennio ad opera di un gruppo di studiosi che ha sostenuto l‟idea di sviluppare un‟antropologia mediterranea comparativa che si distaccasse dalla prospettiva tradizionale (cfr. Albera, Blok, Bromberger, 2007). L‟opportunità di operare una comparazione tra realtà differenti, incentrata comunque su un medesimo problema, potrebbe servire a individuare le differenze presenti tra aree pastorali diverse, all‟interno di un quadro dinamico e mutevole. In linea con Christian Bromberger si vuole sostenere che
uno degli scogli più grandi che la maggior parte delle sintesi non ha saputo evitare è una sorta di fascinazione per alcune somiglianze ricorrenti e per alcuni momenti eccezionali di confluenza interculturale. Se il Mediterraneo offre un contesto pertinente per l‟esercizio del comparativismo, non è tanto per le affinità tra le società che lo circondano, quanto per le differenze che paradossalmente le uniscono [...] Lo spazio mediterraneo invita così tanto all‟antropologia comparata perché, da una parte, i gruppi che lo popolano e hanno a che fare fra di loro sono instancabili comparativisti, per il gioco incessante degli scambi, delle migrazioni, delle frizioni; dall‟altra parte, perché le pratiche degli uni non si spiegano che attraverso le pratiche degli altri, tanto che questo mondo ha formato un sistema di differenze complementari. È senza dubbio questo il tratto che rileva meglio l‟originalità antropologica di tale universo» (Bromberger, 2007, pp. 102- 3).
il mondo mediterraneo, composto da differenze complementari, si presenta come un laboratorio di ricerca particolarmente stimolante al fine di cogliere tutta la gamma delle possibili relazioni con l‟altro che non è, in questo caso, né troppo vicino né troppo lontano, né troppo piccolo né troppo grande. Allo stesso tempo, come se si trattasse di un‟offerta fatta all‟etnologo, esso fornisce un quadro privilegiato per l‟esercizio di un comparativismo «a buona distanza» che non è impegolato nella contemplazione delle differenze marginali, né travolto nel turbinio di speculazioni incontrollabili. La creolizzazione delle consuetudini e gli irrigidimenti narcisisti («etnici», religiosi, nazionali) che formano l‟orizzonte delle società mediterranee contemporanee, definiscono una situazione paradigmatica per l‟antropologia dei nostri giorni» (Bromberger, Durand, 2007, pp. 324-5).