1. Nella storiografia antropologica, l‟area mediterranea rappresenta l‟orizzonte culturale di riferimento dalla quale hanno preso avvio le riflessioni di numerosi antropologi: William Robertson Smith, James Frazer, Emile Durkheim costituiscono soltanto alcuni esempi. Si potrebbe sostenere, pertanto, che l‟antropologia mediterranea è in diretta connessione con gli esordi di questa scienza, evidentemente influenzata dai limiti oramai noti che le epistemologie del periodo imponevano.
Al di là dei fermenti teorici relativi agli esordi dell‟antropologia si può sostenere, sul piano generale, che insieme alle attenzioni etnografiche sulle culture contadine gli antropologi hanno rivolto l‟interesse anche a quelle pastorali che, nelle diverse regioni mediterranee, hanno storicamente espresso ampi e variegati patrimoni culturali connessi al loro specifico sistema produttivo. Numerosi studiosi si sono soffermati sull‟analisi di dati quantitativi, altri hanno indagato forme di comportamento deviante, altri ancora hanno esaltato percezioni idilliache strettamente legate alle aure arcaiche ed esotiche che certi gruppi sociali potevano suscitare. L‟analisi di tali specificità ha contribuito spesso ad isolare diverse società dal continuo fluire temporale, concorrendo nella formazione di identità economico-politiche e socioculturali sovente artefatte. Le regioni mediterranee, inoltre, sono state considerate talvolta in modo localistico; l‟antropologia economica, per esempio, si è occupata raramente di indagare macrocontesti, ma si è orientata, per contro, all‟analisi di specifiche realtà locali. Riguardo a questo proposito, John Davis ha sostenuto che
le società mediterranee non hanno generato alcun grande dibattito in seno all‟antropologia economica, in parte perché gli antropologi ne hanno in un certo senso dato per scontate le istituzioni economiche, in parte perché nessuno di essi ha avuto un ruolo decisivo nel dibattito teorico, e in parte perché la loro attenzione si è rivolta altrove in conseguenza del metodo di lavoro adottato, consistente nell‟occuparsi di piccole comunità di cui è stato messo in rilievo l‟isolamento tentando il più possibile di condurre un‟inchiesta ad isola (Davis, 1980, p. 28).
Le critiche di Davis all‟antropologia delle società mediterranee si indirizzano anche allo scarso utilizzo della comparazione da una parte, e all‟insufficienza sistematica di analizzare le piccole comunità in relazione con gli stati nazionali dall‟altra. Quest‟ultimo fattore, in effetti, trova un riscontro nella mancanza di analisi specifiche tese a considerare i fattori economici in relazione ai processi politici che hanno spesso influenzato, in modo positivo o negativo, lo sviluppo di diversi comparti produttivi.
In questo senso, si è pervenuti ad indagare realtà troppo spesso considerate isolate dai più ampi contesti di mutamento, di scambio, di mobilità in cui, per contro, erano inserite. Infatti, afferma Davis,
leggendo l‟opera di un antropologo si è dominati da un‟impressione di sedentarietà e di autosufficienza, con qualche simbolico riferimento ai mercanti ed ai proprietari che vivono in città, a volte qualche accenno illuminante al rapporto dei contadini con i centri metropolitani, ma poco più […] Nel Mediterraneo gli antropologi sembrano preferire un‟immagine di popoli sedentari, che appaiono del tutto isolati da influenze esterne. Ma è un immagine falsa, priva com‟è di città, con poche migrazioni, poco commercio, sempre pochissimo sul mare stesso, a mala pena con qualche cenno alle attività industriali o artigianali: gli studi antropologici sulle economie mediterranee sono circoscritti, limitati, fuorvianti. Favret ha osservato che gli antropologi hanno trascurato la modernizzazione «en faisant comme s’il y avait deux sociétés – l’une moderne et l’autre
traditionelle – exactement comme il y a deux disciplines dans le département des sciences sociales… l’anthropologie et la sociologie» (1966, p. 6). L‟osservazione è fin troppo moderata: a
parte le eccezioni citate, gli antropologi hanno trascurato anche le città tradizionali ed il movimento tradizionale (ivi, pp. 30-1).
La posizione critica e pessimistica di Davis trova delle eccezioni nei lavori di Emanuel Marx sui beduini del Negev (1967) e di John K. Campbell sui Sarakatsani dell‟Epiro (1964).
In linea con il pensiero di Davis è possibile sostenere che l‟influenza della politica economica sui sistemi produttivi pastorali è stata abbondantemente trascurata. Per tale motivo, i condizionamenti subiti dai pastori non sono stati analizzati nel suo atto di principio, ma sulla base degli esiti evidenti a cui il comparto pastorale stesso era arrivato. Come si avrà modo di vedere più avanti, tale quadro inizia a mutare a partire dagli anni Ottanta del secolo trascorso. Gli studiosi, infatti, si
soffermano in modo più sistematico sull‟analisi delle realtà pastorali, nonostante ancora oggi permangano evidenti lacune relative ai processi di trasformazione che hanno interessato i settori pastorali, soprattutto nella seconda metà del Novecento. Questi presupposti, tuttavia, non implicano che sino agli anni Ottanta si sia assistito ad una qualche forma di lassismo intellettuale; infatti, nel periodo precedente sono state condotte diverse ricerche che hanno comunque contribuito ad ampliare la conoscenza delle società pastorali nel bacino del Mediterraneo.
3.1 Maurice Le Lannou e lo studio di geografia antropica sui pastori e contadini della Sardegna
Nei primi decenni del Novecento l‟area mediterranea è stata interessata da una serie di trasformazioni e di avvenimenti storici che hanno contribuito a ridimensionare sul piano socioeconomico il quadro generale di numerose realtà sociali. In questo contesto di cambiamenti, che hanno segnato un profondo ridimensionamento del mondo agropastorale tradizionale, si colloca il lavoro di Maurice Le Lannou Patres et paysans de la Sardaigne pubblicato nel 1941. Lo studio sulla geografia, la storia, la società della Sardegna condotto da Le Lannou costituisce il risultato di una serie di soggiorni compiuti nell‟isola dal geografo francese tra il 1931 e il 1937, nell‟ambito delle indagini per la sua tesi di dottorato.
Il periodo in cui Le Lannou condusse la ricerca, come è noto, è particolare e delicato. Il fascismo, la guerra civile spagnola, i rapporti spesso poco pacifici tra i diversi Stati europei fanno da sfondo agli sviluppi del lavoro del geografo bretone. Gli avvenimenti di quel periodo, infatti, hanno influenzato la conduzione dell‟inchiesta per cui, come riconosce lo stesso Le Lannou, «l‟insufficienza dei dati numerici renderà certamente poco esplicite alcune mie tesi e certe mie argomentazioni» (Le Lannou, 1992, p. 2). Ma pure al di là di queste oggettive difficoltà determinate dalla contingente situazione politica, Le Lannou è stato il primo studioso contemporaneo ad aver fornito un quadro piuttosto preciso della situazione socio-economica della Sardegna. Il suo lavoro offre infatti una serie di riferimenti puntuali sullo stato dell‟isola così come era storicamente sino agli anni
Trenta del Novecento. L‟opera, pertanto, costituisce un ottimo strumento di conoscenza sulla realtà sarda fino al periodo fascista.
Rilevata la scarsa importanza che avevano l‟attività marinara, quella industriale e, in parte, quella mineraria, Le Lannou sostiene che la Sardegna è una terra di pastori. Sulla pastorizia e sul lavoro contadino è imperniata l‟attenzione del geografo, in particolare sul rapporto tra le due forme di attività produttiva. Egli costruisce una cornice storico-geografica in cui poi colloca una varietà di aspetti inerenti il mondo contadino e pastorale. Rivolge spesso l‟attenzione alla questione dell‟isolamento e, di conseguenza, all‟insularità, quale condizionamento fondamentale nella determinazione della struttura economica sarda. L‟indagine sulle peculiarità naturali della Sardegna, sul clima, sui suoli, sulla vegetazione e sulle malattie determina il quadro ambientale su cui si sarebbero sviluppate le attività economico-sociali di pastori e contadini. Soprattutto per quel che concerne i suoli, Le Lannou individuerebbe nella morfologia isolana le ragioni per cui la società sarda si sarebbe ritratta in una sorta di guscio autoctono arcaico. La realtà ambientale dell‟isola, inoltre, determinerebbe l‟opposizione tra mare e montagna; storicamente, tale dicotomia ha fatto da sfondo ai condizionamenti politici, ma soprattutto storici, che hanno accompagnato la Sardegna nella sua lenta seppur progressiva e costante trasformazione.
La parte iniziale del lavoro, come già si è accennato, è improntata all‟analisi degli aspetti geografici; questa sezione introduce la successiva analisi storica in cui sono indagate le condizioni del popolamento e della vita rurale nell‟isola. Ne deriva che l‟intreccio tra le relazioni sociali e le attività economiche avrebbe dato vita a paesaggi antropizzati, ad attività rurali e pratiche molto originali. Soprattutto le influenze storiche avrebbero indotto la formazione e l‟attestazione di forme d‟insediamento particolari ancora oggi rinvenibili in diverse sub-regioni della Sardegna. Tra le pratiche originali formatesi a seguito di questi condizionamenti si può riconoscere la contrapposizione tra pastori e contadini e, nello sviluppo del lavoro, la teorizzazione di questa condizione di conflitto corre parallela all‟idea che fosse l‟attività pastorale a predominare nell‟economia isolana. A questo proposito, Le Lannou afferma che «la Sardegna è una terra di pastori; l‟economia pastorale è di gran lunga l‟attività più importante di
quest‟isola, che, su una superficie che è la tredicesima parte di quella italiana, ospita un quarto dei suoi ovini» (ivi, p. 6).
Relativamente al periodo in cui il geografo ha svolto la ricerca, nell‟isola c‟erano comunque delle aree in cui il contadino aveva più prestigio del pastore; per esempio nelle zone pianeggianti dove il pascolo lasciava spazio sufficiente alle coltivazioni di cereali e le aree nordoccidentali prevalentemente coltivate a frumento.
L‟antagonismo costante tra pastori e contadini, cui fa sempre riferimento Le Lannou, è in stretta connessione con le forme di transumanza presenti nell‟isola, nello specifico per tutti gli spostamenti a corto, medio, lungo raggio che interessano periodicamente pastori e animali. Le “invasioni” dei campi da parte delle greggi, e la conseguente necessità da parte dei contadini di difendere le coltivazioni, sarebbe all‟origine del rapporto conflittuale tra le due forme di produzione. Neanche l‟Editto delle chiudende, su cui si sofferma Le Lannou, ha contribuito a mutare le forme di mobilità pastorale esistenti da tempo nell‟isola. A questo proposito è noto che la transumanza è stata una delle peculiarità più significative del pastoralismo in Sardegna e Le Lannou sosteneva al riguardo che «resiste ancora oggi alle esortazioni degli esperti che predicano la costruzione di ripari e d‟abbeveratoi, e la cooperazione» (ivi, p. 58), evidenziando in questo modo la scarsa apertura dei pastori verso la modificazione e l‟innovazione strutturale del comparto zootecnico. Gli spostamenti stagionali del bestiame costituiscono uno dei problemi su cui maggiormente il geografo ritorna per confermare le sue tesi circa la situazione inerente l‟allevamento praticato nell‟isola.
Le migrazioni pastorali, comuni a numerose regioni dell‟area mediterranea, sono costitutive e caratterizzanti di diverse forme di pastoralismo. Braudel, per esempio, dedica diverse pagine della sua nota opera Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II al fenomeno della transumanza in diversi contesti geografico-culturali mediterranei e più in particolare distingue la nozione di transumanza da quella di nomadismo, intendendo con la prima il movimento di gruppi specializzati di pastori, mentre con il secondo uno spostamento che «trascina tutto con sé, e su percorsi enormi: le genti, le bestie, e anche le case. Ma
non incanala mai, come la transumanza, enormi fiumi di ovini. Le sue greggi, anche rilevanti, si diluiscono in uno spazio immenso, talvolta a piccolissimi gruppi» (Braudel, 2002, p. 76).
In alcuni tratti del lavoro è possibile notare un Le Lannou romantico, quasi emotivo, incantato da elementi di arcaicità che scopre in Sardegna. Riferendosi ad un ipotetico viaggiatore egli sostiene che «i contrasti di geografia fisica o umana non cancelleranno mai in lui l‟impressione di trovarsi in un angolo della terra totalmente appartato, nel cuore di un piccolo mondo antichissimo che le potenti trasformazioni dell‟epoca moderna e dell‟età contemporanea hanno appena intaccato» (Le Lannou, 1992, p. 164). Al di là di queste divagazioni, probabilmente indotte dal rapporto instaurato con l‟isola durante i numerosi soggiorni, Le Lannou coglie gli aspetti più significativi della realtà socioeconomica sarda, soprattutto se si ricorda che nei decenni successivi tornerà a scrivere sulla Sardegna, smontandone diversi stereotipi e documentandone i mutamenti, specificamente di ordine economico, che si sono imposti negli anni successivi alla pubblicazione del suo importante lavoro.
3.2 Antonio Pigliaru, il codice pastorale della vendetta barbaricina, Michelangelo Pira e La rivolta dell’oggetto
1. Patres et paysans de la Sardaigne è stato giustamente definito da più parti un opera di geografia antropica, poiché i dati ecologico-ambientali della regione si intrecciano fecondamente con le informazioni di carattere socioculturale che il geografo ha raccolto negli anni di permanenza e di ricerca sul campo nell‟isola. Ancora oggi il lavoro di Le Lannou è ampiamente citato da coloro che indagano le contrapposizioni di carattere economico-sociale, che nei decenni scorsi vedevano coinvolti pastori da una parte e contadini dall‟altra. Le rivalità tra le due componenti sono diffusamente descritte e quindi riscontrabili in un‟ampia letteratura, che ha spesso messo in luce la figura del pastore fiero e vendicativo e del contadino mite e accondiscendente. La storiografia sulla pastorizia in Sardegna, in particolare tra la fine dell‟Ottocento e il primo cinquantennio del secolo successivo, si è ampiamente occupata dei diversi tipi di comportamento
delinquenziale, riferibili per nascita e sostrato culturale all‟universo dei pastori. All‟interno di questo quadro di studi deve essere doverosamente inserita la figura e il pensiero di Antonio Pigliaru, che ha fecondamente contribuito alla spiegazione di particolari fenomeni interni alla cultura pastorale dell‟isola. Studioso e professore di filosofia del diritto e dottrina dello stato nell‟Università di Sassari, Pigliaru svolse la sua azione intellettuale in un periodo piuttosto travagliato per la Sardegna. La formazione di una nuova classe politica e dirigente, gli esordi sistematici del mutamento pastorale e l‟acuirsi dei fenomeni criminali stavano alla base delle ricerche del giurista, sempre attento a cogliere i cambiamenti politici e sociali.
Nonostante in Pigliaru sia riscontrabile un atteggiamento talvolta romantico nei confronti del mondo pastorale, egli non arriva mai a considerare in modo disincantato né la realtà dei pastori né tantomeno il fenomeno in prevalenza da lui indagato, ossia la “vendetta barbaricina”. Riguardo tale aspetto, il suo lavoro può essere inserito a buon diritto nella corrente di studi definita di antropologia giuridica, essendo il suo studio strettamente connesso a tematiche di tipo sociodemologico.
L‟opera La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, pubblicata nel 1959, costituisce l‟esito non definitivo di una ricerca condotta per oltre quindici anni: un risultato non definitivo in quanto Pigliaru ritornerà nuovamente sull‟argomento, rivedendone alcuni assunti fondamentali. Infatti, nella nuova edizione dell‟opera pubblicata nel 1970 confluiscono diversi saggi scritti tra il 1955 e il 1969 dove lo studioso amplia le sue precedenti considerazioni. In essa converge la maturazione di Pigliaru formatasi non solo con le concezioni dell‟idealismo gentiliano, ma anche arricchita dagli influssi del marxismo di Gramsci e, in parte, da alcune felici intuizioni metodologiche provenienti dallo strutturalismo levistraussiano. La sua prospettiva teorica, inoltre, era influenzata dalla filosofia e specificamente dagli insegnamenti del maestro Giuseppe Capograssi e dalla lettura di Henri Louis Bergson e di Georges Gurvitch.
Lo studio di Pigliaru sulla vendetta è intimamente connesso alla sua infanzia trascorsa ad Orune in provincia di Nuoro. La Barbagia, quindi, costituisce l‟epicentro da cui egli muove per individuare le problematiche legate al fenomeno
“vendetta”. Il lavoro consiste in una serie di analisi e relative congetture che spaziano da valutazioni socioculturali a giudizi interpretativi. D‟altro canto Pigliaru era stimolato da soluzioni di tipo attualistiche da adottare in modo fenomenologico alla realtà oggettiva delle stesse comunità studiate e valutate tramite categorie costruite a priori. Nella stesura del lavoro fa riferimento alla copiosa bibliografia esistente sul banditismo sardo, alla letteratura, alle interviste sul campo tra i pastori e, più in generale, tra le comunità barbaricine. Egli elabora in forma scritta una sorta di codice giuridico, consuetudinario, che costituisce la norma in Barbagia e che è riconosciuto dalla tradizione comunitaria. La costituzione di tale codice sarebbe imputabile al fatto che, in duemila anni di storia, la Sardegna è stata sottoposta ad un dominio di forze esogene che, inevitabilmente, hanno determinato un certo isolamento delle zone interne; queste, a loro volta, avrebbero sviluppato proprie “leggi” per garantirsi una vera e propria forma di auto-controllo. Pertanto, la vendetta costituirebbe un fenomeno particolare presente in contesti sociali chiusi, strutturati su un mondo austero, quello delle campagne, nel quale le leggi dello Stato e quelle endogene elaborate dalle comunità entrerebbero in conflitto. Si tratta di uno scontro di codici che caratterizzerebbe la cultura pastorale.
La vita dei pastori – sostiene Pigliaru – è inserita in un continuo “stato di necessità”. Il pastore è un individuo “solu che fera”, solitario come un animale selvatico, che deve fare fronte all‟insicurezza, in particolare a quella dettata dalla natura. Per resistere a tale disequilibrio il pastore deve essere abile, ossia l‟individuo deve essere in grado di fronteggiare l‟incertezza della propria esistenza. All‟interno di tale quadro esistenziale, i pastori, anzi il “noi pastori” ha elaborato le norme divenute consuetudini che si oppongono a quelle ufficiali dello Stato.
Alla base del lavoro di Pigliaru, quindi, non è l‟esaltazione mitica di un comportamento morale atavico, ma la ricerca delle cause e dei problemi che sottendono un fenomeno, un mondo e una cultura, questi ultimi due spesso rimasti isolati dai processi di rinnovamento e trasformazione proposti dalle istituzioni egemoniche. Il rapporto conflittuale tra poteri, poi tradotto in conflitto di codici, ha portato alla creazione e all‟affermazione di comportamenti ed istituzioni propri,
rispetto ai quali la vendetta rappresenta un fondamento principale. Tale fenomeno assume significato nell‟universo barbaricino se, come ha rilevato Pigliaru, per tale universo si considera il sostrato socioculturale ed economico in cui questa si manifesta; questo assunto ha ancor più senso se si tiene conto che la realtà barbaricina e, più in generale, quella sarda si fondano su una presunta, o comunque pur vera ma costantemente idealizzata, costante identitaria “resistenziale” basata principalmente sull‟universo pastorale.
Pigliaru è sempre attento alle dinamiche di trasformazione sociale ed economiche che gli consentono di analizzare le variabili che interessano l‟ambito della sua riflessione. D‟altronde, come egli sostiene,
il codice della vendetta non è statico. È dinamico: si adegua. Bisogna dire, a differenza dell'interpretazione romantica, che esso non è senza crudeltà. Anzi nel suo processo di adeguamento alla società storica, è l'aggravarsi stesso delle contraddizioni che maggiormente lo incrudelisce. Il fatto è che la Barbagia non è così perché c'è il codice della vendetta, ma c'è il codice della vendetta perché la Barbagia è così.
2. Nel quadro degli studi antropologici, filosofici, sociologici, il pensiero di Antonio Pigliaru è spesso analizzato assieme a quello di Michelangelo Pira, che deve la sua notorietà alla pubblicazione nel 1978 dell‟opera La rivolta dell’oggetto. Antropologia della Sardegna. Pigliaru e Pira sono giustamente annoverati tra le figure più influenti del panorama culturale in Sardegna del secondo dopoguerra.
Pira trae dalla lettura di Pigliaru alcune dicotomie su cui imposta il proprio percorso di ricerca. In particolare, la contrapposizione tra scuola impropria e scuola ufficiale appare, nel lavoro di Pira, una delle chiavi d‟interpretazione più significative.
Nei suoi studi, riecheggiando il dibattito pedagogico sorto nel corso degli anni Sessanta, ha assunto quasi sempre una posizione dicotomica, giocando sulle opposizioni e alternando tematiche complesse quali quelle legate al bilinguismo, alla società biculturale, che trova riscontro in un contesto sociale bipartito. L‟opera di Pira, infatti, si sofferma sugli scontri tra codici intesi nella loro
accezione più ampia: linguistici, culturali, giuridici, estetici. La contrapposizione tra codici interni ed esterni rappresenta una delle costanti più ricorrenti del lavoro e da queste considerazioni deriva la volontà di Pira, sulla scia di Pigliaru, di racchiudere i soggetti del pastoralismo in una categoria ben nota, quella del “noi pastori”, un mondo chiuso e circoscritto. Chi, pur figlio di pastore, era intellettuale, era sempre altro, restava escluso dalla categoria del mondo pastorale. Si esplica in questo senso la frapposizione di Pira tra pastore e intellettuale. Le due figure sono contraddistinte all‟interno della più vasta contrapposizione