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I SEGNALI DI INTERAZIONE LA PERSONALITA’

2.3 LA DIMENSIONE VESTEMICA

La dimensione vestemica descrive il saper “padroneggiare il mondo della moda” (Balboni, 2012, pag. 130) e comprende tutto ciò che riguarda vestiti, abiti, uniformi, capi di abbigliamento indossati in diversi contesti, formali o informali, o dei quali ci avvaliamo per identificarci in un determinato gruppo.

Barthes ha osservato il vestiario e l’ha comparato all’analisi linguistica, distinguendo il vestito scritto, “cioè quello descritto da un giornale di Moda per mezzo del linguaggio articolato” (2002, pag.18) come “è un insieme sistematico di segni e di regole: è una lingua allo stato puro.” (Barthes, 2002, pag. 18).

Il vestito fotografato, che appartiene ad un determinato gruppo di moda, in quanto esso viene indossato da una modella per pubblicizzarlo e, infine, il vestito indossato, che rappresenta l’abito reale indossato dalle persone, indicando tutti i dettagli di fabbrica (marca, casa di produzione, materiale) e le componenti individuali che ci permettono di indossarlo (taglia, gusto personale).

Anche il nostro modo di vestire, quindi, può rivelare agli altri qualcosa su di noi, sulla nostra personalità e sul nostro mestiere. Rappresenta cioè anch’esso un fenomeno di comunicazione.

L’immagine esteriore, soprattutto al giorno d’oggi, è il nostro biglietto da visita all’interno della società. L’immagine esteriore infatti è molto importante, occupa la maggior parte della nostra considerazione; conta molto l’essere ben vestiti, ben truccati per poter compiacere agli altri e accrescere l’opinione che hanno di noi.

“Il corpo di una persona, o meglio, l’immagine del corpo che riesce a presentare, ha un effetto considerevole sui suoi sentimenti e sul suo comportamento verso gli altri.” (Argyle, 1978, pag. 248). Bonfiglio afferma che il nostro modo di vestire è fortemente influenzato dall’ambiente circostante, tanto che “l’esibizione del proprio status sociale è un aspetto talmente importante e talmente radicato nelle società, che non sempre ci accorgiamo di quanto ne siamo completamente influenzati” (2008, pag. 67).

Negli europei il modo di pensare al vestito come sinonimo per rappresentare sé stessi è un fenomeno recente che, però, ha riscosso un grande successo tanto da far emergere l’aspetto esteriore e il sistema della moda come prioritario nella vita quotidiana.

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McLuhan afferma che “gli europei, a partire dalla Seconda guerra mondiale, hanno cominciato a porre l’accento sui valori visivi” (2015, pag. 120) e quindi a produrre in serie sulle basi del consumo.

Sull’abbigliamento, in particolare, si manifesta la tendenza a “farsi guardare” tanto da essere nominate, sempre da McLuhan, “culture visive”.

Il modo di vestire è visto come la nostra seconda pelle, utile a “dare informazioni intorno alla personalità, allo status sociale, al gruppo di appartenenza di chi li indossa ed anche sulla disponibilità sessuale, sull’aggressività e su altri atteggiamenti interpersonali.” (Argyle, 1978, pag. 248).

A questo proposito Balboni e Caon hanno affermato che “La scelta del vestiario comunica sia il rispetto che portiamo all’interlocutore sia l’atteggiamento relazionale che si vuole instaurare, soprattutto in termini di ufficialità o informalità di un incontro.” (2015, pag. 76).

Esistono comunque delle differenze nei vari paesi anche in questo settore, legati ai valori, alla cultura o agli agenti atmosferici; per cui avremmo vestiti più coprenti per le donne del mondo arabo oppure vestiti più leggeri nel Sudan, in cui il caldo è complice di questa scelta.

La nudità, che nelle tribù antiche non era vista come qualcosa di scandaloso, non era considerata tabù; nell’Europa moderna è consentita soltanto in alcuni luoghi come a casa, in spiaggia o nelle piscine.

Lo stile del nostro abbigliamento fornisce informazioni anche sulla nostra personalità e sul nostro status sociale, l’appartenenza ad un gruppo, ad un’associazione e può rivelare la nostra professione.

Nei gruppi di appartenenza è possibile riconoscersi attraverso ideologie comuni tipiche, ad esempio, di alcuni movimenti giovanili che si traducono anche nello stile degli abiti indossati per potersi omologare tra loro e, nello stesso tempo, differenziarsi dagli altri. “In Inghilterra, nel corso degli ultimi anni, l’appartenenza a vari movimenti giovanili – teddy boys, mods, rockers, “teste pelate” (skinheads), ed hippies – è stata chiaramente indicata tramite l’aspetto.” (Argyle, 1978, pag. 252-253).

Questi movimenti indicano rispettivamente:

- teddy boys – si riferisce ad una subcultura giovanile nata in Inghilterra dopo la Seconda Guerra Mondiale che tentava di imitare lo stile dell’epoca edoardiana;

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- mods – è l’abbreviazione di modernism e si tratta di una subcultura giovanile sviluppatasi in Inghilterra negli anni ’50. Si identificavano tra di loro nella ricerca di tutto ciò che sembrava nuovo e insolito;

- rockers – rappresenta una subcultura inglese sviluppatasi negli anni ’60, che assimila un modo di vestire tipicamente rock;

- skinheads – è un movimento giovanile inglese sorto alla fine degli anni ’60 e si caratterizzava con un look di strada, tipico della classe operaia;

- hippies – è un movimento nato negli Stati Uniti e diffusosi poi in tutto il mondo. Gli appartenenti a questo gruppo inneggiavano a un ideale di pace e libertà, inoltre scelsero di adottare un abbigliamento vivace e colorato.

In molte professioni l’appartenenza o meno ad un dato mestiere molte volte viene dichiarata dagli abiti, divise ed uniformi.

Un esempio tipico sono le forze dell’ordine (militari, poliziotti, carabinieri) o anche postini, medici, infermieri, camerieri, cuochi, ecc.. che indossano una divisa specifica relativa all’ impiego che esercitano, per essere riconosciuti come tali.

Anche i rappresentanti di aziende, politici, giornalisti, direttori di banche indossano una sottoforma di uniforme, poiché portano vestiti formali costituiti da giacca e cravatta per gli uomini e tailleur per le donne, i quali non indicano una determinata professione ma piuttosto l’appartenenza ad un mestiere di rilievo.

Anche “i barboni, gli hippies, i rivoluzionari, […] e i religiosi” si distinguono per i vestiti che indossano e che li identifica come appartenenti a quella categoria o gruppo sociale; infatti “per i membri di questi gruppi è importante potersi riconoscere l’un l’altro”. (Argyle, 1978, pag. 254).

Vi sono alcune cerimonie o occasioni particolari, come ad esempio il matrimonio, in cui gli abiti indossati comunicano l’importanza dell’occasione e tendono a voler mostrare, soprattutto in chi celebra, “l’autorità conferita e simbolizzata dalla procedura cerimoniale” (Argyle, 1978, pag. 254).

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I colori del nostro abbigliamento comunicano la nostra personalità, è stato dimostrato che “persone socievoli ed estroverse preferiscono colori più chiari ed intensi” (Argyle, 1978, pag. 254), cioè colori che manifestino allegria, felicità, colori, che risultino vivaci agli occhi degli altri.

Tanto che, fin dall’infanzia il modo di vestirci è importante perché passa l’immagine che noi vogliamo dare agli altri.

Argyle riporta una considerazione fatta da Stone, il quale osserva lo sviluppo dei bambini e afferma che essi attraversano tre fasi:

- Stadio precedente al gioco: si indossano vestiti scelti dalla madre;

- Stadio del gioco: si mettono i vestiti seguendo la fantasia;

- Stadio del gioco sociale: si indossano uniformi di gruppo e riconosciute che indicano l’identità come membro di un gruppo o come singolo individuo.82

Cresciamo, quindi, con la consapevolezza della scelta del vestiario adeguato per uniformarci agli altri o per risultare diversi, in base al messaggio da trasmettere su di noi e sulla nostra personalità.

In epoca adolescenziale tendiamo a seguire la moda, poiché la nostra personalità risulta instabile, e la mancanza di immagine che abbiamo su noi stessi fa si che ci dedichiamo maggiormente al nostro aspetto esteriore affinché riusciamo a trovare l’immagine omologata che ci renda visibili e facilmente accettabili dagli altri.

Attraverso l’abbigliamento è possibile anche lanciare dei segnali riguardanti i nostri atteggiamenti o “provocare” chi ci sta di fronte.

Ad esempio le donne, in generale, curano molto il loro aspetto esteriore prestando attenzione al trucco, all’acconciatura dei capelli, al vestiario il quale, molte volte, risulta ben curato proprio per mettere in rilievo le forme e presentare agli altri l’immagine che loro hanno di sé o, semplicemente, per ricevere complimenti.

Anche alcuni gruppi rockettari o di motociclisti manifestano la loro appartenenza al gruppo attraverso i vestiti, tramite i quali manifestano anche atteggiamenti di minaccia e

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Argyle, “Il corpo e il suo linguaggio: studio sulla comunicazione non verbale”, Bologna, Zanichelli 1978, pag. 254.

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di aggressività, tipici del loro modo di pensare. Questi gruppi, scrive Argyle, “portano abiti di cuoio nero con borchie, svastiche e coltelli.” (1978, pag. 259).

L’aspetto esteriore può anche essere stravolto dal desiderio di mostrare originalità o anticonformismo e, in questo modo, differenziarsi dalla massa. È il caso degli hippy che si identificano attraverso “capelli lunghi e sporchi, abiti originali e stracciati” (Argyle, 1978, pag. 259-260).

Abbiamo visto, quindi, come i vestiti possono risultare una forma di comunicazione rivelando agli altri aspetti su di noi e sulla nostra personalità che, a prima vista, possono essere celati.

L’abbigliamento si modifica a seconda dello stile, dell’ambiente e dell’occasione e può, quindi, essere formale o informale, può comunicare la nostra appartenenza ad un gruppo o a una determinata professione, modificandone l’aspetto a seconda dell’immagine che vogliamo assumere per poterla comunicare agli altri.

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