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Dino Buzzati Il deserto dei Tartari J M Coetzee Waiting for the Barbarians

(Franz Kafka - Das Schloss)

C’è una caratteristica fondamentale della frontiera che la pone come una sorta di “finestra” affacciata sul mondo, su di un mondo necessariamente diverso da quello che possiede la facoltà di aprirla o chiuderla. In effetti - come abbiamo già detto - la stessa etimologia della parola le conferisce un valore vettoriale, una direzione nello spazio. Chi si trova sulla frontiera, si trova anche di fronte a qualcosa che per sua natura sta oltre la frontiera stessa. Per questo essa è un punto d’osservazione privilegiato, sia nel caso in cui si rivolga lo sguardo all’indietro verso il “centro”, sia nel caso in cui si volga in avanti.

Infatti, per quanto la frontiera sia una figura estremamente mobile, che subisce (e agisce) i cambiamenti morfologici, politici, etnici, ecc., e benché tale dinamismo ne sia un carattere predominante, essa mantiene in sé un aspetto d’immobilismo. È questo il

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caso di chi si trova in un certo senso “intrappolato” dalla frontiera stessa: proprio perché essa promette i grandi eventi che cambiano la storia, una delle plausibili reazioni a questo è la speranza che accadano da un momento all’altro. Ciò che spinge a non abbandonare la frontiera per il centro, né per ciò che sta oltre, che le conferisce un potere fascinoso e incantatorio, sono la paura e il desiderio. Non è infatti un mistero che di fronte a qualsiasi tipo di limite ci troviamo stretti tra la paura di violarlo e il desiderio di scoprire cosa c’è oltre, finendo quasi sempre per temporeggiare.60 Questa

che definirei “vertigine dell’attesa”, è una delle componenti più evidenti del Sentimento della frontiera.

Analizzeremo questa particolare modalità d’essere del Sentimento della frontiera attraverso due testi esemplari, che fanno dell’attesa il loro filo conduttore: Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati e Waiting for the Barbarians di J. M. Coetzee.

I due testi risultano ad un primo confronto molto “lontani” tra loro: l’uno è un romanzo italiano del 1940 sull’inutilità di vivere la quotidianità e le proprie scelte in funzione di un evento esterno che dia un senso alla propria vita, l’altro, un romanzo sudafricano del 1980, sebbene non rifugga del tutto da questa lettura, è primariamente un romanzo sul dolore e più esattamente sulla tortura come figura del male.61 Il loro

legame appare ancora più vago se si pensa al resto della produzione dei due autori: due modi di pensare la letteratura decisamente differenti.62 Tuttavia non è possibile

negare la presenza di alcune – e non del tutto secondarie – affinità.

Innanzi tutto permane sullo sfondo di entrambi i romanzi un’aura di indeterminatezza, un che di misterioso ed inquietante. Infatti, benché Il deserto dei tartari sia definibile come «un romanzo surrealista allegorico, in cui il piano della

60 Si pensi per esempio a cosa succede a chi soffre di vertigini: non è solo paura del vuoto, ma

attrazione. La paura è una sorta di effetto collaterale: si ha paura del vuoto proprio perché se ne è attratti. La conseguenza è l’immobilismo.

61 Cfr. Lucia Fiorella, Figure del male nella narrativa di J. M. Coetzee, Pisa, Edizioni ETS, 2006.

L’autore stesso esplicita l’intento del romanzo: «In 1980 I published a novel (Waiting for the Barbarians) about the impact of the torture chamber on the life of a man of conscience». (J. M. Coetzee, Doubling the point: essays and interviews, Cambridge & London, Harvard University Press, 1992, p. 363.)

62 Come studi dedicati alla comparazione dei due testi segnalo: Annajulia Mariani, Il deserto

dei tartari di Dino Buzzati e Aspettando i barbari di J. M. Coetzee: il tema dell’attesa, in: Ignazio Baldelli – Bianca Maria da Rif (a cura di), Lingua e letteratura italiana nel mondo oggi II, Firenze, Olschki, 1991, pp. 481-488 (qui il tema dell’attesa è identificato come centrale in entrambi i romanzi, ma quasi del tutto sconnesso dallo studio dello spazio); Cristina Pugliese, The Border, the Deset, the Enemy: Dino Buzzati’s “Il deserto dei tartari” and J. M. Coetzee’s “Waiting for the Barbarians”, in: «Studi Buzzatiani», anno VIII, 2003, pp. 21-36; Michela Canepari-Labib, Constructing and decostructing empires. J. M. Coetzee’s “Waiting for the Barbarians” and Dino Buzzati’s “The Tartar Steppe”, in: «New Comparison», n. 32, Autumn 2001, pp. 66-88.

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connotazione prevale su quello della denotazione»,63 e benché Waiting for the Barbarians

mantenga rapporti più stretti col verosimile e faccia molto meno ricorso all’assurdo, in entrambi i testi manca una collocazione spazio-temporale precisa. Indizi e piccoli dettagli diffusi nei testi si presentano come “familiari” al lettore, senza però riuscire a dargli punti di riferimento certi. Numerosi sono gli accenni alla storia: all’Italia del XIX secolo, alla colonizzazione inglese in Sudafrica, ma sono piuttosto vaghi e non vengono mai confermati.

Troviamo inoltre in entrambi i romanzi la volontà da parte degli autori di dare spazio e importanza semantica ai sogni, che spesso sono elementi collocati in punti di snodo narrativo. L’elemento del sogno è a volte premonitore, come nel caso di Giovanni Drogo (Deserto dei tartari) che in un certo modo anticipa la morte dell’amico Angustina.64 Oppure è profetico come il sogno ricorrente del magistrato (protagonista

del romanzo di Coetzee), che dipinge una città fredda e senza vita, attraverso l’immagine dei bambini che giocano sulla neve e costruiscono un villaggio, ma senza persone nella piazza.

Altra caratteristica che avvicina i due testi è l’importanza data ai nomi dei personaggi. Nel deserto dei tartari troviamo nomi italiani, spagnoli e francesi (Matti, Ortiz, Morel), una varietà che contribuisce al disorientamento del lettore. Alcuni dei nomi, inoltre, giocano sul significato delle parole e ci dicono qualcosa sul personaggio. Ad esempio Angustina richiama “augusto” e “angusto” due aggettivi che ricordano da una parte l’estrazione nobiliare e l’orgoglio del personaggio, e dall’altra la fragilità e la debolezza che gli costeranno la vita. Così come lo stesso Giovanni si chiama Drogo di cognome, come la “droga” che la Fortezza rappresenta per lui; oppure il Monti, che è un uomo «gigantesco»,65 di bassa estrazione sociale, personaggio chiaramente

contrapposto ad Angustina. Anche in Waiting for the Barbarians, sebbene ci siano solo tre nomi (Joll, Mandel, Mai, gli altri sono tutti identificati semplicemente con il ruolo che svolgono all’interno della colonia), anche qui le parole nascondono dei significati importanti. Se analizziamo per esempio il nome del colonnello Joll, il primo personaggio presentato nel libro, scopriamo che in afrikaans to jol significa giocare, divertirsi; le torture di Joll si dipingono così in una tonalità ancora più cupa, caricandosi della malvagità di chi trova “ricreazione” nel dolore altrui.66

Ma indubbiamente l’elemento comune più vistoso è l’ambientazione dei romanzi nello spazio allegorico della frontiera che, non più una semplice cornice dei fatti, né una loro affascinante allocazione, diventa un aspetto fondamentale delle opere. È

63 Nella Giannetto, Buzzati o il coraggio della fantasia, in: Idem, Il coraggio della fantasia. Studi e

ricerche intorno a Dino Buzzati, Milano, Arcipelago Edizioni, 1989, p. 18.

64 Cfr. Dino Buzzati, Il deserto dei tartari, Milano, Mondadori, 1995, pp. 78-83. 65 Dino Buzzati, Il deserto dei tartari, cit., p. 121.

66 Per una più attenta analisi sui significati dei nomi nei due romanzi, cfr. Cristina Pugliese,

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appunto sullo spazio del limite – limite dell’Impero, del Regno, del Mondo, ecc. – che si collocano i due avamposti in questione: la Fortezza Bastiani e la colonia di frontiera amministrata dal magistrato. È il deserto, in entrambi i romanzi, a ricoprire tutta la superficie dell’indefinito, a dividere sia naturalmente che politicamente due entità distinte. Il deserto – come abbiamo già avuto modo di verificare - è una delle immagini che più richiamano il mito della frontiera: esso non solo rappresenta la lontananza assoluta, ma soprattutto l’ostilità del mondo, i limiti della civiltà e dell’uomo, la solitudine e la sofferenza. Poi, strettamente legato allo spazio della frontiera, c’è il tema dell’attesa che corre lungo le pagine dei due romanzi di Coetzee e Buzzati e che trova nella frontiera il suo campo ideale, la sua reificazione nello spazio.

È difficile dire, prima di tutto, se Coetzee abbia letto o meno Buzzati, tuttavia non è questo il punto. Sappiamo di certo che titolo del romanzo sudafricano non è collegato in nessun modo al Deserto dei tartari, ma ci rimanda invece esplicitamente ad un terzo testo, la poesia Aspettando i barbari (1904) di Costantino Kavafis. In essa il tema centrale è senza dubbio l’attesa, un’attesa inerme e vana, poiché i barbari infine non arrivano e “deludono” l’impero.

Кαὶ τώρα τί θὰ γένουμε Χωρὶς ϐαρϐάρους. Οἱ ἄνθρωποι αὐτοὶἦσαν μιὰ ϰάποια λύσις.67

I barbari della poesia di Kavafis e del romanzo di Coetzee sono lo straniero per antonomasia (nel significato originario e linguistico della parola bàrbaros),68 qualcuno di

estremamente diverso e incomprensibile di cui allo stesso tempo avere timore e desiderarne l’incontro. Paura e desiderio, due emozioni che fondano il Sentimento della frontiera, si uniscono nell’attesa dei barbari. Nel testo del poeta greco essi sono dipinti come una soluzione di continuità, un evento che spezza la monotonia decadente della realtà; nel romanzo diventano alibi della violenza imperialista.

67 Costantino Kavafis, Aspettando i barbari, in: Id., Ποιήματα/Poesie, (1935), Milano,

Mondadori, 1972, p. 20.

«E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?/ Era una soluzione quella gente».

68 «Il termine greco bàrbaros ha paradossalmente un origine orientale e fu formato per

onomatopea imitativa e reduplicativa (in modo quindi simile al verbo latino balbutio) a indicare un linguaggio non articolato e un parlante eterofono, incomprensibile. Questo è un dato interessante e peculiare dei greci. Essendo la loro cultura fondata su principi linguistico-logici e sull’idea rappresentata dal termine lògos, che indica al tempo stesso il discorso parlato e la ragione, i greci hanno basato la propria identità (e la definizione della diversità degli altri) sul possesso di quello che a loro pareva il proprio linguaggio articolato e intelligibile, attrezzato per comprendere l’ordine del mondo, e l’identità degli altri su un loro presunto possesso di un linguaggio non articolato e incomprensibile». Remo Ceserani, Lo straniero, Bari, Laterza, 1998, p. 19.

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Un altro testo, meno palesemente, viene necessariamente richiamato all’attenzione in questo confronto tra Waiting for the Barbarians e Il deserto dei tartari: è il dramma in due atti Waiting for Godot di Samuel Beckett. Coetzee studiò a lungo l’opera di Beckett ed è ragionevole pensare che ne fu in una certa misura influenzato. Di sicuro il romanzo di Buzzati non ha nessun legame diretto con Beckett - la prima del dramma fu messa in scena nel 1952 -, tuttavia non si può negare che gli ufficiali della Fortezza Bastiani abbiano delle tonalità beckettiane e che sembrino dei Vladimiro e degli Estragone che, più marziali del solito, giorno dopo giorno aspettano sotto un albero o sopra le mura della loro Fortezza l’evento/Godot che cambierà loro l’esistenza. Certe assonanze, per quanto siano solo delle assonanze, non fanno altro che confermare come l’attesa vana e impotente, frustrante e assurda, sia stato non solo un tema letterario proficuo, ma soprattutto un tratto importante della cultura di fine millennio.

Dunque i due romanzi, benché si rivelino piuttosto lontani tra loro, sembrano rendere lecita una riflessione sul terreno comune dell’attesa, collocato in un comune scenario allegorico: lo spazio della frontiera. Ciò che vorrei tentare qui, nei limiti dell’occasione, è una lettura parallela di essi che prenda le mosse dallo spazio, inteso come segno propulsore di significati e sviluppi narrativi.

La Fortezza Bastiani descritta da Buzzati e il “forte” nel quale Coetzee ambienta le vicende del suo romanzo, sono gli ultimi ed estremi avamposti di stati non bene identificati, in tempi e luoghi sconosciuti. Sembra infatti che l’unica indicazione importante e sufficiente a spiegare tante cose, sia quella di essere in una terra di frontiera, ai limiti estremi del proprio mondo. Non è un semplice contesto o una cornice entro la quale si svolgono i fatti, la frontiera è in entrambi i testi un’allegoria, immagine dell’immobilismo e del dinamismo insieme, dell’incontro come dello scontro, infine di quella vertigine dell’attesa di cui ho detto sopra. 69

Il magistrato, protagonista e voce narrante di Waiting for the Barbarians, è un amministratore semplice e tranquillo, di mezza età, senza famiglia e senza grandi grattacapi per la testa; cerca di fare nel miglior modo possibile il suo lavoro di funzionario pubblico, rifuggendo da tutto ciò che potrebbe rovinare la tranquillità del

69 A confortare la nostra tesi sull’importanza che in questi due testi ricopre la scelta dello

spazio della frontiera c’è la storia personale dei due autori. Entrambi hanno vissuto in prima persona la frontiera e probabilmente anche il Sentimento della frontiera. Dino Buzzati, nato a Belluno nel 1906, ha sempre vissuto nelle montagne, tra le imponenti mura dolomitiche, in un territorio che per forza di cose era ed è frontiera del mondo, della civiltà e della natura (cfr. Bàrnabo delle montagne e Il segreto del bosco vecchio). Coetzee, nato a Cape Town nel 1940, è cresciuto in un paese dove l’avanzare della frontiera è stato il metro con cui si misurava la supremazia di un popolo: questa nascita “postcoloniale” ha inciso innegabilmente sulla sua produzione (cfr. Il racconto di Jacobus Coetzee).

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villaggio. Da come lui stesso si descrive nelle prime pagine del libro, comprendiamo subito con che tipo di attese egli viva.

I did not mean to get embroiled in this. I am a country magistrate, a responsible official in the service of the Empire, serving out my days on this lazy frontier, waiting to retire. I collect the tithes and the taxes, administer the communal lands, see that the garrison is provided for, supervise the junior officers who are the only officers we have here, keep the eye on trade, preside over the low-court twice a week. For the rest I watch the sun rise and set, eat and sleep and am content. When I pass away I hope to merit three lines of small print in the Imperial gazette. I have not asked for more than a quiet life in quiet times.70

La tranquillità sua e della sua gente viene incrinata dalle voci che giungono dalla capitale: i barbari si stanno armando e hanno intenzioni ostili. Arrivano così nella piccola colonia il primo gruppo di soldati guidati dal colonnello Joll, ufficiale malvagio e imperturbabile che si mette subito all’opera facendo prigionieri oltre le mura ed estorcendo loro, con le peggiori torture, dichiarazioni per lo più false che giustifichino una prima incursione armata contro le popolazioni indigene.

A questo punto le attese del magistrato si scontrano con quelle del colonnello. L’Impero aspetta i barbari e sembrano oramai tutti convinti che essi arriveranno. Come una decisione irrevocabile, l’attesa è dunque sancita e, se loro “tarderanno”, sarà il colonnello ad andare da loro. Il deserto che si estende al di là della porta del villaggio è ancora una volta un luogo di malintesi e abbagli, come lo è in La guerra del fin del mundo; abbagli dai quali il colonnello Joll sembra salvaguardarsi (ironicamente e inutilmente) con i suoi occhiali da sole, un oggetto che sulla frontiera - dice il magistrato - non si era ancora mai visto.

Nella Fortezza Bastiani invece, l’attesa si vive da decenni. Ormai da tempo immemore la base militare non è che una caserma di confine ad organico ridotto,

70 J. M. Coetzee, Waiting for the Barbarians, (1980), London, Vintage, 2004, p.8.

«Non volevo impegolarmi in questa cosa. Sono un magistrato, un funzionario responsabile al servizio dell’Impero; faccio il mio lavoro in questo pigro territorio di frontiera e aspetto di andare in pensione. Incasso tasse e decime, amministro le terre demaniali, mi assicuro che la guarnigione riceva rifornimenti e controllo i giovani funzionari, che sono poi gli unici funzionari che abbiamo qui, tengo d’occhio il commercio e presiedo il tribunale due volte a settimana. Per il resto guarda l’alba e il tramonto, mangio e dormo, e mi accontento. Quando morirò spero di meritare tre righe in corpo minore sulla gazzetta dell’Impero. Non ho chiesto altro che una vita tranquilla in tempi tranquilli». Trad. it.: Id., Aspettando i barbari, Torino, Einaudi, 2000, p. 11.

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grigia, lontana dal mondo, in apparenza senza alcun interesse. Solo in apparenza, poiché essa conserva un fascino fortissimo per i militari che vi prestano servizio e tale fascino colpirà anche il giovane ufficiale Giovanni Drogo. La Fortezza è il simbolo della gloria passata, dell’eroismo epico, dei grandi momenti storici, anche se in realtà non è mai servita a niente: essa vive la perenne attesa del ritorno di una gloria che non c’è mai stata.

Diventato tenente, Giovanni viene assegnato alla Fortezza senza averlo richiesto e senza la benché minima attenzione ai sogni di gloria, prevedendo anzi una permanenza nell’avamposto tutto sommato breve. Ciò che lo interessa, si legge nei primi paragrafi, sono la buona paga, l’autonomia, le donne, ecc. Ma queste futili “aspettative” sono a poco a poco sostituite dal desiderio di rimanere lassù, in quella gola sperduta, di fronte a quel deserto sconfinato, aspettando fiducioso il nemico.

Dal deserto del nord doveva giungere la loro fortuna, l’avventura, l’ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno. Per questa eventualità vaga, che pareva farsi sempre più incerta col tempo, uomini fatti consumavano lassù la migliore parte della vita.

Non si erano adattati alla esistenza comune, alle gioie della solita gente; fianco a fianco vivevano con la uguale speranza, senza mai farne parola, perché non se ne rendevano conto o semplicemente perché erano soldati, col geloso pudore della propria anima.71

Così il tenente Giovanni Drogo, con il passare degli anni, si lascia ammaliare dalla vertigine del deserto, dalla solitudine della Fortezza e dalle leggende sui tartari. In fondo non capita a tutti di essere di guardia “alle porte del mondo”, di essere responsabile della prima difesa del Paese. Se un giorno giungesse un attacco dal nord, sarebbero la Fortezza e i suoi ufficiali a coprirsi della gloria di chi “in solitario” ha sventato un grande assalto. Questa speranza, debole nei fatti, ma dalla forza incredibile nell’immaginazione, tiene Drogo e tutti gli altri tra le fredde mura della Fortezza, continuando però a risvegliare in lui «oscuri timori che non gli lasciavano pace».72

Dopo la morte del tenente e amico Angustina, perito non a caso in una inutile operazione di ridefinizione dei confini, Giovanni decide in un barlume di razionalità di tornare in città, chiedendo ed ottenendo il trasferimento. Ma è proprio qui, nel centro della civiltà, che viene esaltata tutta la forza della Fortezza, tutto il fascino della frontiera. Essa ha trasformato il protagonista, rendendolo estraneo al mondo in cui prima viveva, straniero nella propria città, tanto che niente lo trattiene più là: non i rapporti personali ormai deteriorati, non l’amore ormai sfumato, non la vita agiata ormai di poco interesse. Tanto vale tornate alla Fortezza e continuare ad aspettare.

71 Dino Buzzati, Il deserto dei tartari, cit., pp. 55-56. 72 Ibidem, p. 45.

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… tutte le cose che nutrivano la sua vita di un tempo si erano fatte lontane; un mondo di altri dove il suo posto era stato facilmente occupato. E lo considerava orami dal di fuori, pur con rimpianto; rientrarvi lo avrebbe messo a disagio, facce nuove, diverse abitudini, nuovi scherzi, nuovi modi di dire, a cui egli non era allenato. Quella non era più la sua vita, lui aveva preso un’altra strada, tornare indietro sarebbe stato stupido e vano.73

Se c’è ne Il deserto dei tartari questo movimento tra città e fortezza, movimento doppio perché Drogo in effetti compie due volte il viaggio, nel romanzo di Coetzee non si descrive né la capitale, né il viaggio dei militari fino alla colonia di frontiera. C’è però un altro tipo di movimento, che stavolta va oltre il confine stesso: il magistrato, dopo la partenza di Joll per la prima offensiva contro i barbari, intraprende di sua iniziativa un viaggio attraverso il deserto, per riconsegnare al suo popolo una donna indigena. Fatta prigioniera e torturata dai militari, il magistrato l’aveva accolta prima nella sua casa e poi nel suo letto, cercando instancabilmente di lavarle via dal corpo i segni delle “attenzioni” del colonnello.74 Con questo viaggio il protagonista non intende solo