• Non ci sono risultati.

3.1.1.

I mondi di frontiera di Conrad: navi e mari, foreste e fiumi, terre e città.

Forse per nessun altro come Joseph Conrad è fondamentale la relazione che intercorre tra l’uomo e lo scrittore, tra la vita e le opere. Centinaia e centinaia di contributi critici sono stati scritti su questo aspetto dell’universo conradiano che continua ad offrire importanti spunti di riflessione. Il filtro della vita si rivela dunque ideale per leggere l’ampia e variegata produzione dell’autore anglo- polacco. Nato in Ucraina nel 1857, cresciuto in Polonia, vissuto in Svizzera, Francia e Inghilterra, Józef Teodor Konrad Korzeniowski – solo più tardi assunse lo pseudonimo inglese – visse un’infanzia piuttosto burrascosa, fatta di

- 134 -

continui trasferimenti e dolori familiari. Educato alla religione cattolica e agli ideali della Rivoluzione Francese, Józef faceva parte della piccola nobiltà e di una famiglia di intellettuali. Ma, strano a dirsi, a diciassette anni si fece marinaio e da quel momento in poi si dedicò alla vita marinaresca, prestando servizio per un breve periodo nella Marina francese e poi per molti anni in quella inglese. Non è chiaro in che misura il brusco cambiamento di vita di Józef sia dovuto al sogno di un giovanotto insofferente, che probabilmente soffriva di problemi nervosi e che aveva perso entrambi i genitori, o a un affascinante ed efficace escamotage per evitare il servizio militare in Russia;202

fatto è che lo zio Tadeusz, suo tutore legale che più volte lo tirò fuori dai guai, acconsentì alla scelta del nipote. Conseguì la patente marittima di primo grado, il brevetto di primo ufficiale e nel 1886 il diploma di capitano di lungo corso fino ad ottenere nel 1888 il suo primo comando. L’Otago era un vecchio veliero di 340 tonnellate il cui capitano era morto improvvisamente in mare e aveva lasciato la nave in condizioni disastrate, inoltre l’equipaggio era mezzo moribondo perché colpito da dissenteria e febbri malariche. Tuttavia, nonostante le difficoltà che segnarono quest’esperienza, il primo comando di Józef fu un discreto successo, tanto che rimase al comando dell’Otago. In questi anni Józef comincia già a scrivere e sente che forse la vita di mare non gli offre una buona sistemazione per il futuro.

Riesce a farsi raccomandare presso il direttore dalla Société Anonyme pour le Commerce du Haut-Congo. E infatti, il 10 maggio 1890 salpa a bordo della Ville de Maceio alla volta del Congo, per un ingaggio che l’avrebbe segnato per tutta la vita. A bordo di un piccolo vaporetto risale il fiume Congo e si rende conto con i suoi occhi delle brutalità della colonizzazione belga. Distrutto nel fisico e nell’animo, lascia il lavoro nel gennaio del 1891.

Da quest’esperienza nacquero Congo Diary, An Outpost of Progress e Heart of Darkness. Era accaduto qualcosa nel giovane capitano Korzeniowski e le sue permanenze in mare si fecero sempre più rade e brevi. Così, dopo la morte dello zio Tadeusz, nel 1894, all’età di trentasette anni Józef Konrad Korzeniowski

202 Il padre, Apollo Nałęz Korzeniowski, letterato e traduttore tra gli altri di Shakespeare,

Dickens e Hugo, fu uno dei capi del Movimento Patriottico Clandestino che teorizzava l’insurrezione armata per l’indipendenza nazionale. Nel 1861 fu arrestato e incarcerato. Nel 1962 fu condannato all’esilio insieme a tutta la famiglia che fu costretta a vivere per un anno nella Russia settentrionale, dove alcuni di loro trovarono la morte. Józef, come figlio di un esiliato politico, avrebbe dovuto prestare servizio militare obbligatorio per venticinque anni.

- 135 -

pensò che scrivere poteva trasformarsi in un buon lavoro e decise – con la stessa fermezza con la quale era salito sulla prima nave – di diventare Joseph Conrad.

La scelta della vita da scrittore fu per lui come un ritorno, in tutti i sensi: nel senso sociale, poiché Conrad tornava in Inghilterra da capitano e rientrava in quella classe nobiliare, anche se non ricca, dalla quale era uscito; nel senso artistico del ritorno alle attitudini letterarie del padre che leggeva e traduceva i grandi classici; ma soprattutto un ritorno nel senso spaziale del termine. Józef aveva viaggiato e navigato per tutti i gli angoli del Pacifico, toccando i porti dell’America del Sud, dell’Oriente, dell’Australia, del Mar Rosso, esplorando la giungla malese e quella congolese, vivendo per metà del tempo in località sperdute e popolate solo da marinai malati o senza lavoro, da fuggiaschi e delinquenti, da capitani stanchi e reietti, e, per l’altra metà, sui ponti delle navi. Questo significa che il suo fu anche un ritorno al centro, alla civiltà, alla più grande metropoli del mondo, a quella quotidianità inglese che egli non aveva mai vissuto e che sempre gli era mancata. Aveva vissuto per vent’anni ai confini del mondo; era ora di tornare a casa e raccontare quello che aveva visto.

È indubbio che Joseph Conrad fece l’esperienza della frontiera e che tale esperienza si riversò inevitabilmente nei suoi scritti. Questo ha forse contribuito alla sua difficile inquadratura storico letteraria e probabilmente a conferire a molti suoi testi quella dimensione di universalità che li ha resi classici fruibili in ogni luogo e tempo.

Se l’esperienza della frontiera è prima di tutto, come abbiamo avuto modo di osservare nei capitoli precedenti, un’esperienza spaziale, allora sarà dallo spazio che converrà cominciare per portare alla luce i luoghi in cui la narrativa di Conrad diventa Narrativa di frontiera. Per far questo è necessario prendere atto della molteplicità degli spazi che l’opera presenta e analizzarne i risvolti più significativi.

Se pensiamo ai romanzi di Joseph Conrad pensiamo spesso al mare, alle navi e ai porti. Ma tra gli spazi descritti nei suoi testi c’è anche la terra, la foresta, il fiume e, non ultima, la città. Joseph Conrad è sicuramente uno dei più grandi scrittori di mare che siano esistiti, ma di certo non è possibile con questa formula esaurirne la portata. Benché quasi sempre l’oceano faccia da sfondo anche alle storie di terra, non sempre esso è lo spazio prescelto dall’autore e – a voler essere “quantitativi” – sono molte di più le pagine ambientate su terra che

- 136 -

quelle in acqua. Tuttavia l’esperienza del mare si colloca nella vita dello scrittore come una “fase centrale” in cui il Conrad-uomo si forma nell’azione e dopo la quale nasce il Conrad-scrittore che fonda la sua narrativa nel racconto dell’azione. Il mare è metafora, simbolo e madre dell’azione, del movimento, del coraggio, dell’avventura; il mare è lo spazio privilegiato dell’azione. È anche l’unico spazio sul quale possano nascere ancora degli eroi e dove l’eroismo, non quello dell’antichità ma quello di mare, è un valore diffusamente riconosciuto.

Nell’ambientare i suoi romanzi Joseph Conrad preferì la terra al mare in diverse occasioni e, tanto per cominciare, scelse la terra per i suoi primi due romanzi. Almayer’s Folly (1895) e An Outcast of the Island(1896) sono infatti ambientati in Malesia e aprono la produzione conradiana presentando uno scenario che egli stesso aveva vissuto. Tra il 1887 e il 1888 Conrad prestò servizio sul piroscafo Vidar che effettuava trasporto commerciale tra Singapore, il Borneo Orientale e le Isole Celebes e risalì più volte il fiume Berau nella giungla del Borneo, verso le stazioni più interne, sostandovi anche per settimane. Nel corso di quei viaggi l’autore scoprì – lontano dai grandi porti stracolmi di inglesi – l’Oriente più profondo e nascosto, quello dei villaggi sperduti nella giungla, villaggi dai quali saranno tratti quelli immaginari di Sambir (Almayer’s Folly e di An Outcast of the Islands) e di Patusan (Lord Jim; 1900). Sono territori che per qualsiasi occidentale della fine del XIX secolo rappresentano una delle frontiere più estreme del mondo, segnati dalla doppia faccia fascinosa e dolorosa dell’esotismo. La scelta del “materiale esotico” per le prime pubblicazioni si rivelò anche una scelta oculata dal punto di vista commerciale:

Se Conrad attinse ai suoi viaggi nell’arcipelago malese per il suo primo romanzo fu anche perché i ricordi dei viaggi a bordo del Vidar permettevano di presentare la propria esperienza personale come un’estensione di un genere molto in voga all’epoca quale era il romanzo esotico. Molti recensori colsero quest’aspetto e Conrad fu salutato come un «Kipling dell’arcipelago malese». Il romanzo esotico, del resto, era una scelta obbligata per Conrad, perché gli permetteva di evitare quegli argomenti e quelle situazioni che i suoi lettori conoscevano certo meglio di lui.203

- 137 -

Infatti due grossi problemi – che peraltro avrebbe superato con facilità – si paravano davanti all’ingresso di Joseph Conrad nell’olimpo della storia della letteratura inglese. Il primo era che egli non era inglese e scriveva in una lingua che non gli apparteneva dalla nascita, ma che aveva appreso quasi esclusivamente nell’oralità dell’ambiente marinaresco e nell’artificiosità delle riviste letterarie; il secondo era la mancanza di esperienza nella vita quotidiana, metropolitana e tradizionale inglese. Il fascino dell’ambiente esotico, una buona dose di esperienze personali e un occhio di riguardo alla grande tradizione del romanzo francese, crearono una buona miscela che fu la base di partenza della narrativa conradiana. Con il passare degli anni lo scrittore affinò le proprie conoscenze linguistiche e sperimentò forme narrative che sarebbero poi diventati modelli universalmente riconosciuti.

I primi due romanzi204 sono quasi contigui, come lo stesso autore specificò

nella nota introduttiva di An Outcast, e presentano l’Oriente in modo del tutto analogo. C’è anzitutto la volontà di raccontare un mondo lontano che evidentemente è pieno di vicende e personaggi interessanti, ma rifuggendo per quanto possibile dagli schemi che il romance popolare alla Stevenson aveva impiantato nei lettori. Conrad stesso, in quello che può essere considerato il suo primo scritto critico, la «Author’s Note» di Almayer’s Folly, dichiara di voler rifiutare le idealizzazioni e le fantasticherie, e di voler piuttosto «simpatizzare con dei comuni mortali, ovunque essi vivano: in case o in tende, nelle strade nebbiose o fra le foreste dietro la scura linea delle mangrovie che bordano la vasta solitudine del mare. Perché la loro terra – come la nostra – sta sotto gli occhi imperscrutabili dell’Altissimo. I loro cuori – come i nostri – devono sopportare il peso dei doni del cielo: la maledizione dei fatti e la gioia delle illusioni, l’amarezza del nostro giudizio e l’illusoria consolazione della nostra follia».205 In questo breve testo compare già in nuce l’ambivalenza della visione

conradiana dell’imperialismo, l’ambiguità del suo essere colonizzatore e tutta la novità della sua intenzionalità poetica. I «comuni mortali» di cui parla sono di fatto i primi eroi dei suoi romanzi e già da subito appare chiara la loro lontananza assoluta dall’eroe del romanzo d’avventura fin lì concepito: Almayer e Willems sono rifiuti, «reietti», delusi e afflitti da una decadenza fisica

204 Sono appunto Almayer’s Folly e An Outcast of the Islands. La trilogia sarà poi completata da

The Rescue, cominciato a scrivere subito dopo i primi due ma ultimato solo molto più tardi e pubblicato infine nel 1920. La trilogia scorre a ritroso nel tempo, cercando sempre più nelle origini dei luoghi e dei personaggi, come risalendo lentamente un fiume.

205 Joseph Conrad, Almayer’s Folly. A Story of an Eastern River, London, John Grant, 1925, p.

- 138 -

e spirituale. E se nel mondo del romance l’avventura comincia nel momento in cui un grande eroe si scontra con uno spazio e una dimensione esotica e incredibile, allora l’eroe conradiano è inserito, quasi fosse il suo ambiente prediletto, in uno spazio sicuramente lontano e misterioso, ma assai più problematico e fin troppo credibile.

In questi romanzi, e anche più tardi, Conrad affianca allo spazio della foresta quello contiguo e terraqueo del fiume. Più volte è stato considerato il valore simbolico e archetipico del fiume in Conrad: segno del percorso della vita, simbolo della passione e del desiderio (anche sessuale), richiamo esplicito ai fiumi infernali, serpeggiare del male dentro l’uomo, ecc. Di certo il fiume è forse lo scenario più inquietante tra quelli utilizzati da Conrad, poiché non è possibile considerarlo parte effettiva del mondo acquatico e marino, ma neppure parte integrante della terraferma. Uno spazio, quindi, che già di per sé porta i connotati della frontiera: non a caso viene quasi sempre affiancato dall’autore al grande spazio della foresta, che nell’immaginario occidentale, come abbiamo visto, è riconosciuta come frontiera per eccellenza. Fiume e foresta stanno, infatti, in un rapporto di complementarità: la foresta avvolge il fiume, il fiume attraversa la foresta; questa ha lo statuto di vero e proprio spazio, quello del percorso; la foresta è immobilità, il fiume dinamismo, le due facce della frontiera. Il fiume rappresenta e veicola con il suo corso quell’esigua certezza che rimane nello spazio del wilderness. In effetti è lungo le sponde dei corsi d’acqua che i coloni (inglesi, belgi o olandesi) creavano punti di appoggio, fragili avamposti del proprio mondo. Quasi mai si spingevano nel pieno della foresta, se non per rare escursioni o battute di caccia. Lungo il fiume si sviluppava la vita coloniale, sugli esigui spazi di terra non ricoperti dalla vegetazione vergine, sempre nei paraggi d’una via d’uscita. Questa dialettica tra movimento e stasi, tra la frenesia delle attività fluviali e il silenzio disabitato della foresta, a pochi metri di distanza, la troviamo chiaramente espressa in un passo di An outcast of the Islands in cui Willems, in un momento di forte alienazione, percepisce con fastidio e lucidità di essere parte dell’immobilismo, pur trovandosi sul fiume, circondato continuamente da un’attività senza sosta. Deluso dalle promesse di Lingard, offeso dal comportamento di Almayer, insoddisfatto di se stesso e sostanzialmente intrappolato in quel posto selvaggio, Willems comincia ad odiare il fiume Pantai e ad intraprendere i sentieri che si snodano nella foresta. Ma questi terminano tutti bruscamente,

- 139 -

sbarrando il cammino o riconducendo ancora una volta al fiume: la foresta gli è preclusa come una frontiera irrangiungibile.

Willems took one of Almayer’s many canoes and crossed the main branch of the Pantai in search of some solitary spot where he could hide his discouragement and his weariness. He skirted in his little craft the wall of tangled verdure, keeping in the dead water close to the bank where the spreading nipa palms nodded their broad leaves over his head as if in contemptuous pity of the wandering outcast Here and there he could see the beginning of chopped-out pathways, and, with the fixed idea of getting out of sight of the busy river, he would land and follow the narrow and winding path, only to find that it led nowhere, ending abruptly in the discouragement of thorny thickets. He would go back slowly, with a bitter sense of unreasonable disappointment and sadness; oppressed by the hot smell of earth, dampness, and decay in that forest which seemed to push him mercilessly back into glittering sunshine of the river. And he would recommence paddling with tired arms to seek another opening, to find another deception.206

In effetti lo spazio della foresta gli sarà precluso fin quando non scoverà il sentiero, questo finalmente non sbarrato dai rovi, dove incontrerà la bella Aissa. La natura respinge Willems che si sente reietto in tutti i sensi, escluso dalle gioie di una vita agiata, escluso dalla rispetto e dalla celebrità che pure aveva toccato con mano, escluso dagli affari ed escluso perfino dalla vita sociale di quello sperduto avamposto di barbari. Egli è un uomo che crede fermamente nella sua superiorità e che si era spinto alle frontiere del mondo per trovare ricchezza e gloria, ma le promesse di questi spazi meravigliosi e affascinanti si sono trasformate una dopo l’altra in amare delusioni. E anche adesso nel «fiume di Lingard», nella frontiera ancora più estrema della quale nessuno conosce

206 Joseph Conrad, An Outcast of the Islands, London, Penguin, 1975, pp. 61-62.

«Willems prese una delle tante piroghe di Almayer e attraversò il ramo principale del Pantai in cerca di un punto solitario dove poter nascondere lo scoraggiamento e la noia. A bordo della sua piccola imbarcazione costeggiò il muro di intricata verzura tenendosi nell’acqua ferma vicino alla riva, dove le frondose palme nipa dondolavano le loro foglie larghe sulla testa come per una sprezzante commiserazione del reietto vagabondo. Qui e là poteva scorgere l’inizio di sentieri aperti dall’uomo e, con l’idea fissa di sfuggire alla vista del fiume pieno di attività, sbarcava per seguire il sentiero stretto e tortuoso, solo per scoprire che non conduceva da alcuna parte, ma terminava di colpo con degli scoraggianti roveti spinosi. Tornava lentamente sui suoi passi, con un amaro senso di irragionevole tristezza e abbattimento; oppresso da un caldo odore di terra, umidità e marcio, in quella foresta che sembrava sospingerlo senza pietà verso l’accecante riverbero del fiume. E riprendeva allora a pagaiare con le braccia stanche per cercare un’altra apertura, per trovare un’altra delusione». Trad. it.: Id., Un reietto delle isole, Milano, Garzanti, 1994, pp. 74-75.

- 140 -

neppure l’esistenza, dove la prosperità sembra una cosa da cogliersi a piene mani dalle acque del fiume, anche qui Willems rimane deluso e reietto.

He had been baffled, repelled, almost frightened by the intensity of that tropical life which wants the sunshine but works in gloom; which seems to be all grace of colour and form, all brilliance, all smiles, but is only the blossoming of the dead; whose mystery holds the promise of joy and beauty, yet contains nothing but poison and decay.207

La bellezza incantevole di quegli spazi è dunque ingannevole e maligna; nasconde ben altre insidie che non la prosperità. La foresta è il trionfo delle forze naturali, simbolo di tutto ciò che è selvaggio, richiamo alla libertà dell’eros e alla disgregazione dei valori morali degli europei. «Tutto il paesaggio del Borneo – ha scritto Carlo Pagetti – si configura come un grandioso Eden selvaggio, il palcoscenico di uno spettacolo misterioso, profanato dai civilizzatori, che portano guerre e discordie. In questo scenario si consuma la farsa tragica della perdita dell’identità culturale – non nei conquistati –, ma nei conquistatori».208 Questa regressione culturale è la storia del fallimento di una

conquista, di una superiorità non verificata, quasi smentita. I bianchi danno dimostrazione di non possedere le capacità di adattamento, di avere la mente sempre offuscata, di essere spesso in balia del volere delle donne (così ad esempio Babalatchi vede Willems). In questi romanzi sono messe bene in luce le difficoltà dei rapporti tra olandesi/inglesi e malesi, e i limiti oltre i quali non può andare la comunicazione tra i due popoli. Ne sono prova il disgusto che prova Almayer nello sposare la figlia adottiva di Lingard, oppure la consapevolezza che coglie Willems alla vista di Aissa col velo: egli capisce che non potranno mai avere nulla in comune, che la distanza tra le loro culture è al momento incolmabile.

Questi stessi temi vengono ripresi da Conrad al momento di scrivere ancora qualcosa di “terreno”, cercando di trasporre su carta l’esperienza profonda e drammatica vissuta in Congo. In occasione della stesura del racconto «An

207 Joseph Conrad, An Outcast of the Islands, cit. p. 64.

«Si era sentito confuso, respinto, quasi intimidito di fronte all’intensità di quella vita tropicale, cui manca la luce del sole ma agisce nell’oscurità; che sembra essere tutta grazia di colori e forme, tutto fulgore, tutto sorrisi, ma è solo il fiorire di ciò che è morto; il cui mistero promette gioia e bellezza, ma non contiene null’altro che veleno e marciume». Trad. It.: Id., Un reietto delle isole, cit., p. 77.

- 141 -

Outpost of Progress» (1897), definito dall’autore «la parte più piccola del bottino che portai dall’Africa Centrale», i toni con cui viene descritta la terra, la