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Nell’ambito di nuove politiche museali postcoloniali, Clifford indagava i musei etnografici, ex coloniali come “zone di contatto”, «luoghi in cui s’incontrano visioni culturali e interessi comunitari differenti, tra i quali è necessario mediare» (Clifford 1997: 17). L’auspicio dell’antropologo, infatti, era quello di arrivare a delineare una tipologia di museo lontana dall’idea di mero deposito di cultura materiale, che fosse appunto

44 intesa come zona di contatto, incontro e confronto tra cose e persone (1997: 18). Clifford riprese l’espressione, dal libro Imperial Eyes: Travel and Transcultural, di Mary L. Pratt (1992), espandendo il concetto alla riflessione sui musei. Come egli riporta nel capitolo sette del volume Routes (1997), Pratt definiva una “zona di contatto” come «lo spazio di incontri coloniali, lo spazio in cui i popoli geograficamente e storicamente separati entrano in contatto l’uno con l’altro e stabiliscono relazioni correnti, che di solito implicano condizioni di coercizione, profonda ineguaglianza e conflittualità incontrollabile» (1997: 238). Nella sua visione Clifford formulava dunque una speranza in favore di una più diversificata e partecipata esperienza museale. Vedremo in seguito come queste critiche apriranno la strada a nuove politiche museali, maggiormente rivolte alla contemporaneità, che si svilupperanno anche a partire dalla revisione dei concetti di “cultura”, “alterità e “autenticità”, da sempre legati all’antropologia. Per introdurre la sua idea di museo come “zona di contatto”, Clifford parte da un episodio interessante avvenuto nel 1989, quando si trovava ad assistere come consulente all’incontro tra il personale del Portland Museum of Art, a Portland negli Stati Uniti, ed alcuni anziani rappresentanti dei Tlingit, tribù indiana nativa della costa nord-ovest americana, i cui manufatti erano presenti nella collezione Rasmussen, ospitata dal museo. L’incontro era stato voluto dal direttore del museo con il proposito di rinnovare la monotonia dell’allestimento etnografico della collezione. Dunque l’episodio rappresentò un tentativo di interazione tra un’istituzione museale occidentale e una popolazione indigena, che, senza essere previsto, si trasformò in qualcosa di molto più costruttivo di un semplice incontro. Tutti i presenti, infatti, si aspettavano dai Tlingit racconti approfonditi su ciascun oggetto, al fine di poter migliorare in modo più consapevole la loro sistemazione all’interno del museo: ma gli oggetti non furono che il tramite per raccontare storie e cantare canzoni. Clifford si rese conto che quegli oggetti, per gli anziani della tribù, non erano semplicemente arte, ma piuttosto “testimonianze”, “storie”, “legge” (Clifford 1997: 236) e, in quel momento, il museo simboleggiò, non solo il luogo della consultazione, seppur preziosa, con delle popolazioni native, ma divenne una “zona di contatto” (1997:238): uno scambio di reciprocità in cui la comunità Tlingit affidò la propria parola agli addetti del museo, poiché questi la trasmettessero al loro pubblico. «Nell’ambito di una storia di contatto in corso – afferma Clifford – veniva consegnato un messaggio attraverso una rappresentazione» (1997: 239).

Delineando il concetto di “zona di contatto”, Clifford non tralascia però di sottolineare l’asimmetria di tale vincolo. Quello che si instaurò tra istituzione museale e popolazioni native al museo di Portland, infatti, non poteva essere un rapporto bilanciato, poiché le relazioni di potere in gioco partivano da considerazioni provenienti da contesti culturali ben diversi: «si esigeva una sorta di reciprocità, ma non uno scambio reciproco che potesse condurre a un incontro finale di menti, a un avvicinamento che cancellasse le discrepanze, gli attuali squilibri di potere delle relazioni di contatto» (Clifford 1997: 239). Il museo, infatti, doveva comunque rispondere a direttive e regolamentazioni, che impedivano uno scambio proporzionato.

45 La reciprocità d’altronde dovrebbe implicare rapporti corretti, che, tuttavia, non possono essere stabiliti a priori, poiché dipendono dalla singolarità di ogni caso specifico, che genera differenti posizioni di potere. Come scrive Pratt (1992), nelle zone di contatto, non si stabiliscono mai rapporti equilibrati ed equanimi; di fatto, le nozioni di scambio e giustizia reciproci hanno spesso costituito pretesti di scontro e lunghe trattative. Nonostante Clifford evidenzi la possibilità di una negoziazione democratica delle relazioni36, frequenti sono gli esempi di veri e propri scontri e “guerre di frontiere” (Clifford 1997: 253).

Accadde ad esempio con la mostra The Spirit Sings: Artistic Traditions of Canada’s First Peoples, organizzata dal Glenbow Museum di Calgary in Canada, presa di mira e boicottata dalla tribù indiana dei Lubicon (ma anche da molti non nativi). La mostra, pianificata tra l’altro a ridosso delle Olimpiadi invernali, del 1988, era stata per buona parte finanziata dall’azienda petrolifera Shell Oil, la quale in quel momento stava effettuando trivellazioni proprio nella terra reclamata dai Lubicon. Clifford si concentra su alcune questioni di altrettanta portata, che ricadono sulla prerogativa dei grandi musei di allestire mostre su popolazioni viventi, senza chiedere loro il permesso e senza considerare quale miglior approccio di coinvolgimento si potrebbe stabilire con le comunità native. Anche l’esposizione Into the Heart of Africa, del Royal Ontario Museum, rappresentò una forte zona di contatto/conflitto, ampiamente criticata e denunciata «come colonizzazione razzista fatta con altri mezzi» (Clifford 1997: 256). Di fatti, quello che fu un allestimento ingenuo e senza mire offensive, che intervallava immagini e parole di missionari e funzionari coloniali (di stampo razzista), ad oggetti e manufatti africani, fu interpretato come una forte mancanza di rispetto nei confronti della comunità afrocanadese e della storia africana, eccessivamente distanziata nel tempo e nello spazio.

Nascono da queste valutazioni le controversie sul ruolo del museo, che ha oggi una funzione sempre più complessa nei confronti della rappresentazione dell’eterogeneità dei popoli mondiali. Difatti, Clifford spinge a riflettere su come tale istituzione possa rappresentare al meglio oggetti e culture viventi, senza mancare loro di rispetto, occupando una posizione chiara ed onesta all’interno delle vicende contemporanee e senza nascondersi dietro l’imparzialità. Tuttavia, non tralascia di evidenziare l’esistenza di forti strutture di potere a cui il sistema museale spesso si piega:

«Finché i musei non andranno al di là della consultazione ( che spesso avviene dopo che la visione del curatore sia saldamente fissata), finché non includeranno una più vasta gamma di esperienze storiche e priorità politiche nell’attuale programmazione delle esposizioni e nel controllo delle collezioni museali, essi saranno percepiti come puramente paternalistici da persone per cui quella del contatto con i musei è stata una storia di esclusione e

36 Il museologo Jonathan Haas (1996: S6) sottolinea che il museo, sia nell’ottica di “strumento di oppressione

coloniale”, che in quella di “mezzo per un cambiamento sociale positivo”, non potrà mai essere visto come un “agente passivo”. Negli ultimi decenni l’apertura di molti musei verso culture differenti e gruppi etnici da sempre esclusi dai racconti dell’Occidente, ha permesso una rivalutazione dei confini tra istituzione museale e gruppi etnici interessati, i quali attraverso battaglie intellettuali ed etiche, svolte anche per vie legali, stanno tentando di allontanare quella secolare tendenza dell’essere impropriamente rappresentati all’interno dei musei.

46 condiscendenza. In realtà potrebbe essere utopico immaginare i musei come spazi pubblici di collaborazione, controllo condiviso, traduzione complessa e onesto disaccordo. In realtà, l’attuale proliferazione di musei potrebbe riflettere il fatto che queste istituzioni, in quanto evolutesi storicamente, tendono a riflettere visioni comunitarie unificate piuttosto che storie discrepanti e in parte disomogenee » (Clifford 1997: 257-258).

Affrontare questi problemi ovviamente non è cosa facile, soprattutto poiché non è possibile identificare chi detiene maggiori qualifiche, esperienza, autorità, consapevolezza e conoscenza, per potersi arrogare il diritto di decidere dove e come collocare gli oggetti e parlare di storie vissute. La decisione dovrà quindi seguire una serie di contingenze politiche, di negoziati e di rappresentatività indirizzati alle diverse tipologie di pubblico; il museo non potrà più tralasciare la presenza ingente degli “altri”, nella gestione e nell’interpretazione delle proprietà culturali. E in questo contatto di “trasculturazione”, esso diviene parte di una realtà ibrida, che opera «in zone di confine tra diversi mondi, storie e cosmologie» (Clifford 1997: 263).