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Osservazioni: due pensieri a confronto

Da una visione d’insieme delle due interviste sembra possibile affermare che entrambi gli interlocutori hanno fiducia nel progetto ecomuseale nella Valle dell’Ourika e ne sono soddisfatti. Anche da queste testimonianze, così come dalla descrizione da me proposta, emerge chiaramente che l’Ecomusée de l’Ourika rispetta i criteri e le caratteristiche propri di una realtà ecomuseale (cfr. supra). Il progetto è messo in luce dai miei interlocutori in modo coerente, e non ci sono discordanze sugli obiettivi preposti. Possiamo infatti ritenere che essi, nonostante le diverse mansioni svolte all’interno del progetto, partano da comuni e ben definiti presupposti teorici, grazie ai quali l’Ecomuseo si delinea come realtà ben organizzata, ma democratica e senza controllo dall’alto. A tal proposito è bene sottolineare la chiara distribuzione dei ruoli degli addetti ai lavori, senza che esista una vera e propria gerarchia. Le decisioni sono prese sempre alla

121 luce di incontri e discussioni tra esperti museali e rappresentanti locali. La piena fiducia riposta in Khalid, frutto certamente di un rapporto che dura da anni, mi ha piacevolmente stupito, poiché egli è divenuto il vero e proprio referente dell’Ecomuseo e un appoggio fondamentale per tutti: fondatori, comunità e visitatori.

Come accennato, l’inserimento di entrambi i colloqui ha lo scopo di mettere in luce l’emergere di visioni talvolta differenti, non tanto nella concezione del museo, quanto nella visione generale della realtà culturale e soprattutto degli eventi ad essa collegata.

Una prima visione discordante emerge in merito al ruolo di Khalid. Per i fondatori Khalid è una guida ed un appoggio fondamentale, oltre che per l’aiuto e la passione che ha dimostrato, anche perché funge da tramite nelle relazioni con i villaggi. Questo elemento si evince in diverse risposte di Patrick Manac’h, che più volte evidenzia il ruolo ormai primario della presenza del giovane collaboratore, soprattutto perché ritiene che sia stato indispensabile nell’accettazione del progetto da parte delle comunità. Da qui si può comprendere come la presenza di personale del posto, all’interno della realtà museale, aiuti a rendere l’istituzione culturale meno distaccata e contribuisca dunque ad un interessamento e ad un coinvolgimento più diretto della popolazione. Certo i meriti non sono attribuiti tutti a Khalid, ma è curioso notare come il suo aver «attenuato, risolto, controllato» la presa delle attività culturali sui villaggi della valle sia ben rimarcato dal fondatore. Interessante è però, dall’altra parte, rendersi conto dalle risposte di Khalid come questo suo ruolo non sia da lui mai menzionato. Egli infatti accenna alla sua volontà di lavorare attivamente per la realtà museale, al fine di poter contribuire al bene della sua cultura, della sua comunità e della vallata. È consapevole dunque della rilevanza del suo lavoro, ma non allude mai al ruolo di mediatore. Sarebbe certo stimolante per una riflessione futura capire allora come vengono intesi i ruoli all’interno della realtà dell’Ecomusée Berbère, estendendo l’analisi anche ai diversi punti di vista dei membri stessi della comunità. Certo non è sbagliato fare affidamento su una persona interessata ed appassionata che ha deciso di condividere il progetto insieme ai fondatori ed è quindi diventato un punto di riferimento. Trovo inoltre molto costruttivo saper circondarsi di persone del luogo che possano apportare un valore aggiunto all’istituzione e dunque apprezzo anche la volontà dei due fondatori di dare fiducia alle attività di diversi soggetti, dai collaboratori, fino agli esperti del settore e agli studenti. Nella visione di Manac’h sembra tuttavia che la realtà culturale del piccolo villaggio di Tafza ruoti attorno alla persona di Khalid, e che da qui nascano poi tutti i rapporti con la comunità; per Khalid invece, che ha una visione più pratica e meno istituzionale, egli stesso è parte di una realtà che tutti, nell’insieme, contribuiscono a sviluppare.

Un altro elemento su cui riflettere viene dal diverso modo di intendere il Marocco: ci troviamo infatti di fronte a due visioni che partono dallo stesso presupposto storico, di paese multiculturale, ma che si articolano poi in modi diversi. Abbiamo visto come il Marocco sia un paese storicamente multietnico che

122 ospita ancora oggi una commistione di lingue, culture e tradizioni assai diverse tra loro. Un paese che ha visto il succedersi di una lunga serie di dominazioni e che dall’arabizzazzione ha visto l’aumento della popolazione araba e la diffusione delle pratiche legate alla religione mussulmana, ma dove, al contempo, le minoranze etniche si sono mantenute vive con le loro tradizioni e le loro particolarità linguistiche. Questo è il contesto a cui entrambi gli interlocutori fanno riferimento, ma è curioso analizzare le loro risposte poiché se secondo l’affermazione, certo più formale, di Manac’h,« il Marocco è un paese omogeneo unito nella diversità», per Khalid il suo paese è da sempre eterogeneo , presenta da tempo una situazione in cui varie popolazioni si sono mischiate tra loro (e si parla chiaramente soprattutto di arabi e berberi) ma che hanno assimilato ed integrato le proprie culture: oggi, secondo il punto di vista di Khalid, parlare di differenze non ha più senso. Khalid è stato molto esplicito a questo proposito, in una conversazioni informale in cui, parlandomi di sé ha affermato: « io sono la prova che ormai le cose sono molto cambiate, che ci siamo tutti mischiati. Sono nato in un villaggio berbero: la mia famiglia, mio padre, mia madre e i miei nonni, così come i loro genitori erano di origine berbera. Nonostante ciò il mio cognome Ben Youssef (il figlio di Youssef) proviene dall’arabo e dunque posso solo affermare di essere un marocchino»133.

Ciò che sostiene Manac’h vuole fare riferimento al fatto che il Marocco sia nel suo complesso un paese arabo, dove la lingua araba è estesa alla totalità della popolazione e dove la religione mussulmana è certamente condivisa dalla grande maggioranza dei fedeli, fatta eccezione per esigue minoranze; tuttavia il Marocco ha comunque dimostrato, più di altri paesi del Nord Africa, l’intenzione di reinserire la cultura berbera all’interno della società, marcando la propria unità come stato, pur nella pluralità delle espressioni linguistiche. La versione di Khalid invece esprime l’affermazione opposta: pur riconoscendo una diversità e un’eterogeneità storica, vi è un’unità che supera tutto.

Passando ad affrontare l’argomento sul turismo e sulla filosofia di turismo che l’Ecomuseo vuole mettere in pratica, notiamo che entrambi concordano sulla tesi sposata da De Varine134: l’ecomuseo deve nascere in primo luogo per la comunità e solamente quando quest’ultima sarà pronta ad accogliere visitatori, si potrà pensare ad un’attività turistica. Certo Manac’h afferma la necessità di instaurare un rapporto proficuo, ma responsabile, tra cultura e turismo,in cui le attività si svolgano a livello locale. Durante il colloquio egli ha infatti voluto marcare la differenza sulla tipologia di turismo portato dall’Ecomusée e quello, sicuramente di più forte richiamo, del villaggio di Setti Fatma e delle sue cascate. Il primo, di natura prettamente culturale (i turisti sono interessati alla collezione, al villaggio e alle escursioni, dunque al patrimonio in genere), il secondo caduto nei meccanismi di un turismo anche commerciale, popolato di guide turistiche e di negozi lungo tutto il percorso alla prima cascata. Ciò nonostante, nella risposta successiva Manac’h sottolinea come l’attività turistica debba prediligere una varietà di proposte, seppur sempre all’interno di un contesto

133 L’affermazione di Khalid, tratta da un’ampia riflessione in merito al Marocco e alla questione arabo-berberi, è stata

riproposta secondo alcune mie annotazioni prese allora.

123 di turismo coscienzioso, com’è il caso della Vallé de l’Ourika; proposte che non sono invece presenti nella Vallée du Zat, da me citata come buon caso studio del cosiddetto turismo “alternativo”, poiché controllata da associazioni che fanno riferimento ad un unico decisore. Risulta dunque chiaro che il fondatore dell’Ecomusée facendo particolare riferimento a delle activités anarchiques presenti nell’Ourika, preferisca supportare una pluralità di voci.

La risposta di Khalid a tal proposito è immediata e certamente frutto di un’esperienza, se vogliamo, più limitata, ma che guarda agli interessi e alla possibilità della propria vallata, così come della propria gente. Egli è assolutamente certo che non si debba instaurare un turismo «pensato esclusivamente per vendere» e sottolinea che la valorizzazione ed il cambiamento efficacie di una realtà arriva anche grazie all’interazione con i visitatori. Tuttavia non si può non commentare la sua acuta riflessione in merito a che cosa influenzi e cambi di più all’interno di una piccola realtà come quella di Tafza. Secondo Khalid, infatti, non ci sono dubbi che la modernità incombente, la televisione e i mezzi di comunicazione abbiano un impatto molto più forte e travolgente sulle persone rispetto a qualche piccolo gruppo di turisti che arriva una o due volte a settimana. Il turismo può aiutare la gente, ma è la modernità che la trasforma. Oltretutto l’attività turistica si può organizzare facendo in modo che vada nella direzione più consona alla singola realtà, mentre la televisione, ad esempio, arriva direttamente nelle case e va saputa gestire scegliendo canali giusti e trasmissioni educative, ma la scelta in questo caso è solo del singolo. È stato interessante discutere insieme delle diverse possibilità che il turismo può generare all’interno di piccole comunità come quelle dell’Ourika; la visione di Khalid proviene certamente dal suo vissuto, che lo porta ad esempio a non considerare il pericolo che un futuro aumento del turismo incontrollato possa trascinare con sé una trasformazione sfavorevole e dannosa per l’ambiente o la vita degli abitanti stessi. Tuttavia, secondo Khalid, i buoni progetti turistici, come lui considera quello dell’Ecomusée, hanno la capacità di far restare la popolazione nel proprio territorio e questo è per lui fondamentale. Khalid sostiene, infatti, che un’ attività turistica che funziona riesca ad offrire un servizio al visitatore, ma al contempo offra anche possibilità lavorative per la popolazione locale.

Un’ultima riflessione la vorrei dedicare alla risposta di Manac’h in merito alle giovani generazioni. Più volte in questa tesi si è accennato all’importanza delle giovani generazioni africane, affinché siano aiutate e sorrette nel difficile compito di reinterpretare il proprio patrimonio culturale, di modo tale che questo non si perda nel tempo e che possa restare un punto saldo del proprio passato. L’importanza di conoscere il passato storico deve essere infatti strettamente legata ad una volontà consapevole di rielaborare il presente. L’argomento non è di facile risposta, poiché non esiste un metodo assoluto ed ogni realtà vale certamente per se stessa. Tuttavia devo riconoscere che mi aspettavo una risposta diversa da Manac’h e mi rincresce per questo non aver approfondito il discorso insieme a Khalid.

124 Mi hanno infatti stupito le risposte franche del fondatore dell’Ecomuseo, che non nasconde la difficoltà dei giovani della valle e più in generale delle giovani generazioni marocchine di farsi coinvolgere in progetti di “recupero”, di “riflessione” sul proprio patrimonio. Ho certamente apprezzato il fatto che egli non abbia nascosto la questione solo per far sembrare più educativa e formativa la propria istituzione culturale, che di certo di progetti con studenti e giovani di varie realtà ne realizza parecchi. Tuttavia la sua visione pare essere piuttosto negativa e pessimistica, affermando che ormai la comunità di Facebook ha sostituito nei valori e negli ideali quelli della comunità del villaggio. Dunque secondo Manac’h i giovani non hanno la volontà di riprendere in mano il proprio passato e sembra ormai già troppo tardi per un’inversione di tendenza.

A mio parere non è certo sbagliato considerare che le nuove generazioni hanno pagato più di tutte il prezzo della colonizzazione e poi dell’oblio della cultura, dei testi e delle testimonianze patrimoniali e sicuramente sono quelle più coinvolte dall’avvento di una modernità che in Marocco si sta diffondendo sempre più rapidamente. Questo d’altronde lo afferma anche lo stesso Manac’h quando, nella sua ultima risposta, sostiene che le istituzioni culturali marocchine, pubbliche e private, potrebbero lavorare di più nell’ottica di una ricerca e di una diffusione delle numerose testimonianze sulla cultura berbero-marocchina, che sono andate perdute nel tempo. Una delle soluzioni, nonché la sua ultima battuta alla risposta, conferma il suo ideale ancora ispirato ad un sapere enciclopedico.

Aggiungerei che la perdita di alcune tradizioni da parte dei giovani è purtroppo inevitabile poiché, come in qualsiasi parte del mondo, sono anche i modi di vivere a modificarsi: così, ad esempio, non è più pensabile che un ragazzino indossi per forza l’akhnif (tipico mantello berbero) e gli indumenti tradizionali, all’esclusione dei giorni di festa, o ancora, non è più immaginabile che una madre tessa un tappeto per mandare messaggi al figlio su argomenti che un tempo non poteva trattare direttamente a voce. Devo però mettere in evidenza che molti giovani lavorano ancora nelle botteghe di vasai che ho visitato nel villaggio di Tafza, e che in alcuni casi è stato il padre a trasmettere loro la tecnica. Dunque talvolta resta la trasmissione dei saperi di padre in figlio, così come il passaggio della tradizione dell’arte tessile di madre in figlia. Non è chiaramente possibile pensare che anche queste tecniche restino immutate per sempre, ci saranno continue evoluzioni dovute al cambiamento di stile di vita, ma la conoscenza e la consapevolezza del proprio passato da parte dei giovani dovrà comunque essere salvaguardata. L’Ecomusée può servire infatti da conservatorio dei saperi e delle tecniche, che attraverso le attività proposte alla popolazione contribuisce a mantenere vivo e dinamico il patrimonio.

Per quanto Manac’h non lo confermi, il compito necessario per riattivare la popolazione giovane ad una consapevolezza del proprio patrimonio è affidato alle scuole, alle organizzazioni culturali di ogni genere, fra cui rientra indubbiamente l’Ecomuseo. Ripensando alle attività che abbiamo elencato in merito a quello che l’Ecomusée Berbère aiuta a sviluppare, troveremmo il suo sostegno nella riabilitazione di tecniche antiche e

125 di rilevamenti finalizzati alla ristrutturazioni di edifici storici, ricerche di studio da parte di studenti delle università di architettura o, ad esempio, l’organizzazione di attività fotografiche, letterarie e culturali rivolte ai bambini e ai ragazzi dei villaggi, per insegnare loro a scoprire il proprio territorio e dunque la propria cultura. Dunque è fondamentale trovare metodi validi di reinterpretazione delle tradizioni, anche se questo non è sufficiente a sviluppare una coscienza critica. Voglio pensare, tuttavia, che sia anche creando e sviluppando realtà come quella dell’Ecomusée Berbère che si aiuti a migliorare una situazione comunitaria critica e a salvaguardarne il patrimonio culturale.

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Conclusioni

Dalle origini del museo alla contemporaneità delle forme museali, dall’Europa all’Africa, dalla memoria coloniale alla crisi delle identità, dalla museologia dell’oggetto a quella della partecipazione: l’elaborato ha voluto creare un quadro temporale e spaziale in cui collocare tutte le dinamiche legate a questa fondamentale istituzione culturale. La realtà dell’Ecomusée Berbère de l’Ourika dimostra nel complesso come le nuove forme museologiche, di cui l’ecomuseo è certamente solo un esempio, possono tuttavia essere funzionali alla riconsiderazione degli oggetti culturali custoditi, così come dei loro creatori e del territorio che li ospita.

L’elaborato si è infatti focalizzato sulla stretta connessione che l’istituzione-museo ha intessuto durante i secoli con l’oggetto ed il suo creatore. Tale relazione, iniziata già a partire con le prime “meraviglie”arrivate alle corti cinquecentesche, determinò soprattutto nel XIX secolo un vincolo inscindibile che caratterizzò la storia della museologia (e con essa dell’antropologia museale) fino alle prime rivalutazioni del sistema museale negli anni settanta del Novecento, quando gli oggetti, ma soprattutto i loro creatori prenderanno finalmente voce in capitolo. La disciplina museologica, rivoluzionata da innumerevoli cambiamenti intrinseci alla società, definirà dunque i nuovi obiettivi del museo, sempre più complessi e coinvolti nelle dinamiche della contemporaneità. In questo senso, oggi il museo si presenta come “luogo di frizione” di incontro e scontro tra i soggetti della società civile e le interazioni del territorio; delegato anch’esso di una «cultural responsability» (Goldoni 2011) che favorisca l’interpretazione e lo sviluppo di processi culturali democratici, nell’ottica di una negoziazione delle identità e delle culture.

Queste esperienze serviranno allora, così come l’Ecomusée Berbère manifesta, a rielaborare, rivedere, contestare ed interiorizzare le storie del passato nelle evoluzioni del presente.

Nonostante che ancora oggi in Africa la messa in discussione del patrimonio museale sia un processo lento e poco incoraggiato dai governi, e che la storia africana sia ancora legata in molti casi ad un sistema museale di tradizione coloniale, che ha allontanato l’individuo dalla conoscenza del propria vita culturale, sono soprattutto i territori locali, i piccoli gruppi sociali e le comunità che stanno facendo la differenza nella creazione di realtà culturali attive per la rivalorizzazione del proprio patrimonio, che, come scrive Cafuri (2003a: 1) non essendo «facilmente situabile tra continuità o discontinuità con il passato, si estende sino a comprendere l’eredità naturale oltre che culturale».

È certo che gli stati africani dovrebbero cercare di costruire delle politiche culturali di comunicazione e condivisione di valori all’interno dei musei, cominciando a regolamentare le politiche turistiche e a bilanciare queste con il peso della comunità. Secondo Yaya Savané, curatore indipendente, storico e

127 antropologo di formazione: «Dans le contexte actuel, les musées d’ethnographie n’ont pas le choix. Ils sont condamnés à s’adapter, à s’accommoder à leur temps, à la dynamique en cours en vue de prendre en compte les préoccupations et de répondre aux besoins des sociétés qu’ils sont censés servir» (Savané 2007: 16). Ricollegandoci allora alla definizione di museo redatta dall’ICOFOM, è stato dunque fondamentale capire quale ruolo chiave svolga il museo nei confronti delle identità: identità come nazione, come territorio e indubbiamente come individui. Una funzione non solo culturale, ma anche educativa, sociale e politica, nella misura in cui il museo dovrebbe essere garante del ruolo di ogni cittadino all’interno della società.