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Decreto-legge n.87 del 2018 cosiddetto “Decreto Dignità”165

Il Decreto Dignità166è stato fortemente voluto dal

Governo Conte per combattere il precariato operando attraverso un meccanismo finalizzato a rendere più “complicati” e costosi i contratti a tempo determinato, con lo scopo di disincentivarli e rendere relativamente più economici i contratti a tempo indeterminato, attraverso sgravi ed incentivi, per spingere le aziende ad assumere i prestatori di lavoro in quest’ultima forma.

Tra le novità introdotte dal Decreto Dignità, vi è anche una modifica “quantitativa” relativa alla normativa del licenziamento illegittimo come segue:

1. All’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n.23, le parole: “non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità” sono sostituite dalle seguenti: “non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità”.

1-bis. All’articolo 6, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n.23, le parole: “non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità” sono state sostituite dalle seguenti: “non inferiore a tre e non superiore a ventisette mensilità”. Alle minori entrate derivanti dal presente comma, valutate in 0,27 milioni di euro per l’anno 2018, in 1,11 milioni di euro per l’anno 2019, in 1,16 milioni di euro per l’anno 2020

165 Governo di coalizione (XVIII legislatura, Conte – dal 1° giugno 2018 al 5 settembre 2019)

composto Lega e Movimento 5 Stelle.

166“Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese” - pubblicata nella G.U. n.161

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e in 1,15 milioni di euro a decorrere dall’anno 2021, si provvede mediante corrispondente riduzione del Fondo sociale per occupazione e formazione di cui all’articolo 18, comma 1, lettera a), del decreto-legge 29 novembre 2008, n.185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n.2. Il Ministro dell’economia e delle finanze è autorizzato ad apporre, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio.

Come è possibile evincere dal testo sopra riportato, l’intervento del decreto-legge n.87/2018 (convertito nella Legge 9 agosto 2018, n. 96) è da considerarsi alquanto marginale e di impatto ridotto sulla struttura generale del regime sanzionatorio per i licenziamenti illegittimi, poiché basato esclusivamente sulla modifica quantitativa delle indennità risarcitorie minime e massime di cui all’articolo 3, primo comma, e all’articolo 6, primo comma, del d.lgs. 23/2015167 (la modifica non investe la diversa quantificazione

dell’indennità dovuta in caso di vizi procedurali – rimasta così ferma al range delle due-dodici mensilità con incremento di una retribuzione per anno – mentre determina, per effetto del rinvio disposto dall’art.9, comma 1, del d.lgs.23/2015, l’aumento dimezzato, nelle imprese di ridotte dimensioni, dell’indennità minima dovuta sia per il licenziamento illegittimo che quindi passa da due a tre mensilità, sia per la conciliazione che passa da una ad una mensilità e mezzo, ma sempre con il limite fisso dell’indennità massima pari a sei mensilità per entrambe le situazioni per cui, sostanzialmente, non ha portato ad alcuna significativa modifica dell’impostazione precedente)168. Relativamente all’art.3,

comma 1, tale incremento si concretizza nel passaggio da un minimo di quattro mensilità, “non inferiore a quattro”, ad un

167Mimmo G. e Sgroi A., 2018, op.cit., p. n.106

168 Franza G. e Pozzaglia P., 2018, Il Decreto Dignità – commento alle norme lavoristiche,

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nuovo minimo di sei mensilità, “non inferiore a sei”, e da un massimo di ventiquattro mensilità, “non superiore a ventiquattro”, ad un nuovo massimo di trentasei mensilità, “non superiore a trentasei”; mentre relativamente all’art.6, comma 1, l’ incremento si concretizza nel passaggio da un minimo di due mensilità, “non inferiore a due”, ad un nuovo minimo di tre mensilità, “non inferiore a tre”, e da un massimo di diciotto mensilità, “non superiore a diciotto”, ad un nuovo massimo di ventisette mensilità, “non superiore a ventisette”. Per meglio comprendere quanto sopra esposto, relativamente all’art.3, comma 1 del d.lgs. 23/2015, si riporta una tabella (Tabella 1) che evidenzia il numero di mensilità erogate, sia per le aziende con più di 15 dipendenti sia per quelle con meno di 15 dipendenti (il range per quest’ultime è stato aumentato nella sola indennità minima portandola dal minimo di due mensilità al nuovo minimo di tre mensilità e lasciando invariata l’indennità massima rimasta fissata a sei mensilità), sia nel periodo antecedente l’intervento del decreto-legge n.87/2018, che nel periodo successivo.

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Resta pertanto immutata la disciplina di fondo del d.lgs.23/2015 (pur essendo assicurato un minimum di sei mensilità, il moltiplicatore è rimasto uguale ovvero due mensilità ed inoltre, anche se adesso il limite massimo è aumentato, c’è da considerare che questo valore superiore non è assolutamente immediato in quanto il “tetto” di trentasei mensilità si raggiungerà dopo ben diciotto anni di anzianità presso lo stesso datore) che, se da un lato, avendo ancorato la predeterminata e crescente quantificazione dell’indennizzo all’anzianità di servizio, può avere il pregio di permettere ad entrambe parti di quantificare anticipatamente l’importo complessivo dell’indennizzo, dall’altro lato, la rinuncia ad ogni intervento a discrezione di un giudice imparziale, sia per quanto concerne alla scelta del tipo di tutela (indennitaria o risarcitoria) sia per quanto riguarda il quantum di monetizzazione del recesso ingiustificato, può precludere di adeguare la sanzione all’effettiva gravità dell’illegittimità stessa169.

Le domande che però dobbiamo porci sono sul perché sia stato voluto tale innalzamento delle soglie sia minime che massime, cosa sta alla base di tale modifica della normativa indennitaria e, in particolare, cosa si accaduto dopo l’emanazione del decreto-legge n.87/2018.

169Fiorillo L. e Perulli A., 2019, “Decreto dignità” e Corte Costituzionale n.194 del 2018, Giappichelli

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L’articolo 3, comma 1, del d.lgs.23/2015 e la sentenza n.194/2018 della Corte Costituzionale

Innanzitutto è necessario sottolineare che l’indennità prevista dall’art.3, primo comma, del d.lsg.23/2015, non può essere qualificata come una tutela per equivalente – ove l’equivalente deve riguardare una somma di denaro adeguata a risarcire l’ingiusta perdita di un bene particolarmente prezioso per la persona, vale a dire, in questa sede, il posto di lavoro – e dunque il prestatore di lavoro subordinato assunto con il contratto a tutele crescenti che perda ingiustamente il posto di lavoro, non solo non ottiene un risarcimento in forma specifica (consistente nell’obbligazione del responsabile del danno di ricostituire la situazione di fatto antecedente alla perdita procurata, consentendo così al danneggiato di attuare l’interesse vantato senza accontentarsi dell’equivalente pecuniario) ma, in base a quanto sopra, nemmeno un risarcimento per equivalente170.

La questione è stata affrontata dalla Corte Costituzionale che, pochi giorni dopo l’entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge 87/2018, legge del 9 agosto 2018, n.96, con sentenza n.194 del 26 settembre 2018, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del sistema di calcolo dell’indennità risarcitoria erogata in caso di licenziamento constatato come illegittimo previsto dall’art.3, comma 1, del d.lgs.23/2015 (limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”), lasciato inalterato dal decreto Dignità (che infatti ha modificato la sola misura dell’indennizzo)171. Secondo la

Corte, “la previsione di un’indennità crescente in ragione della

170 Fiorillo L. e Perulli A., 2019, op.cit., p. n.61 171 Franza G. e Pozzaglia P., 2018, op.cit., p. n.7

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sola anzianità di servizio del lavoratore” è “contraria ai principi di ragionevolezza172 e di uguaglianza173 e contrasta con il

diritto e la tutela del lavoro sanciti dagli articoli 4174 e 35175

della Costituzione e toglie al giudice il potere di modulare l'importo dell’indennità risarcitoria, obbligandolo ad un mero calcolo matematico.

Ma andiamo per gradi. Già prima che fosse emanato il decreto-legge n.87/2018, il Tribunale di Roma, con l’Ordinanza del 26 luglio 2017, sottolineava l’illegittimità costituzionale dell’intero art.3 del d.lgs. 23/2015 in riferimento

172 È un corollario del principio di uguaglianza, elaborato dalla Corte costituzionale, prendendo

spunto da un analogo principio individuato dalla giurisprudenza anglosassone. Il principio di ragionevolezza esige che le disposizioni normative contenute in atti aventi valore di legge siano adeguate o congruenti rispetto al fine perseguito dal legislatore. Si ha dunque violazione della ragionevolezza, quando si riscontri una contraddizione all'interno di una disposizione legislativa, oppure tra essa ed il pubblico interesse perseguito. Il principio costituisce dunque un limite al potere discrezionale del legislatore, che ne impedisce un esercizio arbitrario. La verifica della ragionevolezza di una legge comporta l'indagine sui suoi presupposti di fatto, la valutazione della congruenza tra mezzi e fini, l'accertamento degli stessi fini; a tal fine, si ricorre spesso ai lavori preparatori della legge, alle circolari ministeriali esplicative, ai precedenti storici dell'istituto. Nel caso si accerti l'irragionevolezza della legge, essa sarà affetta dal vizio dell'eccesso di potere legislativo, e, in quanto tale, potrà essere ritenuta costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale.

173 L'art. 3 Cost. definisce il concetto d'uguaglianza rivolgendosi a tutti i cittadini, anche se è ormai

pacifico che destinatari della disposizione devono considerarsi anche: gli stranieri e gli apolidi; le persone giuridiche e gli altri enti, anche se sforniti di personalità giuridica. I due commi di tale articolo definiscono l'uguaglianza formale e quella sostanziale, in quanto la prima resterebbe una pura enunciazione teorica, se non fosse integrata dalla seconda. L'uguaglianza formale (art. 3 Cost.) può essere intesa in due diverse accezioni: come uguaglianza davanti alla legge; come uguaglianza nella legge. Quanto al primo significato, essa sta ad indicare che nessuno può ergersi al di sopra della legge facendo valere presunte differenze di dignità sociale. L'uguaglianza viene a identificarsi, così, col divieto di eccezioni collegate a differenze di dignità sociale. L'uguaglianza nella legge, invece, pone un vincolo allo stesso legislatore, vietandogli di emanare leggi che contengano discriminazioni fondate su diverse qualificazioni personali espressamente indicate dalla Costituzione: sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. Ovviamente tale divieto non può essere sempre preso alla lettera, dal momento che la stessa Costituzione prevede espressamente distinzioni di disciplina a garanzia proprio di quelle categorie: si pensi all'art. 6 Cost., che impone alla Repubblica di tutelare, con apposite norme, le minoranze linguistiche. La dottrina interpreta il divieto di discriminazioni in un duplice modo: le leggi, pur se riferite ad un gruppo determinato, non devono avere carattere personale o singolare, a meno che non vi siano giustificate ragioni; il principio d' uguaglianza non vieta in assoluto discipline differenziate, ma solo discriminazioni irrazionali o, meglio, irragionevoli, con una presunzione di irrazionalità per le discriminazioni fondate su una delle categorie indicate dall'art. 3 Cost. Il principio d' uguaglianza viene così ad evolversi in principio di ragionevolezza delle leggi. Il Costituente ha giustamente riconosciuto che non ha alcun valore stabilire e garantire il principio di uguaglianza tra i cittadini, quando si frappongono ostacoli di carattere economico-sociale che di fatto ne limitano la libertà e l'uguaglianza ponendoli in posizione di disuguaglianza originaria. La nostra Costituzione (art. 3 Cost.) affida alla Repubblica il compito di intervenire per rimuovere siffatti ostacoli, affinché tutti i cittadini siano posti inizialmente su di un piano di sostanziale parità. Pertanto, il principio di uguaglianza sostanziale qualifica il nostro sistema come interventista.

174 Art.4 Cost. Italiana: Comma 1 “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Comma 2 “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere,

secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

175 Art.35 Cost. Italiana: Comma 1 “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”. Comma 2 “Cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori”. Comma 3 “Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro”. Comma 4 “Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale,

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agli artt.3176, 4, comma 1, 35, comma 1, 76177 e 117, comma

1178, Cost., art. 30179 Carta di Nizza ed art.24180 Carta Sociale

Europea181. Relativamente all’art.3 Cost., poiché in violazione

del principio di eguaglianza in virtù della disparità di trattamento tra i lavoratori assunti prima e dopo il 6 marzo 2015, sostenendo che quanto sancito dall’art.3 del

d.lsg.23/2015 tuteli questi ultimi in

modo “ingiustificatamente deteriore”, rispetto a coloro che, nella medesima azienda, siano stati assunti in data anteriore182, nonché in riferimento all’importo stesso

dell’indennità risarcitoria che non riveste carattere compensativo né dissuasivo e annulla la discrezionalità valutativa del giudice finendo per disciplinare in modo uniforme casi molto differenti tra loro ed oblitera il necessario bilanciamento di interessi tra vecchi e nuovi assunti imposto dal giudizio di ragionevolezza, finendo anche per incentivare l’estromissione dei lavoratori assunti dopo il 6 marzo 2015. In riferimento agli artt. 4 e 35 Cost., in quanto al diritto del lavoro viene attribuito un controvalore monetario irrisorio e fisso, mentre agli artt. 76 e 117 Cost., nella misura in cui la sanzione per il licenziamento appare inadeguata rispetto a quanto previsto dalle fonti sovranazionali quali la Carta di Nizza e la Carta Sociale Europea183.

Con la sentenza n.194/2018 la Corte Cost. ha ritenuto infondata la questione sollevata ed infatti, come già evidenziato in precedenza, ha sancito l’illegittimità

176 Art.3 Cost. Italiana: Comma 1“Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alle legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

177 Art.76 Cost. Italiana: “L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti

178 Art.117 Cost. Italiana: Comma 1: La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

179 Art.30 Carta di Nizza: “Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto dell'Unione e alle legislazioni e prassi nazionali”.

180 Art.24 della Carta Sociale Europea: “Tutti i lavoratori hanno diritto ad una tutela in caso di licenziamento”.

181Mimmo G. e Sgroi A., 2018, op.cit., p. n.107 182 Fiorillo L. e Perulli A., 2019, op.cit., p. n.65 183 Fiorillo L. e Perulli A., 2019, op.cit., p. n.64

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costituzionale dell’art.3 del d.lgs.23/2015 limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.

In base a quale ragionamento la Corte Cost. ha ritenuto infondata l’illegittimità costituzionale dell’intero art.3 del d.lgs.23/2015 proposta dal Giudice rimettente del Tribunale di Roma, limitando la questione di incostituzionalità ad una sola parte? La Consulta si è basata su due principi: il primo riguarda il “fluire del tempo”; il secondo attiene allo “scopo” stesso perseguito del legislatore. La Corte Cost. infatti, ha ritenuto infondato il motivo addotto dal Giudice sulla base del fatto che, quest’ultimo, non ha censurato la disciplina sostanziale dei regimi, bensì il criterio di applicazione temporale della norma stessa. In tal senso, dunque, la Corte Cost. ha ritenuto non sussistente alcun deterioramento ai danni dei lavoratori in ragione della loro data di assunzione, posto che “il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche” e che lo scopo del legislatore all’epoca dell’introduzione del Jobs Act era proprio quello di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione per cui appare “coerente” limitare l’applicazione delle tutele di cui al d.lsg.23/2015 ai soli lavoratori assunti a decorrere dalla loro entrata in vigore, quelli cioè la cui assunzione avrebbe potuto essere favorita.

La Corte Cost. ha dichiarato che, quanto disposto dall’art. 3, comma 1, del D.lgs. 23/2015, “non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro”, e contrasta dunque, con il principio di ragionevolezza anche relativamente al fatto che la previsione di una tutela economica, calcolata

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sulla base di un principio matematico, potrebbe non costituire adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa dall’illegittimo licenziamento, né tantomeno un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, per cui gli interessi del primo risulterebbero irragionevolmente compressi in favore del secondo . Pertanto, la Corte Cost., ha concentrato la questione dell’illegittimità costituzionale non sulla disparità di trattamento in ragione del “fluire del tempo” accontentandosi di applicare il criterio della coerenza rispetto allo “scopo”, ma quanto sul principio della ragionevolezza, con riferimento al profilo della tutela rigida ed inadeguata184. Ha inoltre affermato che i due principi

costituzionali di cui agli artt.4 e 35 Cost. (rispettivamente “diritto del lavoro” e “tutela del lavoro”) non possano risultare vulnerabili di fronte ad una norma, di cui all’art.3 del d.lgs. 23/2015, che risulta manchevole sia di precauzioni regolative imposte dal valore costituzionale del bene-lavoro sia dal mancato rispetto del principio di proporzionalità che non colpisce solo la materia del licenziamento ma si riflette lungo tutto la disciplina del rapporto indebolendo la posizione giuridica soggettiva del lavoratore185. Quanto dichiarato dalla

Corte Cost. è un chiaro richiamo all’integrazione tra le fonti che conduce all’art.24 della Carta Sociale Europea, in una prospettiva multilivello delle tutele sul diritto del lavoro resa possibile grazie al collegamento rappresentato dagli artt.76 Cost., in base al quale “l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”, e 117, comma 1, Cost. che sottopone il legislatore ai “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. L’art.3, comma 1, del d.lgs. 23/2015 è stato giudicato come norma in contrasto con l’art.24 della Carta Sociale Europea e di conseguenza

184 Fiorillo L. e Perulli A., 2019, op.cit., p. n.72 185 Fiorillo L. e Perulli A., 2019, op.cit., p. n.74

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illegittima ai sensi degli artt.76 e 117, comma 1, Cost., nella misura in cui viola il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo a ricevere “un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”186(principio di effettività della tutela)187.

La pronuncia, quindi, ha rimesso ai giudici il potere di quantificare, con ponderata autonomia, la misura dell’indennità contro i licenziamenti ingiustificati, che seppur nel rispetto dei limiti minimo e massimo individuati dal Jobs Act (come modificati dal decreto-legge n.87/2018 convertito nella legge n.96/2018), dovrà tenere conto “innanzi tutto” dell’anzianità di servizio188, nonché di altri criteri individuabili

nel numero complessivo dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, nelle dimensioni dell’attività economica, nel comportamento e condizioni delle parti del giudizio. Con tale pronuncia però, la Corte, non sembra stabilire che il parametro dell’anzianità di servizio debba essere collocato in posizione sovraordinata rispetto agli altri criteri sopra menzionati ed anzi, il richiamo ai diversi parametri desumibili della normativa vigente, porta a ritenere che tali criteri non siano affatto gerarchicamente ordinati. Ciò lascia pertanto aperta la questione di operatività della norma che la Corte Cost. ha inteso rimettere alla prudente valutazione del giudice ordinario in sede applicativa189.

Assistiamo, dunque, alla caduta di uno dei pilastri fondamentali del Jobs Act, finalizzato, tra l’altro, a garantire ex ante al datore di lavoro la puntuale determinazione

186 Fiorillo L. e Perulli A., 2019, op.cit., p. n.75

187 Principio di Effettività della tutela: la sanzione per l’ingiusta perdita del diritto al posto di lavoro

dev’essere adeguata, dispiegare efficacia dissuasiva, ed offrire altresì un ristoro integrare per il lavoratore.

188 La Corte precisa infatti che, nel formulare il proprio convincimento, il giudice “terrà conto innanzi

tutto dell’anzianità di servizio [in quanto] criterio che è prescritto dall’art.1, comma 7, lettera c) della legge n.184/2013 che ispira il disegno riformatore del d.lgs. 23/2015[…]”. Considerato, invece che l’art.18, comma 5 St.lav. non fissa alcun criterio di prevalenza di uno specifico indice sugli altri, è piuttosto chiaro che la pronuncia della Corte Costituzionale, mantenendo questo diverso e maggiore (ma non più esclusivo) rilievo dell’anzianità di servizio, ha mantenuto una non trascurabile differenza tra le due discipline (vecchi e nuovi assunti). Nel caso di licenziamento in regime di Job Act, infatti, la motivazione del giudice dovrà essere particolarmente intensa e dettagliata in tutte le ipotesi in cui questi voglia conferire ad altri fattori un peso preponderante rispetto a quello dell’anzianità aziendale; mentre nel precedente regime “Fornero”, l’obbligo di precisa motivazione è generalmente riferito alla “pesa” di tutti gli elementi indicati.

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dell’indennità spettante al proprio dipendente in caso di

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