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La disciplina dell’onere della prova

Come abbiamo potuto constatare precedentemente, attivare una procedura antidiscriminatoria è molto difficile e questa difficoltà la si riscontra soprattutto nell’ambito dell’onere della prova. Il lavoratore oggetto di discriminazione si trova in una posizione di “svantaggio” rispetto al datore di lavoro o al soggetto che pone in essere la discriminazione e questa situazione crea difficoltà sia nelle procedure di attivazione del giudizio sia a livello probatorio.

Secondo i principi generali, l’onere della prova, anche nel caso di discriminazione, dovrebbe spettare al lavoratore, essendo colui che agisce in seguito ad un vizio dell’atto di licenziamento, ma, tuttavia, per i motivi precedentemente delineati, il legislatore europeo ha previsto da tempo una distribuzione dell’onere della prova tale da favorire la posizione processuale del lavoratore ricorrente. Si tratta della tecnica di alleggerimento dell’onore probatorio243

.

242 Per un approfondimento si veda, E.T

ARQUINI, op. cit., pp. 89, 90, 91.

243 Per un approfondimento si veda, R.S

ANTAGATA DE CASTRO,R.SANTUCCI, Discriminazioni e onere della prova: una panoramica comparata su effettività e proporzionalità della disciplina, Parte I, in ADL, 3/2015, p. 534.

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Vediamone la struttura all’interno dell’ambito comunitario.

Partendo da ciò che abbiamo appena detto, ossia dal presupposto che la presunta vittima di una qualsiasi discriminazione non abbia la disponibilità degli elementi di fatto sufficienti a consentirgli di identificare le cause di una disparità di trattamento, il legislatore europeo delinea un regime della prova del tutto peculiare. La relativa disciplina è contenuta nell’art. 8, dir. n. 2000/43 e nell’art. 10, dir. n. 2000/78, che impone agli Stati membri di adottare «le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché persone che si ritengano lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di trattamento espongano, dinnanzi a un tribunale o a un’altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi sia stata violazione del principio di parità di trattamento».

Tale previsione, adottata anche in direttive successive (dir. n. 2004/113, art. 6 che attua il “principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l'accesso a beni e servizi e la loro fornitura” e art. 19 dir. n. 2006/54), è la normazione di un’elaborazione giurisprudenziale244

e muove da un lato dall’esigenza di garantire effettività alla tutela antidiscriminatoria e dall’altro dalla constatazione di una differenza di fatto nella posizione iniziale delle parti interessate a suddetta tutela, in quanto chi denuncia di aver subito un trattamento sfavorevole nei propri confronti non ha generalmente

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accesso a dati sufficienti a consentirgli di identificare le cause della disparità di trattamento che si vengono a manifestare245.

A livello comunitario, quindi, si va ad alleggerire la gravosità probatoria nei confronti del soggetto vittima di trattamento discriminatorio, per cui una volta che il ricorrente abbia dimostrato l’esistenza del trattamento differenziato, rispetto ad un tertium comparationis, viene agevolato nel dimostrare la sussistenza del nesso di causalità tra trattamento differenziato e fattore di discriminazione. In realtà, seguendo questa tecnica di tutela «il lavoratore o la lavoratrice che si assumano discriminati sono onerati di allegare e dimostrare l’esistenza di un trattamento differenziato in loro danno rispetto al tertium comparationis, rappresentato da un soggetto ritenuto comparabile, rispetto al quale non si dia il fattore di

protezione che si affermi leso»246.

Importante ricordare che le direttive c.d. di seconda generazione consentono un giudizio di comparazione anche ipotetico, in ragione del quale il lavoratore o lavoratrice comparabile può essere anche un soggetto non esistente oppure non più esistente o essere addirittura individuato anche nello stesso ricorrente, nel caso in cui il fattore di discriminazione (ad esempio, le convinzioni personali o l’affiliazione sindacale), sia sorto successivamente alla costituzione del rapporto di lavoro247. Risultano, quindi, legittime alcune prassi probatorie, definite situation testing, che ricreano una situazione identica a quella vissuta dalla persona che si considera vittima, al fine di provare la condotta discriminatoria. Tuttavia l’onere probatorio per il ricorrente resta

245 E.T

ARQUINI, op. cit., p. 30.

246E.T

ARQUINI, op. cit. p. 31.

247 Per un approfondimento si veda, E.T

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comunque alquanto gravoso; a dimostrazione di ciò è sufficiente pensare alla difficoltà del lavoratore nel reperire informazioni in possesso del datore di lavoro e utili a provare il trattamento discriminatorio248.

Sul punto, possiamo riportare il caso Meister249, nel quale una lavoratrice, cui è stata respinta la candidatura, chiede di avere accesso alle informazioni del datore di lavoro, in merito all’eventuale assunzione di un altro candidato. La Corte di Giustizia concludeva che la dir. n. 2006/54 non garantisce un tale diritto. Comunque sia la Corte, consapevole che uno dei principali ostacoli per l’individuazione di una discriminazione deriva dalle difficoltà per il lavoratore di reperire informazioni, ritiene che il rifiuto del datore di lavoro di concederne l’accesso possa essere «uno dei fattori da prendere in considerazione, nell’ambito dell’accertamento dei fatti, dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o

indiretta»250.

Il datore di lavoro, onerato della prova liberatoria, potrà provare che

non ricorrano i presupposti per applicare la normativa

antidiscriminatoria oppure esibire una causa di giustificazione della disparità dimostrata, attraverso fattori obiettivi ed estranei a ogni discriminazione basata su fattori protetti; oppure ha la possibilità di invocare la deroga al principio della parità di trattamento, ove prevista dal singolo Stato membro251.

248

R.SANTAGATA DE CASTRO,R.SANTUCCI,op. cit., p. 538.

249

Corte di Giustizia, 19 aprile 2012, causa C-415/10.

250 Per un approfondimento si veda, Corte di Giustizia, 19 aprile 2012, causa C-415/10, in www.europeanrights.eu.

251 Per un approfondimento si veda, R.S

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Inoltre, come evidenziato nel capitolo precedente, l’elaborazione giurisprudenziale ha riconosciuto l’utilità del ricorso alla c.d. prova statistica, soprattutto in relazione alle discriminazioni indirette. I dati statistici, però, non devono determinare una probabilità statistica di tipo scientifico, ma basta un semplice elevato indice di probabilità della verifica di quei determinati fatti; a questo punto sarà richiesto al convenuto, nei casi di discriminazione diretta di provare l’inesistenza della discriminazione, quindi di allegare e dimostrare attraverso fatti specifici e verificabili che la condotta tenuta abbia integrato una causa di esclusione del divieto oppure l’inesistenza di una ragione discriminatoria del trattamento contestato.

Per quanto riguarda le discriminazioni indirette, invece, spetta al datore di lavoro provare l’inesistenza della discriminazione o l’esistenza di cause di giustificazione, ossia il suo effettivo interesse al trattamento differenziato, perseguito con mezzi proporzionati che non eccedano con il fine252.

Per quanto attiene al diritto nazionale, è competenza interna determinare il tipo di prove ammissibili dinanzi ai propri organi giudiziali ed esso può essere più restrittivo rispetto a quello applicato in ambito comunitario.

Comunque sia, il giudice nazionale è tenuto ad adottare un’ interpretazione conforme alla normativa delineata in ambito europeo. Infatti, come noto, qualora sorga l’impossibilità di addivenire ad una soluzione conforme alle direttive comunitarie, il giudice è tenuto a non applicare la disposizione interna difforme per dare così attuazione all’ordinamento europeo e proteggere i diritti che questo attribuisce ai

252 E.T

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singoli, attraverso lo strumento della disapplicazione o del rinvio alla Corte Costituzionale, secondo lo schema ricostruttivo del rapporto tra le fonti.

In ogni caso si può dire che l’art. 2697 c.c. consente, proprio per il suo tenore letterale, di fare applicazione del regime probatorio previsto per le discriminazioni tutelate dal diritto dell’Unione. Quindi, anche nei casi in cui la lavoratrice o il lavoratore si trovino ad essere discriminati secondo una delle ipotesi protette dall’Unione, essi possono beneficiare del regime probatorio agevolato anche se essi agiscano in forme diverse da quelle previste dall’art. 38 e ss. del d.lgs. n. 198/2006 per le discriminazioni di genere o dall’ art. 28, d.lgs. n. 150/2011. In ogni caso, qualunque sia l’azione intrapresa per l’accertamento della discriminazione e il lavoratore abbia provato l’effettività del trattamento deteriore rispetto ad un tertium comparationis, spetta comunque al datore di lavoro allegare e dimostrare i fatti dai quali si può desumere nel caso di discriminazione indiretta l’esistenza di una causa di giustificazione e in caso di discriminazione diretta l’esistenza di una ragione obiettiva lecita idonea a giustificare il trattamento deteriore253.

In conclusione, come indicato recentemente dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione254: «non si tratta di un’inversione dell’onere della prova vero e proprio, ma semplicemente si tratta di un onere probatorio “asimmetrico”: rimane fermo per l’attore l’onere della prova, ma l’assolvimento dello stesso richiede il conseguimento di un grado di certezza minore rispetto a quello consueto». In sintesi: dimostrati i fatti che fanno ritenere probabile la discriminazione,

253 E.T

ARQUINI, op. cit., pp. 33 ss.

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spetta alla controparte dimostrarne l’insussistenza. Quindi, sul lavoratore grava l’onere della prova della discriminazione, nonché dei fatti precisi e idonei a fondare la presunzione di discriminazione, e solamente una volta che la prova sia stata acquisita, anche in via presuntiva, scatta l’onere del datore di lavoro di provare il contrario255

.

255 Per un approfondimento si veda, Corte di Cassazione, sez. lavoro, sentenza n. 14206, 5 giugno

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CONCLUSIONI

Alla fine di questo lavoro, si può notare come il licenziamento discriminatorio sia la fusione tra due diversi concetti: da una parte abbiamo il licenziamento, che si configura come l’atto estintivo del rapporto di lavoro subordinato che intercorre tra il datore di lavoro e il lavoratore e dall’altra parte troviamo la discriminazione, intesa come quella tecnica che porta a distinguere le persone in base a fattori di rischio ritenuti contrari ai principi di eguaglianza imposti dal nostro ordinamento interno ed anche a livello Comunitario.

Come abbiamo potuto constatare dalla trattazione di questo argomento di tesi, i fattori discriminatori sottoposti a tutela sono accresciuti col tempo. È grazie al fattore genere ed alla tutela prevista in capo ai minori nell’ambito lavorativo che anche altri soggetti ritenuti “deboli e/o diversi” hanno potuto trovare un regime di tutele ad hoc per la propria situazione. Nonostante questo, però, la strada risulta essere ancora lunga e tortuosa, perché, da un lato, possiamo notare come nei sistemi giuridici interni, soprattutto in quello italiano, manchi una disciplina di tutela precisa e lineare, come nel caso del codice delle pari opportunità in cui il lavoro sembra essere stato effettuato frettolosamente e senza ragion di logica andando così a creare lacune e contraddizioni; dall’altro lato, non possiamo mettere un punto, una fine a quello che è l’elenco dei fattori discriminatori, perché la nostra società è in continua evoluzione e di conseguenza lo sono anche le nostre caratteristiche fisiche ed intellettive. Una conseguenza del genere la dimostrano i vari studi statistici che sono stati presi in

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considerazione all’interno di questa trattazione, come, ad esempio, nel caso dell’obesità e dell’età.

Viviamo in un mondo in cui il progresso tecnologico è alla base della nostra società; viviamo in un mondo in cui le regole scientifiche sono poste in una posizione di supremazia rispetto alle nostre coscienze e allora perché non prendere in considerazione quelli che sono gli studi statistici per creare una nuova legislazione di tutele nei confronti di questi fattori a rischio discriminatorio in grado di prevedere e risolvere le grandi problematiche inerenti al mondo del lavoro? Perché non mettere di nuovo mano a tutte quelle innumerevoli norme che sono state create ed emanate da un legislatore nazionale poco attento e frettoloso in modo tale da fornire una disciplina più chiara ed efficiente? Questi sono interrogativi che rimarranno aperti, affinché siano spunto di riflessione per chi legge.

Per quanto riguarda invece la fattispecie del licenziamento discriminatorio, si può notare, tramite l’evoluzione storica che è stata effettuata, come questo sia un atto particolarmente complesso e difficile da inquadrare. Gli interventi che si sono susseguiti nel tempo sono stati diversi ed hanno creato non poche polemiche in dottrina e giurisprudenza e per questo motivo si può ritenere che il percorso iniziato negli ultimi cinque anni con la Riforma c.d. Fornero e proseguito col successivo Jobs Act non si sia ancora concluso, dato che necessita di una maggiore trasparenza, in particolar modo sotto il profilo della qualificazione di una condotta come discriminatoria o meno.

Nulla da eccepire nei confronti delle conseguenze sanzionatorie spettanti al dipendente nel caso in cui sia stata effettivamente accertata

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la presenza di una differenziazione illecita. La reintegrazione nel posto di lavoro, così come la presenza di un risarcimento privo di un tetto massimo, sia per il danno economico e sia per quello di natura psicofisica, risulta altamente adeguato per soddisfare le aspettative del lavoratore ricorrente. Anche qui, però, non mancano dei problemi, soprattutto per quanto riguarda l'impossibilità di realizzare un’ esecuzione in forma specifica del provvedimento di reintegra, ma le misure alternative, elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza hanno esaltato diverse tecniche in grado di realizzare comunque gli interessi dei soggetti discriminati che sono costretti a rivolgersi ad un'autorità giudiziaria.

In passato, i ricorsi promossi per far valere l'intento discriminatorio del datore di lavoro erano molto rari e poco conosciuti, ma attualmente, per via della possibilità di ottenere la reintegrazione solo mediante la prova dell'esistenza di una differenziazione vietata ed in pochi altri casi, si sta assistendo ad un'inversione di orientamento, anche se, la via giudiziale risulta essere ancora difficile da intraprendere soprattutto per quanto riguarda la prova della discriminazione. Tale onere, nonostante sia stato semplificato attraverso la possibilità di servirsi di presunzioni o dati statistici, non sempre è di agevole assolvimento, in quanto il datore di lavoro cela, il più delle volte, il proprio intento illecito dietro motivazioni e ragionamenti che non rendono facile il compito della contestazione al lavoratore.

In conclusione, a parere di chi scrive, i cambiamenti effettuati nei confronti del licenziamento discriminatorio da parte del Jobs Act non avrebbero del tutto raggiunto gli obbiettivi che tale riforma si era

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prefissata ed a testimonianza di questo troviamo le varie pronunce emanate nel corso dell’ultimo anno da parte dei Tribunali italiani che sono ancora troppo confuse, per cui, anche qua, servirebbe una rivalutazione della materia, dato che, probabilmente, il legislatore nazionale e la politica italiana, a causa delle grandi preoccupazioni sorte in ragione delle crisi economica e finanziaria, hanno dimenticato quale sia uno degli essenziali doveri del diritto del lavoro, ossia creare un sistema di tutele adeguate nei confronti del contraente debole del rapporto di lavoro che, ormai, sempre più spesso, vede i suoi diritti calpestati.

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