UNIVERSITA’ DI PISA
Dipartimento di Giurisprudenza
Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza
Tesi di Laurea
LA DIFFICILE EVOLUZIONE DEL LICENZIAMENTO
DISCRIMINATORIO
Relatore: Chiar.mo Prof. Oronzo Mazzotta
Candidato:
Marilena Loffredo
“I cugini sono i primi amici che abbiamo da piccoli. Nessuno ti capirà mai come loro”.
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LA DIFFICILE EVOLUZIONE DEL LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO
INDICE
Pag.
Introduzione
1. Oggetto dell’indagine………5 2. Struttura della tesi………...8
CAPITOLO 1: Il licenziamento alla luce del diritto antidiscriminatorio
1.1. La nozione di discriminazione……….11 1.2. L’elenco dei fattori discriminatori tra tassatività e
semplificazione……….13 1.3. La tutela del licenziamento discriminatorio tra passato e
presente……….16 1.4. Licenziamento discriminatorio e licenziamento ritorsivo: un
Approfondimento………..23
CAPITOLO 2: L’evoluzione storica della tutela antidiscriminatoria
2
2.2. La legislazione sociale……….………30 2.3. La posizione della donna nel regime fascista…………..……...37 2.4. L’avvento della Carta Costituzionale e la proclamazione della
parità di trattamento tra uomo e donna nel mondo del lavoro…..40 2.5. Il diritto antidiscriminatorio a livello comunitario………...47 2.6. Le direttive 2000/43 e 2000/78: analisi e approfondimento……50 2.7. L’attuale diritto interno in materia antidiscriminatoria…………55 2.8. Il principio di non discriminazione all’interno delle altre fonti
internazionali……….58
CAPITOLO 3: Alcuni fattori discriminatori
3.1. Il fattore genere: premessa……….……..61 3.1.1. La parità di trattamento a livello comunitario e nazionale...….61 3.1.2. Discriminazione diretta e discriminazione indiretta……….…64 3.1.3. Deroghe alla parità di trattamento……….…72 3.1.4. Il codice delle pari opportunità: analisi e critica………..76 3.1.5. Molestie, molestie sessuali e l’ordine di discriminare……….81 3.2. Le discriminazioni basate sulla disabilità………....84
3.2.1. L’obesità e altre condizioni associate alla disabilità…………92 3.3. L’età come fattore discriminante……….98 3.4. Discriminazioni basate sulla religione e sulle convinzioni
personali………..111 3.4.1. Le convinzioni personali: il caso Fiom-Cgil c. Fip-Fiat……117 3.5. Le discriminazioni relative alla razza e all’origine etnica……...126
3.5.1. I lavoratori stranieri e l’accesso al lavoro………..131 3.6. Orientamento sessuale e discriminazioni………...134
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CAPITOLO 4: Le azioni in giudizio, riflessioni sulla Riforma Fornero e l’onere della prova
4.1. Le azioni in giudizio e il fattore genere……….………140
4.1.1. Azioni in giudizio e le altre ipotesi discriminatorie…...…….143
4.2. Licenziamenti, discriminazione e Riforma Fornero…….……..146
4.3. La disciplina dell’onere della prova……….……..159
CONCLUSIONI……….…...166
BIBLIOGRAFIA……….……171
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INTRODUZIONE
1. Oggetto di indagine
Il lavoro è un elemento fondamentale per l’esistenza e il sostentamento di ogni individuo che vive all’interno di una società e questa affermazione la troviamo sancita a chiare lettere all’interno della nostra Carta Costituzionale all’art. 1 in cui si stabilisce che: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» e all’art. 4 della stessa viene delineato l’impegno da parte della Repubblica di garantire una piena realizzazione del diritto al lavoro, infatti troviamo disposto che «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto». In ragione di ciò, la branca del diritto del lavoro è quella branca dell’ordinamento giuridico che disciplina tutti i problemi legati alla materia del lavoro, del suo rapporto e di tutte le tematiche ad esso collegate.
Nei rapporti di lavoro subordinato ci si trova dinanzi ad un soggetto posto in una situazione di netto “svantaggio” rispetto al proprio datore di lavoro e per questo motivo il ruolo del legislatore diventa essenziale al fine di realizzare un equilibrio tra i due contraenti e creare così un regime di tutela soprattutto nei confronti della parte più debole, ossia il lavoratore subordinato. Proprio per questo motivo, l’obbiettivo di questo lavoro di tesi è incentrato su quelle che sono le problematiche che possono realizzarsi all’interno del rapporto di lavoro subordinato, in particolare quando esso viene ad estinguersi attraverso il
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licenziamento del dipendete per motivi discriminatori da parte del datore di lavoro.
La legge che per prima si è occupata del licenziamento è la l. n. 604/1966, in cui per la prima volta si va ad introdurre all’interno del nostro ordinamento giuridico un obbligo di giustificazione in grado di sorreggere il licenziamento e, con il precetto indicato all'art. 4 della stessa legge, viene riconosciuta espressamente la nullità del licenziamento ritorsivo, ponendo così le basi per lo sviluppo della disciplina reintegratoria, che verrà poi disciplinata con lo Statuto dei lavoratori del 1970, per i casi di licenziamento discriminatorio.
Infatti, lo Statuto dei lavoratori, l. n. 300/1970, ha permesso che tale principio fosse reso effettivo sul piano sostanziale, prevedendo che il licenziamento sorretto da motivazioni illecite desse luogo non solo al pagamento di un indennizzo economico, ma alla reintegrazione nel posto di lavoro, accompagnata dal versamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali non percepiti (art. 18, l. n. 300/1970). La c.d. “tutela reale” del posto di lavoro, se pure applicata limitatamente alle imprese con determinati requisiti dimensionali, permette dunque di superare il principio del risarcimento del danno (c.d. “tutela obbligatoria”) previsto dalla l. n. 604/1966. Non sono mancate però nel corso degli anni delle polemiche, soprattutto in relazione al limite dei requisiti dimensionali richiesti per l'accesso alla tutela che, di fatto, finivano per sottrarre gran parte delle imprese alla disciplina della nuova previsione ex l. n. 300/1970. Il dilemma fu superato solamente vent'anni più tardi con la l. n. 108/1990 con la quale si precisava che il licenziamento discriminatorio non solo è nullo, ma altresì è dovere del giudice applicare la tutela reale prevista all’ art. 18 qualora rilevi la
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presenza di una diversificazione illecita che aveva condotto alla cessazione del rapporto di lavoro con il dipendente a prescindere dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro all’interno dello stabilimento.
La situazione però inizia a mutare con la grave crisi economica e finanziaria del 2008. Le raccomandazioni europee, per tutto il decennio precedente, avevano continuato a promuovere politiche volte a congiungere una maggiore flessibilità nella regolamentazione dei contratti di lavoro con un sistema di sicurezza sociale universale, ma la disastrosa situazione negativa del mercato del lavoro italiano con un alto tasso di disoccupazione e di inoccupazione dovuto alle scarse occasioni di impiego, emerge in tutta la sua vulnerabilità. Così che il legislatore nazionale decide di intervenire riformando il mercato del lavoro, anche relativamente alla disciplina sanzionatoria dei licenziamenti illegittimi, prima con la riforma c.d. Fornero del Governo tecnico Monti, ossia la l. n. 92/2012, e poi con il c.d. Jobs Act del Governo Renzi, che ha trovato attuazione con il d.lgs. n. 23/2015. Queste due ultime riforme, in realtà, non hanno modificato il regime di tutela riconosciuto per i casi più gravi di licenziamento derivanti da discriminazioni vietate dallo Stato, ma in un certo senso si può dire che hanno evidenziato il peso di un tale genere di recesso con la progressiva esclusione delle altre fattispecie di licenziamento dal novero della tutela reale e la loro riconduzione a forme di riparazione semplicemente di carattere economico.
Per quanto riguarda l’ambito del licenziamento discriminatorio, bisogna dire che questo trascende l’ambito del diritto del lavoro e va ad intrecciarsi con altre branche del diritto, in quanto la
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discriminazione tocca proprio gli aspetti dei diritti fondamentali della persona.
Le varie Costituzioni europee del secondo dopo guerra hanno cercato di delineare nel tempo un sistema di tutele sempre più forti verso degli individui che la società indica come “soggetti deboli”, “soggetti diversi” e che per questo motivo vengono sottoposti continuamente a situazioni sgradevoli sia nella vita di tutti giorni, sia all’interno dell’ambito lavorativo.
L’obbiettivo di questa tesi, oltre a quello precedentemente delineato, è anche quello di descrivere chi siano questi “soggetti deboli e diversi” e quale sia il relativo sistema di tutele previsto da una disciplina multilivello, andando a risolvere determinati interrogativi, ma anche di crearne altrettanti all’interno della nostra mente e della nostra coscienza.
2. Struttura della tesi e metodologia d’indagine
La tesi è strutturata in quattro capitoli in cui l’attenzione sarà posta
essenzialmente sull’identificazione della nozione di
“discriminazione”, sull’esame di alcune delle tipologie dei fattori discriminatori e sulle dinamiche che si sono susseguite nel tempo circa la fattispecie del licenziamento discriminatorio.
Nel primo capitolo si affronterà il significato della nozione discriminazione, della tecnica utilizzata nella protezione dei diritti della persona, della tassatività o meno dell’elenco dei fattori discriminatori previsti a livello comunitario e nazionale e si cercherà di toccare i punti più salienti dell’evoluzione storica e giuridica del
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licenziamento discriminatorio. Inoltre, nell’ultimo paragrafo troveremo un approfondimento relativo alla tanta discussa questione del rapporto che intercorre tra il licenziamento discriminatorio ed il licenziamento ritorsivo, ponendo come basi due sentenze pilota: la sentenza della Corte di Cassazione n. 6575 del 5 aprile 2016 e la Causa n. 506/06 della Corte di Giustizia europea Sabine Mayr contro Backerei und Konditorei Gerhard Flockner.
Nel secondo capitolo affronteremo l’evoluzione del diritto antidiscriminatorio partendo dalle prime leggi italiane emanate in questo dato ambito, che vedono come protagonisti le donne ed i minori, fino ad arrivare ad una legislazione più vicina ai giorni nostri. Inoltre, sempre nel secondo capitolo, ci si dedicherà all’analisi della disciplina antidiscriminatoria all’interno dell’ambito europeo approfondendo l’art. 13 del Trattato di Amsterdam che inserisce una specifica clausola di non discriminazione e la dir. n. 2000/43, che attua il principio della parità di trattamento indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica e la dir. n. 2000/78, che va a stabilire un quadro generale per la parità di trattamento in relazione all’orientamento sessuale, al credo religioso, all’età e alla disabilità in materia di lavoro. Queste due direttive hanno influenzato fortemente il nostro diritto interno con l’emanazione del d.lgs. n. 215/2003 e del d.lgs. n. 216/2003.
Nel terzo capitolo si passerà ad un’analisi completa di alcuni fattori discriminatori. Purtroppo, per motivi di tempo, non è stata effettuata l’analisi di tutti i fattori discriminatori, ma si è cercato di delineare in maniera esaustiva la tutela antidiscriminatoria inerente ai fattori quali: sesso, disabilità, età, razza ed origine etnica, religione e convinzioni
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personali, omosessualità. All’interno dell’analisi dei fattori appena citati, sarà presente la giurisprudenza più importante, sia a livello comunitario, sia a livello nazionale.
Nel quarto ed ultimo capitolo, per completezza d’indagine, ci si soffermerà sulla legislazione nazionale dell’azione in giudizio prevista nei confronti del fattore genere e nei confronti degli altri fattori discriminatori presi in esame nel terzo capitolo. Inoltre, verrà effettuata una comparazione di tali norme con le novità apportate dalla c.d. Riforma Fornero, l. n. 92/2012, incentrando l’analisi sui punti più controversi anche da un punto di vista giurisprudenziale. Infine, all’interno dell’ultimo paragrafo, verrà analizzata la disciplina dell’onere della prova e del relativo mutamento che ha subito sia in ambito europeo, sia in ambito nazionale.
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CAPITOLO I
IL LICENZIAMENTO ALLA LUCE DEL DIRITTO ANTIDISCRIMINATORIO
1.1 La nozione di discriminazione
La concezione classica e consolidata della tutela antidiscriminatoria identifica la stessa in un modello incentrato sulla parità di trattamento e sul conseguente divieto di trattamenti diversi e deteriori, in relazione a specifici fattori protetti. In virtù di ciò, la tecnica utilizzata nella protezione dei diritti della persona è quella della comparazione tra un soggetto ed un tertium comparationis e su questa affermazione sia le fonti comunitarie, sia le fonti del diritto interno sono univoche1.
La nozione di discriminazione va scissa in discriminazione diretta e discriminazione indiretta e queste nozioni vengono formulate da fonti multilivello: a proposito, nel diritto comunitario troviamo le dir. n. 2000/43, 2000/78 e 2006/54; mentre nel diritto interno abbiamo i d.lgs. n. 215/2003, 216/2003 e 198/2006 con le relative modifiche2. Per quanto riguarda la discriminazione diretta si fa riferimento ad un’ipotesi che si configura quando un soggetto è trattato meno favorevolmente a causa di uno dei fattori specificatamente previsti (per esempio: età, genere, orientamento sessuale, handicap, religione, convinzioni personali, razza od origine etnica) di quanto un altro lo sia, lo sia stato o lo sarebbe stato in una situazione analoga; mentre la discriminazione indiretta (definizione tratta dall’elaborazione
1 Per un approfondimento si veda, M. V. B
ALLESTRERO, Discriminazione, ritorsione, motivo illecito. Distinguendo, in http://www.osservatoriodiscriminazioni.org.
2
Per un approfondimento si veda, E. TARQUINI, Le discriminazioni sul lavoro e la tutela giudiziale, Giuffrè Editore, Milano, 2015, pp. 5, 6.
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giurisprudenziale) viene a configurarsi quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio un soggetto appartenente, per esempio, ad un determinato genere, rientrante in una particolare età o con un certo orientamento sessuale e così via. Occorre in tale ipotesi fare una precisazione, ossia: affinché non si configuri il profilo discriminatorio, la disposizione, il criterio o la prassi devono essere oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il conseguimento della stessa siano necessari e congrui3. Ma sul punto ritorneremo più avanti.
Parlando dei fattori discriminatori, possiamo dire che in origine l’unico fattore che presentava un sistema normativo di tutela era quello relativo al genere, ma è proprio grazie a questo che successivamente verranno considerati dal diritto comunitario e dal diritto interno altri fattori discriminatori, come ad esempio: l’età, l’orientamento sessuale, l’handicap, le convinzioni personali, la razza e l’etnia, le opinioni politiche, la religione, e così via.
Detto questo, dobbiamo sottolineare che il campo di applicazione del diritto antidiscriminatorio non comprende solamente quelle fattispecie prima citate oggetto di un giudizio di comparazione, ma va ad ampliarsi fino ad abbracciare quelle fattispecie che non derivano da trattamenti meno favorevoli sottoposti a giudizio di comparazione. Questo è avvenuto al fine di garantire una tutela più ampia in materia e quindi, per questo, sono stati recentemente introdotti nel diritto dell’Unione: molestie, molestie sessuali e l’ordine di discriminare4
.
3
L.LAZZERONI, Eguaglianza, lavoro, regole di parificazione, Giappichelli, Torino, 2011, pp. 141 e 146.
4 Per un approfondimento si veda M.V.B
13
1.2 L’elenco dei fattori discriminatori tra tassatività e semplificazione Il dibattito tra dottrina e giurisprudenza in merito al carattere tassativo o esemplificativo dell’elenco dei fattori di discriminazione, è sempre stato caratterizzato da ampi contrasti.
Per la dottrina maggioritaria, così come per la giurisprudenza europea, è indubbia la tassatività, poiché non tutte le disparità costituiscono una forma di discriminazione nel senso di discriminazione giuridica ed a fondamento di tale tesi si afferma che «il diritto qualifica come illecita
una diseguaglianza nel momento in cui la vieta»5. Per quanto
riguarda, invece, la teoria esemplificativa, questa trova giustificazione nella necessità di interpretare la norma secondo i principi dell’ordinamento dell’Unione.
La tesi del carattere esemplificativo, che si è particolarmente rafforzata nel tempo, trae uno dei suoi fondamenti nella necessità di interpretare la norma alla luce dell’ordinamento dell’Unione Europea, il quale all’art. 21 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea dispone che è «vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il
patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali»6
. Quindi, da quanto appena esposto, possiamo affermare che l’elenco
5
M.V.BALLESTRERO, Eguaglianza e differenze nel diritto del lavoro. Note introduttive, in LD, 2004, p. 511.
6
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dei fattori discriminatori non assume assolutamente la caratteristica della tassatività7.
Nella giurisprudenza italiana, si era consolidato l’orientamento secondo cui l’elenco delle ragioni discriminatorie di cui all’art. 3 della l. n. 103/1990 è suscettibile di interpretazione estensiva, sino a ricomprendere anche ipotesi non espressamente previste dalla legge, tra le quali, ad esempio, quella del licenziamento ritorsivo8.
Recentemente, invece, la Corte di Giustizia ha risposto in un altro modo attraverso la sentenza del 18 dicembre 2014, in cui ha nuovamente ribadito una posizione tassativa rispetto alla questione in esame, affermando che l’ambito di applicazione della dir. n. 2000/78 non deve essere esteso oltre le discriminazioni fondate sui motivi tassativamente elencati9.
L’indirizzo circa il carattere tassativo dei fattori di discriminazione, sembra essere confermato anche dalla giurisprudenza nazionale successiva alla Riforma Fornero. È il caso del Tribunale di Milano che, nell’ordinanza dell’11 febbraio 2013, ritiene che «il licenziamento ingiustificato non può per ciò solo essere ritenuto discriminatorio», quest’ultimo «esige un quid pluris, ossia la prova che, in assenza di un’obiettiva ragione di licenziamento, la scelta del lavoratore da licenziare sia stata dettata da un’ingiustificata differenza di trattamento», che deve trovare «la propria ragion d’essere in una delle fattispecie discriminatorie contemplate dalla legge», restando «irrilevanti eventuali profili di arbitrarietà e
7
R.ZUCARO, I licenziamenti a un anno dalla Riforma Fornero, in www.bollettinoadapt.it, p. 2.
8 R.Z
UCARO, op.cit., p. 2.
9
Corte di Giustizia, 18 dicembre 2014, causa C-354/2013, Fag og Arbejde ex parte Kaltoft c. Kommunernes Landsforening.
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irrazionalità dei motivi dell’atto, così come l’esistenza d’ipotesi di discriminazione diverse da quelle tipizzate dalla legge». Quindi, mentre il licenziamento ingiustificato è mero arbitrio, il licenziamento discriminatorio è invece quello fondato su uno specifico motivo “odioso”, cioè sulla volontà di escludere dal complesso sociale un soggetto per il solo fatto di una propria caratteristica personale che lo contraddistingue da altri soggetti10.
Ad ogni modo, questo è un dibattito la cui importanza si è di certo affievolita, soprattutto a causa delle diverse integrazioni via via apportate dal Legislatore, le quali hanno determinato la ricomprensione nel novero della discriminazione di tutte quelle effettivamente conosciute, fino ad aggiungere tra i motivi di nullità del licenziamento, il motivo illecito determinante, considerato l’unico “grande assente” nell’elencazione normativa.
Tuttavia, l’aspetto che attualmente risulta essere più problematico circa la tassatività o meno dei fattori, è proprio quello relativo alla nozione di “discriminazione”. Questo perché le singole ipotesi di discriminazione hanno un contenuto molto ampio, come nel caso delle convinzioni personali; oppure hanno confini ancora poco chiari e definiti, come accade per i nuovi fattori di discriminazione, a partire dall’età; oppure l’handicap che recentemente ha consentito, tramite un suo paragone con la malattia di lunga durata, di far ritenere discriminatorio il licenziamento di un dirigente, intimato per motivi connessi allo stato di malattia di lunga durata11. Il rischio è che un’estensione eccessiva di tali fattispecie possa contrastare e, nei fatti,
10
Tribunale di Milano, ord. 11 febbraio 2013.
11
Tribunale di Milano, ord. 11 febbraio 2013, per un approfondimento si veda
16
invalidare il sistema di tutele graduate introdotto con la Riforma Fornero e, con esso, la ratio ad essa sottesa12.
1.3 La tutela del licenziamento discriminatorio tra passato e presente La normativa del licenziamento discriminatorio risale all’art. 4, l. n. 604/1966, il quale, disciplinando i licenziamenti individuali, definisce nullo «il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza ad un sindacato e dalla partecipazione
ad attività sindacali»13 prescindendo dalla motivazione addotta.
Assolutamente più incisiva risulta essere la definizione contenuta nell’ art. 3 , l. n. 108/1990 in cui, oltre alle ragioni discriminatorie previste dalla già citata l. n. 604/1966, sono sommate le ipotesi previste dall’art. 15, Statuto dei lavoratori e, quindi, ipotesi riferibili alla politica, alla razza, alla religione, alla lingua e al sesso. Sicuramente, le direttive c.d. di “nuova generazione” hanno inciso sulla nozione, includendo altri casi di licenziamento sorretto da ragioni discriminatorie. Ebbene, al di là della evidente, anche se non particolarmente problematica, sovrapposizione dei casi elencati nelle due norme, vi sono ulteriori motivi di discriminazione non esplicitamente menzionati, tra i quali va ricordato l’art. 5, co. 5, l. n.135/1990, che fa riferimento all’infezione da HIV14. Tra le altre ipotesi di nullità riportati alla lettera b) dell’art.1, co. 42, l. n. 92/2012, che modifica l’art. 18, l. 300/1970, rientrano i casi di licenziamento intimato in concomitanza con il matrimonio ai sensi dell’art.35 del
12
R.ZUCARO, op. cit.
13 Art. 4, L.604/1966.
14 Per un approfondimento si veda, P.C
HIECO, Flessibilità e tutele nel lavoro, Bari, Cacucci, 2013, p.280.
17
codice delle pari opportunità tra uomo e donna (d.lgs. n. 198/2006), o in caso di violazione dei divieti di licenziamento previsti dall’art. 54, co. 1, 6, 7 e 9 del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità disciplinate nel d.lgs. n. 151/2001. Nello specifico la nullità si applica in caso di licenziamento irrogato durante il periodo di gravidanza o di congedo per paternità e fino al compimento di un anno di età del bambino (commi 1 e 7) ovvero in caso di adozione o affidamento, fino a un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare (comma 9) e, ancora, quello causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo di parentela e per la malattia del bambino15.
Come abbiamo nei paragrafi precedenti, la giurisprudenza ha allargato il campo di applicazione della tutela antidiscriminatoria anche ad altri casi e quindi, di conseguenza, anche la nullità del licenziamento, a tutti i casi in cui si possa far riferimento al motivo illecito determinante.
Detto ciò, possiamo notare come il lungo elenco delle disposizioni enumerate risulta abbastanza concentrato sulla protezione dei profili della persona. Si è dinanzi ad una ampia gamma di caratteri, stati e convinzioni della persona diversi tra loro, in quanto alcuni sono riferiti a dati oggettivi della persona (per esempio: età, sesso, handicap), mentre altri derivano da scelte della persona come quelle politiche, religiose o sessuali. Comunque sia, la carenza di un esplicito richiamo ad alcune delle ipotesi menzionate, non compromette l’applicazione di
15 Per un approfondimento si veda, P.C
18
una tutela forte e questo proprio grazie all’esplicito riferimento (art. 18, co. 1) a tutti gli altri casi previsti dalla legge16.
Ricondurre queste ipotesi di licenziamento alla categoria di licenziamento nullo, significa, oltre alla previsione di una tutela forte, applicare l’apparato sanzionatorio a prescindere dal numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro. Inoltre, l’elemento importante della riforma consiste nell’incipit dell’art. 18 ,co. 1, in quanto prevede che il giudice con sentenza dichiara la nullità del licenziamento, ponendo un radicale superamento dell’operatività della nullità di diritto comune. A conferma di ciò sta lo stesso co. 1, là dove, a conclusione delle fattispecie elencate, include il licenziamento «riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge» ponendosi come norma di chiusura del sistema17.
Per quanto riguarda la tipologia di tutela, attualmente la norma di riferimento è l’art. 18, l. n. 300/1970 che, a seguito delle riforme (l. n. 92/2012 e l. n. 183/2014 e i rispettivi d.lgs. n. 22/2015 e d.lgs. n. 23/2015), con riguardo al licenziamento discriminatorio non hanno apportato particolari modifiche. Infatti già in precedenza la l. n. 108/1990, art. 3, prevedeva un doppio ordine di conseguenze giuridiche, cioè sia la reintegra nel posto di lavoro che il risarcimento del danno, commisurato in un minimo di cinque mensilità18. I recenti interventi posti dal governo Renzi, con la l. n. 183/2014 e i d. lgs. n. 22/2015 e d.lgs. n. 23/2015, hanno invece apportato notevoli modifiche, soprattutto in tutto l’ambito dei licenziamenti illegittimi e
16 Per un approfondimento si veda, P.C
HIECO, op.cit, pp. 279, 280.
17 P.C
HIECO, op.cit., pp 283 ss.
18
Per un approfondimento si veda, M.DE LUCA, Contratto di lavoro a tempo indeterminate a tutele crescenti e nuovo sistema sanzionatorio contro i licenziamenti illegittimi tra legge delega e legge delegata, in csdle.lex.unict.it/, pp. 3 ss.
19
si fa riferimento al d. lgs. n. 23/2015, cd. contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti19.
Dopo la riforma del 2012, in relazione ai licenziamenti, è stata introdotta la tutela reale differenziata che prevede quattro tipi di regimi sanzionatori:
1) la tutela reintegratoria piena per il licenziamento nullo e/o inefficace;
2) la tutela reintegratoria attenuata per il licenziamento annullabile; 3) la tutela risarcitoria forte per il licenziamento annullabile;
4) la tutela risarcitoria debole per il licenziamento inefficace.
Per quanto riguarda la tutela reale piena, le situazioni cui si applica sono le seguenti:
1a) licenziamento nullo per ragioni discriminatorie o causato dal matrimonio del lavoratore o per motivi legati alla maternità della lavoratrice;
1b) licenziamento determinato da un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., o perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge;
1c) licenziamento inefficace perché comunicato in forma orale.
Tale regime di reintegra si applica a prescindere dalle dimensioni dell’azienda, nei confronti di lavoratori che rivestono la qualifica di operai impiegati o quadri e si applica ai lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato20.
19
M.DE LUCA, op. cit., pp. 15, 16. 20
20
A decorrere dalla data di entrata in vigore del d. lgs. n. 23/2015, ossia il 6 marzo 2015, è stato stabilito che: «nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del presente decreto, integri il requisito occupazionale di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, il licenziamento dei lavoratori, anche se assunti precedentemente a tale data, è disciplinato dalle
disposizioni del presente decreto»21. Quindi, è stato stabilito che per le
assunzioni fino al 6 marzo 2015 resta in vigore la precedente disciplina, basata sull'art. 18 l. n. 300/1970, modificato dalla l. n. 92/2012. Pertanto, nelle imprese che già a quella data avessero più di 15 dipendenti, in caso di licenziamenti dovuti a motivi economici o disciplinari riconosciuti come illegittimi dal giudice, i lavoratori con contratto antecedente al decreto possono essere reintegrati nelle precedenti mansioni, oppure ricevere un risarcimento del danno sulla base delle previsioni dei contratti collettivi e delle valutazioni del magistrato. Quanto ai dirigenti, stando all’art. 1, co. 1, il decreto sulle tutele crescenti non appare applicabile e, dunque, il dirigente trova tutela nella disciplina dell’art. 18, co. 1, 2 e 3, Stat. lav22.
A differenza della precedente riforma il d.lgs. n. 23/2015, art. 2, seguendo l’obiettivo di snellimento delle tutele, sembrerebbe garantire esplicitamente la nullità solo in due casi: licenziamento discriminatorio e licenziamento in forma orale, ricorrendo poi, con un generale riferimento, a tutti gli «altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge». Tra questi altri casi, sicuramente si fa
21 Art. 1, comma 3, D. lgs. 23/2015. 22
C. CIRIELLO, Normativa e novità sui licenziamenti introdotte dal nuovo contratto a tutele crescenti: diritti dei lavoratori e obblighi del datore di lavoro, in www.pmi.it.
21
riferimento alla tutela in caso di licenziamento concomitante al matrimonio per i licenziamenti causati da matrimonio o maternità/paternità23.
Ulteriore caso in cui il reintegro (per i casi di licenziamento fino al 6 Marzo 2015) è garantito, è quello dell’illegittimo licenziamento disciplinare (per giusta causa o giustificato motivo soggettivo), qualora il giudice verifichi l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili24.
Dunque, (sempre in relazione ai casi di licenziamento anteriori al 6 marzo 2015), esclusi i casi precedentemente elencati, in tutti gli altri casi di licenziamento illegittimo è esclusa la tutela reintegratoria ed il datore può essere condannato al versamento di un indennizzo pari a due mesi di stipendio, per ogni anno di lavoro in azienda (minimo 4 massimo 24 mensilità). Invece, per tutti gli altri casi di licenziamento illegittimo l’art. 18 lascia spazio alla riforma prevista dal d.lgs. n. 23/2015 e quindi si prevede che, se non ricorrono gli estremi di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo, il giudice potrà soltanto condannare il datore di lavoro a pagare al lavoratore ingiustamente licenziato un’ indennità pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio. L'indennità calcolata in queste modalità non potrà mai essere inferiore a 4 mensilità, né superiore a 24 mensilità e non sarà assoggettata a contribuzione previdenziale. Il Giudice conserva il
23 Per un approfondimento di veda, Guida al Jobs Act, I quaderni di wikilabour, a cura di M.F EZZI
e F.SCARPELLI, p. 40 ss., in www.wikilabour.it.
24 M.D
22
potere di disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro soltanto nel caso in cui venga dimostrata direttamente nel corso della causa l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore.
Per quanto riguarda la tutela reintegratoria, in caso di licenziamento discriminatorio, quest’ultima si applica prescindendo dal motivo addotto e se il lavoratore non riprende servizio entro 30 giorni il rapporto si considera risolto, salvo ˗ come previsto dal co. 3 ˗ il riconoscimento della possibilità, in alternativa al reintegro nel posto di lavoro, di richiedere un indennizzo pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR; tale richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e non è assoggettata a contribuzione previdenziale25.
Per quanto, invece, concerne il risarcimento del danno, esso si calcola «stabilendo a tal fine un'indennità commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva
reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di
estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo
periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali»26.
Un ulteriore cambiamento, rispetto alla precedente l. n. 92/2012, riguarda l’omesso esplicito richiamo, tra i casi di licenziamento nullo, da parte dell’art. 2, d.lgs. n. 23/2015, dei licenziamenti dovuti a motivo illecito determinante. Il fatto che con la riforma del 2012 si sia
25 Per un approfondimento si veda, M.D
E LUCA, op. cit. p. 26 ss.
26
23
fatto un riferimento esplicito al motivo illecito determinante, aveva condotto a far ritenere che il licenziamento discriminatorio non potesse essere considerato nullo perché determinato da un motivo illecito determinante, poiché quest’ultimo era previsto separatamente, come se si trattasse di una fattispecie diversa. Piuttosto, seguendo tale ragionamento si doveva accogliere in esso un’ autonoma nozione oggettiva od ontologica di licenziamento. Tale conclusione doveva confrontarsi con la definizione di licenziamento discriminatorio che ˗ nonostante la novella apportata dalla l. 92/2012 ˗ si basava sempre sull’art. 3, l. n. 108/1990, sulla quale si fonda la consolidata giurisprudenza di legittimità in senso contrario. Una volta che, sia la legge delega che il decreto legislativo hanno fatto riferimento al licenziamento discriminatorio senza ulteriori specificazioni in riferimento al licenziamento per motivo illecito determinante, ci si è chiesti se si potesse ancora accogliere la tesi oggettiva. Tuttavia, secondo un’ interpretazione maggioritaria, questa categoria di licenziamenti (licenziamenti per motivo illecito) si riconduce, sempre, a quei «agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge», lasciando inalterata la problematica sulla corretta interpretazione del motivo illecito27.
1.4 Licenziamento discriminatorio e licenziamento ritorsivo: un approfondimento
Una recente sentenza della Corte di Cassazione (5 aprile 2016, n. 6575) analizza nuovamente il tema del c.d. licenziamento ritorsivo, definendone la portata.
27
24
Dobbiamo specificare che nel nostro ordinamento, il legislatore non ha disciplinato in maniera autonoma la fattispecie del licenziamento ritorsivo, ma la giurisprudenza, nel tempo, ha esteso la nozione del licenziamento discriminatorio anche a tale circostanza, ritenendo come ritorsivo il licenziamento “per rappresaglia”, ovvero quello a seguito di un comportamento del lavoratore ritenuto “sgradito” al datore di lavoro28.
Ciò, senza dubbio, ha portato ad una grande confusione ed a numerosi dibattiti.
Con la sentenza n. 6575/2016, la Corte di Cassazione si discosta dall’orientamento di legittimità precedente29
e quindi, per la prima volta in sede di legittimità, va a riportare il diritto antidiscriminatorio alle proprie origini comunitarie, evidenziandone la natura oggettiva e le relative ricadute applicative, fra cui quella fondamentale sull’onere della prova e sulla valutazione del concorrente motivo lecito30.
Vediamo adesso il caso concreto oggetto della sentenza in esame. Una lavoratrice dipendente a tempo indeterminato di uno studio legale veniva licenziata per giustificato motivo oggettivo a causa della sua intenzione di sottoporsi all’estero alla procedura di fecondazione in vitro, con conseguenti assenze dal lavoro. La motivazione del licenziamento si riferiva alle ricadute negative sulla funzionalità dello studio legale e delle assenze programmate per tali motivi sanitari. Secondo lo studio legale, si trattava di una ragione economica, in sé
28
Per un approfondimento si veda, ROBERTA SANTONI RUGIU, Finalmente il revirement della Cassazione sul licenziamento discriminatorio, in www.osservatoriodiscriminazioni.org.
29
Cass. sez. lav. n. 3986/2015, n. 17087/2011, n. 16925/2011, n. 6282/2011, n. 16155/2009.
30
25
indiscutibile, che per di più escludeva ogni intento discriminatorio nei confronti della lavoratrice (quale donna e futura madre).
La sentenza della Corte di Cassazione, conferma ciò che era stato precedentemente stabilito in secondo grado, ossia di configurare tale licenziamento come discriminatorio per motivi di genere e quindi prevedendo la reintegra ed il risarcimento integrale del danno ai sensi del nuovo testo dell’art. 18, co. 1, l. n. 300/1970.
Nello specifico, la Corte di Cassazione ha richiamato un particolare precedente della CGUE: la sentenza Sabine Mayr contro Backerei und
Konditorei Gerhard Flockner31, secondo la quale era discriminatorio
per motivi di genere il licenziamento intimato ad una lavoratrice prima dell’impianto in utero degli ovuli già precedentemente fecondati in vitro, per essere dimostrato che la risoluzione del rapporto era dovuta alla particolare condizione della lavoratrice in quanto donna. Non si trattava quindi di tutelare la condizione di malattia o di gravidanza della lavoratrice, ma, ancor prima, di prendere atto che le procedure di fecondazione riguardano direttamente le sole donne e che quindi il licenziamento rappresenta una discriminazione per motivi di genere, secondo la nozione data della dir. n. 1976/207, poi trasposta nella d. n. 2006/54.
Ora, il problema reale risiede non tanto in quello di configurare tale licenziamento come discriminatorio per motivi di genere, ma nella linea difensiva scelta dal datore di lavoro secondo la quale, come detto in precedenza, mancava un intento ritorsivo ed il dichiarato motivo economico del recesso avrebbe dovuto escludere ogni intento
31 Corte di Giustizia, Causa n. 506/06.
26
discriminatorio, impedendo di qualificare il recesso come nullo per motivo illecito determinante (ai sensi dell’art. 1345 c.c.).32
Perché nasce questo problema?
Il problema nasce proprio da quell’assimilazione del licenziamento discriminatorio al licenziamento ritorsivo, inteso quest’ ultimo come ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore, attraendo entrambe le ipotesi nell’area della nullità per motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c.
In altri casi, invece, la giurisprudenza ha argomentato l’ assimilabilità tra le due figure attraverso l’argomento della non tassatività dell’elenco dei fattori discriminatori previsti dall’ordinamento: «il divieto di licenziamento discriminatorio – sancito dall’art. 4 l. n. 604 del 1966, dall’art. 15 l. n. 300 del 1970 e dall’art. 3 l.n. 108 del 1990 – è suscettibile di interpretazione estensiva sicché l’area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, che costituisce cioè l’ingiusta e arbitraria reazione, quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essenzialmente quindi di natura vendicativa; in tali casi, tuttavia, è necessario dimostrare che il recesso sia stato motivato esclusivamente
dall’intento ritorsivo»3334
.
Tutto ciò, ha portato ad una serie di dilemmi che si sono ampliati quando la categoria del licenziamento nullo ha assunto una grande attualità e importanza a seguito del generale arretramento delle tutele nell’apparato sanzionatorio del licenziamento operato da l. n. 92/2012 (Riforma Monti-Fornero) e dal d.lgs. n. 23/2015 (Contratto a tutele
32 R
OBERTA SANTONI RUGIU, op.cit.
33 Corte di Cassazione, 18 marzo 2011, n. 6282. 34
27
crescenti) e della limitazione ai soli casi di nullità del recesso della vecchia reintegrazione.
Quindi, si può dire che la sentenza presa in esame, finalmente, va a chiudere una stagione piena di incertezze, dilemmi e problemi, andando, come si è detto, a sganciare il licenziamento ritorsivo da quello discriminatorio35.
Ora, questa sentenza della Corte di Cassazione risulta essere interessante soprattutto circa la questione della ripartizione dell’onere probatorio, fondamentale nella prassi applicativa in materia discriminatoria.
Questo perché se le due fattispecie di licenziamento fossero rimaste assimilate, la giurisprudenza avrebbe dovuto esigere in entrambi i casi che il licenziamento risultasse non solo privo di una giustificazione, ma anche fondato su un motivo illecito, unico e determinante, ponendo in questo modo il relativo onere della prova a carico del lavoratore. Mentre, andando a sganciare il licenziamento ritorsivo da quello discriminatorio, possiamo prevedere una diversità circa i fatti costitutivi e di conseguenza dei differenti regimi probatori.
La Corte di Cassazione, attraverso la sentenza in esame, riprende quelle che sono le regole relative alla prova della discriminazione, richiamando espressamente il d.lgs. n. 150/2011, art. 18 che prevede: «quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione». Previsione che
35 Per un approfondimento si veda, R.G
28
possiamo ritrovare anche all’interno di un altro d.lgs., ossia il d.lgs. n. 198/2006, art. 40 ed, ovviamente, all’interno del diritto comunitario. Quindi, diversamente dal licenziamento nullo per motivo illecito determinante, il lavoratore che viene licenziato non deve fornire una prova piena della discriminazione subita, ponendo a carico di questo un onere “alleggerito” di allegare degli elementi di fatto da cui si potrà desumere un comportamento discriminatorio36.
La sentenza in oggetto tratta, come abbiamo in precedenza esposto, una discriminazione diretta, quindi nel caso specifico il lavoratore discriminato dovrà fornire elementi di fatto che riguardino: a) il fattore di discriminazione; b) il trattamento che si assume meno favorevole; c) il tertium comparationis, ossia il trattamento più favorevole riservato a soggetti non portatori del fattore di discriminazione; d) il nesso di causalità tra il trattamento meno favorevole e il fattore di discriminazione.
Per cui, se il lavoratore riesce a fornire tutti i fatti sopra citati, il datore dovrà, a seconda dei casi, o negare la discriminatorietà del licenziamento fornendo la prova di una ragione alternativa, lecita ed obbiettiva della scelta o provare l’esistenza di una delle deroghe previste per la materia discriminatoria37.
Nel caso oggetto della sentenza, come abbiamo detto, si parla di discriminazione diretta per genere e il datore aveva sostenuto la legittimità del licenziamento perché la decisione di risoluzione del rapporto sarebbe stata motivata dalle negative ricadute economiche
36 Per un approfondimento si veda, R.G
ALARDI, op. cit.
37
29
che si sarebbero verificate a causa delle assenze da parte della lavoratrice dipendente.
L’argomento datoriale si collegava, ovviamente, al tradizionale orientamento di legittimità che assimilava in modo improprio il licenziamento per ritorsione e quello discriminatorio, a carico del lavoratore finiva per rendere comunque necessaria la prova dell’intento di rappresaglia anche per ritenere il carattere discriminatorio. Ma nei casi di discriminazione diretta non è assolutamente ammissibile la causa di giustificazione della condotta datoriale propria delle sole discriminazioni indirette (rappresentata dalla finalità legittima del dator e dal carattere appropriato e necessario dei mezzi utilizzati per raggiungere tale finalità), e quindi la Cassazione ritiene irrilevante il concorrente motivo oggettivo38. Concludendo, le discriminazioni dirette non possono essere giustificate dalla necessità datoriale di risparmiare. Questo perché ogni licenziamento per motivi di genere, si presterebbe ad essere giustificato in modo oggettivo col solo fatto che il datore di lavoro ha una necessità di licenziare per evitare i costi e altre ricadute lavorative dovuti alle assenze dei lavoratori (in questo caso di una lavoratrice madre), per poi assumere altro personale che non presenti le stesse caratteristiche del lavoratore licenziato.
Questo si potrebbe presentare, oltre che nel caso di una lavoratrice madre, anche nel caso di un lavoratore portatore di handicap39.
38 Per un approfondimento si veda, R
OBERTA SANTONI RUGIU,op. cit.
39 R
30
CAPITOLO II
L’EVOLUZIONE STORICA DELLA TUTELA ANTIDISCRIMINATORIA
2.1 Premessa
La materia del diritto del lavoro conosce tre importanti fasi storiche in cui si possono cogliere i primi sporadici interventi legislativi a tutela dei lavoratori subordinati.
Gli interventi legislativi a cui dedicheremo più attenzione saranno quelli relativi ai minori di età, ma soprattutto alle donne e quindi alla parità di genere e trattamento.
Possiamo affermare che questo sistema di tutele che va ad evolversi nel tempo, inizialmente non apporta grandi cambiamenti e neanche un sistema di garanzie degno di nota.
Sarà grazie all’entrata in vigore della Carta Costituzionale e dello Statuto dei lavoratori che il tema delle condizioni del lavoro subordinato assumerà un’importanza maggiore e sarà oggetto di un apparato di garanzia sempre più ampio, aprendo la strada a nuovi fattori di discriminazione diversi da quello di genere.
2.2 La legislazione sociale
La storia del diritto del lavoro in Italia è una storia molto recente, infatti nasce nella metà del XIX secolo qualche decennio dopo l’Unità.
31
La legislazione sociale si presenta come una legislazione di risposta dell’ordinamento in merito alla questione sorta a causa della rivoluzione industriale: gli operai delle fabbriche iniziano ad avere esigenze ed interessi specifici che vogliono vedere tutelati, ma il codice civile del 1865 non prevedeva assolutamente una disciplina del contratto di lavoro, ma la sola “locazione di opere e servizi”. Questo perché si riteneva che nel campo della regolamentazione del lavoro industriale fosse l’autonomia privata a prevalere e che fossero i mercati a fissare le condizioni di lavoro ed i salari.
Verso la metà del 1800 si incomincia a capire che questi problemi non potevano più essere ignorati per cui si cominciò ad intervenire nel campo, soprattutto sotto la spinta dei sindacati che volevano diritti e tutele nei confronti di tutti i lavoratori subordinati, ma anche una legislazione di tutela “speciale” e di “differenziazione” nei confronti dei fanciulli e delle donne40.
Al metodo legislativo si accompagnava anche quello contrattuale o dell'autotutela collettiva, sempre grazie all'operato dei sindacati, che portava allo sviluppo di contratti collettivi, seppur solo a livello locale: rilevanti, quindi, divennero le consuetudini in materia di diritto del lavoro. Tra l’altro, con la l. n. 295/1893 venne istituita una magistratura arbitrale, composta da rappresentanti degli imprenditori ed operai, ossia i c.d. “Collegi dei Probiviri”. La peculiarità di questi collegi risiede nel fatto che i probiviri decidano le controversie
40
Per un approfondimento, P.PASSANITI, Storia del diritto del lavoro I – la questione del contratto di lavoro nell’Italia liberale (1865 – 1920), Giuffrè, Milano, 2006, pp.28 ss.
32
secondo equità, con un’equità creativa di diritto, data, appunto, l’assenza di regole legali41
.
I Collegi dei Probiviri verranno formalmente abrogati col R.D. n. 471/1928, sotto il regime fascista42.
Un primo intervento della c.d. “legislazione sociale”, fu quella della l. n. 3657/1886 sul lavoro dei fanciulli, la c.d. “legge Berti”, che prende il nome dal ministro proponente.
Con tale legge, si introduceva il divieto di impiegare i minori di nove anni e le donne di qualsiasi età in cave, miniere e opifici.
Per quanto riguarda l’orario di lavoro i bambini di età compresa dai dieci ai dodici anni non potevano superare le otto ore giornaliere; undici ore erano previste per i bambini di età compresa dai dodici ai quindici anni e non più di quindici ore per le donne di qualsiasi età. Inoltre, si preoccupava di fissare a quindici anni compiuti per i bambini e, per le donne, la maggiore età, il limite minimo per l’assunzione nei lavori pericolosi e insalubri; la previsione di un libretto e di un certificato medico che garantisse lo stato fisico e l’idoneità al lavoro cui erano destinati; il divieto di lavoro notturno al di sotto dei quindici anni e alle donne minorenni; la tutela delle puerpere relativa all’impiego non prima che fosse decorso un mese dal parto.
Questa legge, in cui si doveva esaurire tutta la legislazione sociale del fine secolo, era molto difettosa, incompleta e povera di contenuti e per queste ragioni trovò una scarsissima applicazione43.
41 O. M
AZZOTTA, Manuale di diritto del lavoro, Cedam, Padova, 2015, p.6.
42 P.P
33
Con la l. n. 242/1902, nota come “legge Carcano” dal nome del ministro presentatore, si chiudeva una fase di lotta all’interno del parlamento per la revisione della l. n. 3657/1886, in cui, per la prima volta, viene prevista in un’unica legge la tutela di donne e fanciulli. La legge fissava a dodici anni il limite di età per l’ammissione al lavoro dei fanciulli; vietava ai minori di quindici anni i lavori pericolosi e insalubri. Per le donne di qualsiasi età la legge vietava i lavori sotterranei, limitava a dodici ore giornaliere (con un intervallo di due ore, rimasto però teorico) l’orario massimo di lavoro; il lavoro notturno era vietato solo alle donne minorenni; era concesso alle donne di qualsiasi età, un riposo settimanale pari ad un giorno.
Ma la novità maggiore risiedeva nel fatto che nella legge Carcano fu data preminenza al problema del congedo di maternità. Infatti si introduceva il divieto di assunzione delle puerpere, se non dopo un mese dal parto e nei casi particolari, dietro certificazione medica, il limite era previsto a tre settimane; l’obbligo per i datori di lavoro di permettere l’allattamento o in una camera speciale o permettendo l’uscita dai locali di lavoro.
Tale legge, però, soprattutto nell’ultima parte descritta, non veniva seguita da tutti i datori di lavoro44.
I provvedimenti successivi alla legge Carcano furono rivolti all’abolizione del lavoro notturno e ad un’ adeguata tutela economica della lavoratrice madre, così che il 26 settembre 1906 venne firmata a Berna una convenzione che aboliva il lavoro notturno per le donne di qualsiasi età.
43 M.V.B
ALLESTRERO, Dalla tutela alla parità: la legislazione italiana sul lavoro delle donne, Il Mulino, Bologna, 1979, pp. 10, 11.
44 Per un approfondimento si veda, M.V.B
34
La l. n. 242/1902 venne parzialmente modificata con la l. n. 416/1907, successivamente confluita nel T.U. sul lavoro delle donne e dei fanciulli (l. n. 816/1907) con cui si introduceva il divieto di lavoro notturno per le donne di qualsiasi età, dando applicazione alla convenzione di Berna, anche se prevedeva numerose eccezioni rispetto a quelle fissate dalla stessa convenzione e per questo motivo i datori di lavoro avevano la possibilità di decidere con una forte discrezionalità se e quando fare ricorso al lavoro notturno.
Successivamente la l. n. 520/1910 istituì la Cassa di maternità, amministrata dalla Cassa nazionale di previdenza che alle lavoratrici in congedo per puerperio si impegnava a pagare un sussidio di 30 lire (più un sussidio di 10 lire pagato dallo stato) che veniva anticipato dall’imprenditore.
Inoltre, altrettanto importante per questo periodo fu la l. n. 80/1898, con cui venne istituita l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro45.
Tuttavia, la svolta normativa in tema di legislazione del lavoro avverrà con l’istituzione l’Ufficio del lavoro e il Consiglio superiore del lavoro, attraverso la l. n. 246/1902.
Con l’istituzione del Consiglio superiore del lavoro e dell’Ufficio del lavoro, la legislazione sociale è inserita finalmente in una trama istituzionale che non consentirà più di invocare alibi procedurali o metodologici nell’opposizione alle riforme sociali, soprattutto perché, al di là delle aspettative del legislatore, diventa un vero e proprio laboratorio di sperimentazioni normative, destinate a scontrarsi con
45 Per un approfondimento si veda, M.V.B
35
una politica liberale sempre poco incline ad accogliere e recepire progetti innovativi46.
Il primo conflitto mondiale creò un periodo di arresto nel mondo del lavoro ed una prima conseguenza della guerra fu l’inserimento della figura femminile nelle attività produttive, in particolar modo nell’industria bellica, andando a sostituire così il personale maschile nel normale lavoro nelle fabbriche, campi e uffici.
Le donne erano costrette a svolgere lavori pesanti e molto pericolosi, prive di una qualsiasi protezione e retribuite con salari inferiori della metà rispetto a quelli maschili. Per questi motivi, venne emesso il R.D. n. 925/1914 che sospendeva il lavoro notturno e altre norme riammettevano fanciulli e donne ad alcuni lavori da cui erano stati esclusi dal T.U. del 1907.
In questo periodo gli imprenditori approfittarono delle condizioni lavorative che si erano andate a creare ed utilizzarono moltissima manodopera femminile, andando a mettere da parte il pensiero del carattere di inferiorità della donna e ne esaltarono la produttività. Finita la guerra, però, la donna tornò ad essere una figura minore rispetto a quella maschile: l’uomo si riprese il suo vecchio lavoro nelle imprese e la donna dovette riprendere il suo antico lavoro casalingo47. Tuttavia, alcune donne che appartenevano al ceto medio riuscirono ad entrare all’interno del mondo del lavoro intellettuale, svolgendo diverse professioni, come ad esempio: segretarie, telefoniste ed insegnanti.
46 P.P
ASSANITI, op. cit., p. 14.
47 Per un approfondimento si veda, M.V.B
36
Proprio per questa ragione il legislatore dell’epoca dovette prendere atto della situazione che si era andata a verificare e introdusse una norma che andava a riaprire quel percorso emancipatorio femminile che durante il periodo della guerra si era sospeso. Venne, così, introdotta la l. n. 1176/1919 sulla capacità giuridica delle donne, al cui art. 7 si stabiliva che “le donne potevano accedere, a pari titolo rispetto agli uomini, ad esercitare i pubblici impieghi, esclusi solo quelli che implicavano l’esercizio di poteri giurisdizionali o l’esercizio di diritti e potestà politiche o che attenevano alla difesa militare dello stato”. Questo articolo viene considerato una tappa molto importante e fondamentale per il percorso dell’emancipazione femminile48.
Sempre in riferimento alla donna, va ricordata la l. n. 471/1922 con cui si ratificò la convenzione di Washington del 1919, nella quale erano stati fissati: il limite minimo di età per l’ammissione al lavoro a quattordici anni; il divieto di lavoro notturno per le donne di qualsiasi età; l’astensione obbligatoria dal lavoro per le gestanti e le puerpere. Con la legge di ratifica, si iniziava quel periodo di “normalizzazione” legislativa, dopo lo sconvolgimento che la prima guerra mondiale aveva apportato al mondo del lavoro49.
Col passaggio dallo stato liberale al regime fascista, si chiuse la prima tappa storica sulla legislazione del lavoro.
48 Per un approfondimento si veda, M.V.B
ALLESTERO, op. cit., pp. 32 ss.
49 M.V.B
37
2.3 La posizione della donna nel regime fascista
Il regime fascista si caratterizzò per aver posto un freno a tutte quelle conquiste che fino ad allora la donna era riuscita ad ottenere a livello normativo.
Alle donne venne affidato il compito di procreare “generazioni di
pionieri e di soldati necessari alla difesa dell’impero”50
e di vigilare sull’integrità della famiglia; le donne non dovevano contare in nessun campo, a parte quello dell’espansione democratica e per questo motivo vennero escluse dalla vita sociale e politica51.
A questo “modello” di donna richiesto dallo stato fascista, si affiancava quello dato dalla Chiesa Cattolica che non si discostava di molto. In quest’ottica vanno ricordate le due encicliche di Papa Pio XI del 1931 “Quadrigesimo anno” e “Casti connubii” in cui si captava quanto fosse forte la condanna da parte della chiesa nei confronti di qualsiasi forma di emancipazione femminile, sia a livello economico che sociale, in quanto si privilegiava una concezione di donna strettamente legata alle mura domestiche e quindi alla famiglia52. Tuttavia, la politica fascista non fu solamente una politica di esclusione della donna, ma anche di protezione ed in questo periodo venne creata una serie di interventi legislativi di estrema importanza. Quindi, le leggi fasciste sul lavoro delle donne possono essere divise in due categorie: “protettive ed espulsive”, orientate in direzioni solo apparentemente contrastanti.
50
B.MUSSOLINI, Discorso alle donne fasciste, 20 giugno 1937, in M.V.BALLESTERO, op. cit., p. 57.
51 Per un approfondimento si veda, M.V.B
ALLESTRERO, op. cit., p. 57 ss.
52 M.V.B
38
Vediamo le leggi “protettive”: troviamo la l. n. 2277/1925 con cui venne istituita l’Organizzazione Nazionale per la Maternità e l’Infanzia, volta a tutelare, ovviamente, la maternità e l’infanzia. Inoltre, la l. n. 1347/1934, recante “Disposizioni sulle lavoratrici madri” con cui si istituiva l’astensione obbligatoria a partire da un mese prima del parto fino alle sei settimane successive, garantendo il diritto alla conservazione del posto di lavoro durante la gravidanza; garantiva alla madre due periodi di riposo giornalieri per l’allattamento fino al compimenti di un anno di età del bambino; obbligava i datori di lavoro che impiegassero più di cinquanta donne all’istituzione delle camere di allattamento. Ancora, la legge aboliva il sussidio che era ancora dato durante il congedo a titolo di disoccupazione, sostituendolo con “sussidio di maternità”. Questo sistema sarebbe stato modificato nel 1939 con l’istituzione dell’assicurazione obbligatoria di nuzialità e natalità, di cui beneficiavano tutti i lavoratori, esclusi gli stranieri e gli italiani di razza “non ariana”53
.
Nessuna norma invece garantiva le lavoratrici contro i licenziamenti e nessuna norma sanciva il diritto delle lavoratrici ad essere qualificate e retribuite come gli uomini. Questo perché la rigidità del lavoro femminile segnalava ai datori di lavoro di non impiegare massicciamente le donne nel lavoro extra-domestico, in modo da non turbare il mercato del lavoro che non avrebbe sopportato una nuova disoccupazione maschile54.
Quindi, possiamo dire che la legislazione di “protezione” del regime fascista, in realtà, non andava a tutelare a pieno le donne, bensì
53 Per un approfondimento si veda, M.V.B
ALLESTRERO, op. cit., pp. 67 ss.
54 M.V.B
39
spingeva i datori di lavoro a non assumere personale femminile all’interno dei propri luoghi di lavoro.
Gli interventi di carattere “protettivi”, come detto in precedenza, vennero accompagnati da interventi “espulsivi”, avendo ad oggetto l’estromissione delle donne prima di tutto dal pubblico impiego e poi anche da quello privato.
Le Italiane, pertanto, non dovevano solo affrontare l'esclusione dalla politica (in cui il loro diritto di partecipare era stato, almeno formalmente, riconosciuto con la concessione del voto amministrativo del 1925: formalmente perché furono abolite le elezioni locali quasi in contemporanea), ma rischiavano l'allontanamento dall'intera sfera pubblica: i loro diritti sul lavoro, il contributo alla cultura, persino il volontariato erano messi in discussione55.
Quasi allo spirare del ventennio, il regime fascista emanò il codice civile del 1942.
Con il nuovo codice civile, la disciplina lavoristica entra nel diritto dei privati. Ci si attenderebbe che il contratto di lavoro fosse regolato nel Libro IV “delle obbligazioni”, ed in particolare ne Titolo III dedicato ai “contratti nominati”, invece ritroviamo la regolamentazione nel Libro V (intitolato Del lavoro), che contiene le regole giuridiche del diritto commerciale (imprenditore e società) e del diritto del lavoro. Inoltre, se scendiamo a verificare più in concreto la disciplina lavoristica, ci accorgiamo che il legislatore definisce i soggetti del rapporto, cosicché la definizione del contratto deve essere dedotta da quella di “prestatore di lavoro” all’art. 2094 c.c.56.
55 Per un approfondimento si veda, M.VB
ALLESTRERO, op. cit. pp. 73 ss.
56
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2.4 L’avvento della Carta Costituzionale e la proclamazione della parità di trattamento tra uomo e donna nel mondo del lavoro
Caduto il regime fascista la costituzione italiana funge da nuovo punto di partenza per la disciplina del diritto del lavoro (Art. 1: “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”) e del rapporto tra il datore di lavoro ed il lavoratore, andando a fornire delle tutele proprio a quest’ultimo, sancendo la dignità sociale del cittadino (art. 3).
Altre norme specifiche riguardano l’art 36, dedicato alla retribuzione, orario massimo di lavoro, riposo e ferie e l’art 37, che disciplina il lavoro delle donne e dei minori.
Proprio con l’art. 37, le donne finalmente videro sancita quella parità e quell’eguaglianza nel lavoro che era stata loro negata da sempre.
L’art. 37, co. 1, afferma che: “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.
Questo comma risultò un ambiguo compromesso tra i vari partiti presenti nell’assemblea sul problema del ruolo da assegnare al lavoro delle donne nella nuova società italiana che si stava lentamente costruendo.
Il precetto costituzionale è quindi diviso in due parti: la prima sancisce la parità di trattamento delle lavoratrici; mentre la seconda sancisce invece la disparità di trattamento, ovvero il principio che la legislazione ordinaria , ma anche i contratti collettivi e i singoli datori di lavoro debbano riservare alle donne trattamenti particolari che
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consentano loro di realizzare le funzioni materne e familiari che il diritto al lavoro e la parità lavorativa non debbono assolutamente turbare57.
Dopo l’emanazione della Costituzione, il legislatore del tempo continuò ad emanare una legislazione di stampo “protettivo”.
Venne emanata la l. n. 860/1950 “Norme sulla tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri”, rivolta a salvaguardare l’integrità fisica del feto e della donna in conseguenza dei danni che potevano verificarsi sul posto di lavoro e la possibilità di potersi astenere dal lavoro nel periodo che andava da tre mesi prima del parto alle otto settimane dopo il parto. La l. n. 860/1950, inoltre, tutelava la donna dai casi di licenziamento nel periodo che andava dalla gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino.
La legge in questione, che pure aveva sollevato durante il suo iter parlamentare perplessità e critiche, era giudicata come il provvedimento più avanzato nel campo della protezione della maternità fra quelli vigenti nei paesi capitalistici58.
Nonostante l’avvento della Carta Costituzionale, la parità di trattamento tra uomo e donna nel mondo del lavoro veniva turbata dalle c.d. “clausole di nubilato” inserite nel contratto dal datore di lavoro che poteva applicarle nel caso in cui la lavoratrice avesse deciso di sposarsi.
Inoltre, sopravvissero alla Costituzione anche i “licenziamenti per causa di matrimonio”. Le denunce ai sindacati da parte delle lavoratrici, dimostravano quanto spesso i datori di lavoro ricorressero
57 Per un approfondimento si veda, M.V.B
ALLESTRERO, op. cit., pp. 110 ss.
58 Per un approfondimento si veda, M.V.B