Dal 1970 al 2012 la sanzione applicabile al licenziamento illegittimo, nelle aziende con più di 15 dipendenti, data dall’art. 18, l. n. 300/1970, era la reintegrazione nel posto di lavoro, alla quale si aggiungeva
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La tutela normativa antidiscriminatoria a tutela dei cittadini stranieri, pp. 15,16, in
www.piemonteimmigrazione.it.
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l’integrale risarcimento del danno derivante dalla mancata retribuzione.
Il disastroso scenario economico che si presenta da svariati anni, unitamente alle sollecitazioni provenienti dalle istituzioni europee sul punto, hanno indotto il legislatore ad intervenire sul tema andando a determinare un radicale mutamento del sistema di tutela appena descritto.
La riforma del lavoro attuata con la l. n. 92/2012 (cd. Riforma Fornero) introduce una serie di importanti novità in materia di licenziamento: ha modificato il regime sostanziale e processuale dei licenziamenti tradizionalmente assoggettati alla c.d. tutela reale; all’art. 1, co. 42, lett. b, ha sostituito i primi sei commi dell’art. 18, l. n. 300/1970, riorganizzando le categorie di licenziamenti illegittimi e la relativa tutela sostanziale; ha introdotto dal co. 48 al co. 68 un nuovo rito per le impugnative dei licenziamenti rientranti nell’ambito di applicazione dello stesso art. 18, così come novellato.
L’art. 1, co. 1, l. n. 92/2012, ci illustra l’obbiettivo perseguito dal legislatore che è quello di predisporre, «[...] misure e interventi intesi a realizzare un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire alla creazione di occupazione, in quantità e qualità, alla crescita sociale ed economica e alla riduzione permanente del tasso di disoccupazione».
Le tutele previste all’art. 18, co. 4, 5, 6 e 7, ed il relativo rito ad hoc, trovano applicazione quando il datore di lavoro ha le caratteristiche dimensionali previste dalla stessa norma, ossia quando occupi, in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto nel quale si è verificato il licenziamento, più di quindici lavoratori o più di cinque
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lavoratori per il caso di imprenditore agricolo, nonché quando il datore di lavoro, nell’ambito dello stesso comune, occupi più di quindici dipendenti e quando si tratta di impresa agricola, occupi nello stesso territorio più di quindici dipendenti, anche se nella singola unità produttiva non raggiunge tali dimensioni. In ogni caso, l’art. 18 si applica ai datori di lavoro che occupano globalmente più di sessanta dipendenti. C’è da sottolineare, però, che qualora ci si trovi dinanzi ad un’ ipotesi di licenziamento discriminatorio o illecito, la tutela di cui all’art. 18, co. 1, 2, 3, sarà concessa indipendentemente dal numero dei lavoratori impiegati228. La novella, in questo modo, va a ribadire l’applicabilità della sanzione di diritto speciale già prevista dal testo previgente.
In particolare, sono state individuate quattro categorie di licenziamenti, in relazione alle motivazioni che li hanno determinati, con altrettante tipologie di tutela che variano di intensità: difatti troviamo le tutele reintegratorie e/o risarcitorie, forti e deboli.
Per quel che ci interessa, si afferma espressamente l’applicabilità della piena tutela ripristinatoria del rapporto e risarcitoria oltre che nel caso del licenziamento discriminatorio in tutti i casi di illeceità del motivo del recesso e dell’applicazione della sanzione prevista all’art. 18 in tutti i casi di licenziamento intimato per motivo illecito senza distinzione in ordine alla natura del motivo o alle dimensioni aziendali; il nuovo co. 1, art. 18 dispone espressamente l’applicazione della stessa sanzione ad altre ipotesi di nullità previste dalla legge (licenziamento per causa di matrimonio e licenziamento della lavoratrice madre), nella quali la giurisprudenza prevalente riteneva
228
V.PETRELLA, Il processo civile. Sistema e problematiche, a cura di C. PUNZI, Giappichelli, Torino, 2013, p. 235.
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l’applicazione della disciplina relativa alla nullità di diritto comune e non della sanzione di diritto speciale. Anche in relazione alla disciplina delle conseguenze sanzionatorie, la l. n. 92/2012 si limita a chiarire alcuni profili applicativi, andando così a codificare scelte giurisprudenziale già note229: tale tipologia di licenziamento è sanzionata con la nullità e la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, nonché al pagamento di un’indennità risarcitoria, commisurata all’ultima retribuzione di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione (comunque non inferiore a cinque mensilità) detratto il c.d. aliunde perceptum nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative e, infine, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali. Inoltre, ai sensi del nuovo art. 18, co. 3, in alternativa alla reintegrazione, ma non al risarcimento del danno, che resta dovuto, il lavoratore può domandare, entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia giudiziale che ordina la reintegra ovvero dalla comunicazione del datore di lavoro dell’invito a riprendere servizio, la corresponsione dell’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto che non resta assoggettata a contribuzione previdenziale. Questa ultima opzione comporta, ovviamente, la risoluzione del rapporto di lavoro230.
In conclusione, possiamo dire che le fattispecie sul piano sostanziale di licenziamento discriminatorio rimangono invariate, ma è stata la radicale riscrittura delle garanzie a fronte del licenziamento ingiustificato o illegittimo, ma non nullo né discriminatorio, a mutare
229 Per un approfondimento si veda,E.T
ARQUINI, op. cit., pp. 75, 76.
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del tutto il rilievo applicativo della figura del licenziamento discriminatorio, solamente nelle ipotesi di provvedimenti espulsivi discriminatori o connotati dall’illiceità del motivo comportando l’integrale ripristino della situazione giuridica lesa231
.
Ora, è bene porre attenzione anche alle problematiche connesse all’armonizzazione delle norme processuali dettate dagli artt. 36 e ss. del d.lgs. n. 198/2006 e dal d.lgs. n. 150/2011 nella parte in cui esse prevedono che oggetto della lite sia una discriminazione col rito specifico dei licenziamenti ex art. 18, l. n. 300/1970, introdotto dalla l. n. 92/2012.
L’art. 28, d.lgs. n. 150/2011 impone la trattazione del rito sommario di cognizione delle controversie aventi ad oggetto discriminazioni previste dall’art. 44 del d.lgs. n. 286/1998, dall’art. 4 d.lgs. n. 215/2003, dall’art. 4 del d.lgs. n. 216/2003, dall’art. 3 della l. n. 67/2006 e dall’art. 55-quinquies del d.lgs. n. 198/2006; mentre, per quanto riguardo le discriminazioni fondate sul fattore genere, gli artt. 36 e ss., d.lgs. n. 198/2006 consentono al lavoratore o alla lavoratrice interessati ad agire in via ordinaria oppure nelle forme di un rito sommario e deformalizzato modellato sulla struttura del procedimento previsto dall’art. 28 della l. n. 300/1970.
Per cui non è eludibile la questione dell’attuale esperibilità dei procedimenti previsti dal d.lgs. n. 198/2006 e dal d.lgs. n. 150/2011 anche nei casi in cui l’atto assunto come discriminatorio si qualifichi come un licenziamento, non potendosi ritenere abrogate le norme appena citate in conseguenza dell’entrata in vigore della l. n. 92/2012.
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Infatti, anche in ipotesi di licenziamento, per ottenere la rimozione dell’atto qualificato come discriminatorio secondo quanto previsto dal d.lgs. n. 198/2006 e dal d.lgs. n. 150/2011, la domanda del lavoratore o della lavoratrice avrà ad oggetto la declaratoria di nullità/inefficacia del licenziamento come conseguenza del previo accertamento della discriminazione e come effetto la misura necessaria alla rimozione della situazione illecita, in un modo analogo all’azione prevista dall’art. 28, l. n. 300/1970. Quindi, ad essere proposta non è la domanda di reintegrazione, dato che il ripristino del rapporto di lavoro costituisce lo strumento per l’eliminazione delle conseguenze pregiudizievoli della discriminazione.
Una tale conclusione non esclude la facoltà del lavoratore o della lavoratrice di lamentare la discriminatorietà del recesso nelle forme del rito previsto dalla l. n. 92/2012, dato che si tratta di azioni tra loro alternative e concorrenti232.
La nostra attenzione deve essere rivolta anche nei confronti delle norme che prevedono la possibilità di cumolo delle azioni promosse dai soggetti legittimati ad agire in giudizio per contestare discriminazioni che si realizzano per il tramite della risoluzione del rapporto di lavoro.
Per quanto riguarda l’ambito europeo, l’art. 9, par. 2, dir. n. 2000/78, dispone che «Gli Stati membri riconoscono alle associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche che, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un interesse legittimo a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate, il diritto di avviare, in via giurisdizionale o
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amministrativa, per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, una procedura finalizzata all'esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente direttiva».
Disposizioni similari le ritroviamo all’interno dell’art. 7, dir. n. 2000/43 e all’art. 6, dir. n. 2002/73.
A livello nazionale il legislatore ha dato attuazione ai principi comunitari appena esposti attraverso l’art. 5, d.lgs. n. 215/2003, nel quale si stabilisce che «Sono legittimati ad agir e[…], in forza di delega, rilasciata, a pena di nullità, per atto pubblico o scrittura privata autenticata, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, le associazioni e gli enti inseriti in un apposito elenco approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità ed individuati sulla base delle finalità programmatiche e della continuità dell'azione.
Nell'elenco di cui al comma 1 possono essere inseriti le associazioni e gli enti iscritti nel registro di cui all'articolo 52, comma 1, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, nonché le associazioni e gli enti iscritti nel registro di cui all'articolo 6.
Le associazioni e gli enti inseriti nell'elenco di cui al comma 1 sono, altresì, legittimati ad agire ai sensi dell'articolo 4 nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione».
In maniera analoga, l’art. 5, d.lgs. n. 216/2003 dispone che «Le rappresentanze locali delle organizzazioni nazionali maggiormente
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rappresentative a livello nazionale, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità, sono legittimate ad agire ai sensi dell'articolo 4, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l'atto discriminatorio.
Le rappresentanze locali di cui al comma 1 sono, altresì, legittimate ad agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione».
Inoltre, in ambito di discriminazione relativa al fattore genere, gli artt. 36, 37, 38, d.lgs. n. 198/2006 attribuiscano alle Consigliere o Consiglieri di parità una specifica legittimazione processuale, consentendoli di agire in giudizio in via esclusiva al fine di far cessare e rimuovere gli effetti di discriminazioni collettive, ma anche nelle ipotesi di discriminazioni che coinvolgano lavoratori o lavoratrici singoli, di promuovere il giudizio su delega della persona che ne ha interesse o di intervenire nei giudizi promossi dalla medesima. Questo vale sia per un ordinario giudizio di cognizione, sia per l’attivazione dello speciale rito sommario.
Si tratta di facoltà queste che non sono precluse dall’introduzione del rito specifico previsto dalla l. n. 92/2012 e che concorrono con quelle riconosciute in capo alla lavoratrice o lavoratore discriminato e quindi interessati ad impugnare l’atto lesivo233
.
Ulteriormente, la peculiare natura del processo regolato dalla l. n. 92/2012, nel caso in cui si venga a realizzare una discriminazione a
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mezzo di licenziamento, non consente la riunione con controversie introdotte nel rito ordinario delle cause di lavoro e previdenza, quale dovrebbero essere promosse in via generale dalla consigliera secondo quanto stabilito dall’art. 37, d.lgs. n. 198/2006 o in quello sommario di cognizione da parte dei soggetti collettivi legittimati secondo la disciplina prevista all’interno del d.lgs. n. 215/2003 e d.lgs. n. 216/2003. Una tale impossibilità è prevista anche qualora venga prescelta dalla parte pubblica l’azione a mezzo del procedimento sommario previsto dall’art. 38, d.lgs. n. 198/2006, anche questo a struttura bifasica, ma prevede tempi e forme di gravame totalmente differenti dal rito specifico dei licenziamenti.
Impossibile anche la trattazione unitaria ex art. 40, c.p.c., attesa da una parte l’obbligatorietà del rito specifico quanto alle domande secondo l’art. 18, l. n. 300/1970 e dall’altro l’impossibilità di trattazione in quel rito di domande che hanno ad oggetto fatti costitutivi differenti rispetto all’impugnazione del licenziamento.
Così che, nel caso in cui non si ritenesse più accessibile alla lavoratrice o al lavoratore il procedimento contro le discriminazioni quando la discriminazione sia verificata da un licenziamento, l’impugnazione del recesso da parte del singolo interessato e l’azione dell’organo pubblico o del soggetto collettivo diretta a far valere il proprio diritto al risarcimento del danno o alla rimozione della discriminazione che abbiano coinvolto anche altri lavoratori o lavoratrici dovrebbero, a questo punto, procedere in via separata col conseguente rischio che si verifichino contrasti a livello teorico dei giudicati.
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Al contrario, ritenendo ancora esperibile il procedimento contro le discriminazioni anche dal lavoratore e anche per il caso che l’atto impugnato sia un licenziamento, l’azione individuale e l’azione promossa dalla parte pubblica o collettiva che agisca in via autonoma, potranno essere cumulate nelle forme del rito speciale contro le discriminazioni, col conseguente vantaggio sia per l’uniformità delle decisioni, sia per la completezza dell’accertamento del fatto234
.
Altra questione da analizzare è quella relativa all’accessibilità per la parte pubblica o collettiva dell’azione prevista dalla l. n. 92/2012 in rappresentanza di un lavoratore o di una lavoratrice interessati o ad ausilio delle loro pretese.
In questo caso, secondo il parere di E. Tarquini, ragionando sui principi, «pare che si debba escludere la legittimazione della parte pubblica o collettiva ad agire nel rito specifico in rappresentanza dei
singoli interessati»235. Nella specie, la Consigliera o l’associazione
legittimata farebbe valere in giudizio un diritto altrui quali sostituti processuali e questa si tratta di una facoltà che in tutti i casi la legge sembra limitare all’azione di rimozione delle discriminazioni. Diversamente per il caso in cui il soggetto pubblico o collettivo intendesse svolgere un intervento adesivo alle ragioni del lavoratore o della lavoratrice. In questo caso, infatti, la posizione della Consigliera o del Consigliere o dell’associazione resterebbe comunque regolata dal principio espresso dall’art. 105, c.p.c., che consente l’intervento adesivo dipendente ai terzi che abbiano un proprio interesse in causa, un interesse che dovrebbe riconoscersi in capo alla parte pubblica o collettiva in ragione della finalità della loro azione e cioè quella diretta
234
Per un approfondimento si veda, E.TARQUINI, op. cit., pp. 85, 86.
235
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alla protezione degli interessi che sono stati lesi dalla condotta discriminatoria. In questo modo, l’intervento di questi soggetti terzi non determinerebbe l’introduzione di nessuna domanda diversa dall’impugnazione del licenziamento236
.
Detto questo, passiamo ora ad un’analisi nettamente giurisprudenziale andando ad applicare quello che si è fino ad ora descritto al caso del licenziamento della lavoratrice madre e per causa di matrimonio come fattispecie di discriminazione.
In precedenza abbiamo visto come il nuovo testo dell’art. 18, l. n. 300/1970 preveda espressamente l’applicabilità della sanzione di diritto speciale anche nel caso del licenziamento della lavoratrice madre e per il licenziamento per causa di matrimonio, andando a risolvere il contrasto esistente in giurisprudenza circa le conseguenze sanzionatorie dell’illegittimità del licenziamento.
L’orientamento prevalente in giurisprudenza aveva sempre ritenuto l’applicabilità in entrambe le fattispecie del regime delle nullità di diritto comune237, andando a rifiutare qualsiasi unione tra la disciplina di tutela della maternità e la disciplina antidiscriminatoria.
Ora, se la l. n. 92/2012 va a risolvere la questione delle conseguenze sanzionatorie applicabili alle due fattispecie in esame, questa non opera nessuna qualificazione del licenziamento della lavoratrice e di quello per causa di matrimonio come figure discriminatorio di genere. Tema, questo, che risulta essere assai rilevante ai fini dell’ammissibilità del risarcimento del danno non patrimoniale secondo le regole proprie del diritto antidiscriminatorio.
236
E.TARQUINI, op. cit., pp. 86, 87.
237
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Secondo il parere di E. Tarquini «pare che la qualificazione di ambedue le fattispecie in esame come discriminazioni dirette per ragioni di genere sia imposta dalla disciplina dell’Unione, così che, anche prima dell’entrata in vigore della l. n. 92/2012, l’applicazione della sanzione di diritto speciale doveva seguire comunque ad una piena applicazione dell’art. 3, l. n. 108/1990, quanto meno nel caso
del licenziamento della lavoratrice madre (nell’ipotesi di
licenziamento per causa di matrimonio la questione del regime sanzionatorio applicabile prima della riforma ponendosi come più complessa in ragione del richiamo espresso alle conseguenze della nullità di diritto comune operato dal sesto comma dall’art. 35 del
d.lgs. n. 198/2006)»238.
In verità, la Corte di Giustizia ha ricostruito la fattispecie del licenziamento nei confronti della lavoratrice in gravidanza al principio di non discriminazione per ragioni di genere, quindi il recesso intimato alla lavoratrice durante suddetto periodo costituisce un trattamento deteriore che può riguardare solamente le donne e che deve essere qualificata come una discriminazione diretta fondata sul sesso239. Inoltre, il giudice dell’Unione dà un senso ampio e funzionale al divieto di licenziamento delle lavoratrici, argomentando in questo modo «l’art. 10, dir. n. 92/85 deve essere interpretato nel senso che esso vieta non soltanto di notificare una decisione di licenziamento a causa della gravidanza e/o della nascita di un figlio durante il periodo di tutela definito al suo n. 1, ma anche di prendere misure
238
E.TARQUINI, op. cit., p. 88.
239
Per un approfondimento si veda, Corte di Giustizia, C- 460/06, Paquay c. Société d’architectes Hoet + Minne SPRL, in www.eur-lex.europa.eu.
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preparatorie ad una tale decisione prima della scadenza di detto
periodo»240.
Il legislatore comunitario, come quello nazionale, ha indubbiamente affermato la presunzione della relazione casuale tra recesso e maternità nel periodo di interdizione, indipendentemente dall’intento soggettivo del datore di lavoro, salvi i casi eccezionali non collegati allo stato di gravidanza della lavoratrice, nel nostro ordinamento limitati alla giusta causa ed alla cessazione dell’attività produttiva241
. Per quanto riguarda, invece, il licenziamento per causa di matrimonio, un primo indice dell’inclusione di questa fattispecie tra quelle di discriminazione risiede nella collocazione dell’art. 35, d.lgs. n. 198/2006, essendo questo inserito nel capo II, Libro III che reca la rubrica «divieti di discriminazione» e contiene la previsione della generalità del divieto di discriminazione di genere.
Inoltre, è importante sottolineare che l’art. 27, d.lgs. n. 198/2006 prevede come espressamente vietata la discriminazione nell’accesso al lavoro in relazione allo stato di gravidanza, ma anche a quello matrimoniale.
In realtà, tali argomentazioni le ritroviamo anche all’interno di pronunce temporalmente lontane da noi, come ad esempio nella decisione del Giudice delle leggi n. 27/1969. In questa pronuncia la Corte Costituzionale rilevava come prima della l. n. 7/1963 (contenente la prima previsione del divieto di licenziamento per causa di matrimonio) fosse diffusa la prassi dei licenziamenti delle donne in caso di matrimonio. Secondo la Corte, il divieto del licenziamento per
240
Corte di Giustizia, C- 460/06, Paquay c. Société d’architectes Hoet + Minne SPRL.
241 Per un approfondimento si veda, E.T
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causa di matrimonio risulta essere una misura non neutra, ma protettiva specificatamente delle donne a fronte di comportamenti deteriori commessi specificatamente nei loro confronti in dipendenza del genere, così che il recesso intimato alle lavoratrici nel periodo di
interdizione costituisce un trattamento deteriore che può
effettivamente riguardare solamente le donne. In altre parole, realizza una discriminazione diretta basata sul genere e come tale vietata anche dalle fonti superprimarie di diritto dell’Unione242
.