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Un discorso produce il proprio oggetto

L’oggetto non aspetta nel limbo l’ordine che lo libererà e gli permetterà di incarnarsi in una visibile e loquace oggettività; non preesiste a se stesso, quasi fosse trattenuto da qualche ostacolo alle soglie della luce. Esiste nelle positive condizioni di un complesso ventaglio di rapporti.46

Questo quasi-postulato dell’Archeologia implica – come dimostravamo poc’anzi in maniera più estesa – che è sempre già stato il discorso storicamente prodotto sull’uomo e sul soggetto ad aver creato (e a continuare a creare) l’oggetto “uomo” e l’oggetto “soggetto”, quali oggi esistono e funzionano per noi, per le nostre scienze umane e nelle nostre più immediate quotidianità.

Questa presa di posizione foucaultiana, tutt’altro che di immediata comprensione, è stata spesso confusa a mio avviso con quella molto differente che sostiene l’esistenza di una sorta di mano invisibile che, in segreto, governerebbe e progetterebbe la storia degli uomini (come sosteneva, ad esempio, proprio lo storicismo di matrice hegelo-marxista con cui Foucault era decisamente in polemica). L’assunzione foucaultiana secondo cui “un discorso produce il proprio oggetto”, mi sembra implicare piuttosto – in maniera meno ideologica, e in certo senso amorale – che gli attuali oggetti “uomo”

45 È divertente immaginarsi, anche se di solito - a causa del suo successo - ci si immagina il contrario, che il cogito cartesiano al momento della sua comparsa sul proscenio storico, apparve a molti – letterati filosofi e scienziati, non agli uomini della strada – come una pura follia, come qualcosa di insensato, inaccettabile, come qualcosa che mai nessuno aveva neppure lontanamente sospettato. Non è un po’ comico che, meno di duecento anni dopo, e ancora a noi oggi, esso sembri istintivamente la cosa più ovvia del mondo? Se ha dovuto essere “scoperto”, cioè inventato, ciò significa che prima non esisteva, e che se poi è diventato una verità istintiva e dominante, non bisognerà forse chiedersi seriamente un giorno attraverso quali pratiche, e per quali motivi politici, abbia potuto assumere una simile importanza nella nostra società?

e “soggetto” non siano altro che il risultato parziale, casuale e sempre trasformabile del desiderio e delle lotte dei soggetti etici che hanno abitato finora la storia della nostra società e della nostra cultura. Quel che mi sembra importante rilevare a questo proposito è che in nessuna delle definizioni date da Foucault del termine discorso compare il fuorviante concetto di sovradeterminazione (molto utilizzato invece da Lacan e Althusser). Foucault nell’Archeologia afferma piuttosto che i discorsi innescano diverse funzioni enunciative e producono differenti effetti di soggettività.

I “discorsi”, così come si possono sentire, così come si possono leggere nella loro forma di testi, non sono, come ci si potrebbe aspettare, un puro e semplice intrecciarsi di cose e parole [... ]; vorrei mostrare che il discorso non è una sottile superficie di contatto, o di scontro, tra una realtà e una lingua, il groviglio di un lessico e di un’esperienza [...], analizzando i discorsi stessi si vede allentarsi la stretta apparentemente tanto forte delle parole e delle cose, e farsi luce un insieme di regole proprie della pratica discorsiva. Queste regole non definiscono affatto la muta esistenza di una realtà, né l’uso canonico di un vocabolario, ma il regime degli oggetti.47

Il discorso infatti non soltanto non ha in alcun modo, nell’Archeologia, la capacità di svelare la realtà muta delle cose, ma è anche “una cosa ben diversa dal luogo in cui si vengono a deporre e a sovrapporre, come in una semplice superficie di iscrizione, degli oggetti precedentemente instaurati”48 . Il discorso è condizionato diacronicamente e retroattivamente dagli stessi oggetti che produce, e che in fondo non sono altro che altri discorsi. Il discorso psichiatrico e il discorso giuridico, ad esempio, che hanno prodotto l’oggetto “follia” e l’oggetto “folle” alla metà dell’Ottocento, non sono altro che discorsi: discorsi che hanno preso corpo nella pratiche e nelle istituzioni. Non solo i discorsi degli psichiatri, dei giudici e dei legislatori, ma anche quelli della gente “comune”, e persino i discorsi stessi di coloro che si sono riconosciuti (o sono stati indotti a riconoscersi) come folli.

A ben guardare infatti le relazioni storico-discorsive che Foucault considera nell’Archeologia non si giocano affatto a livello del rapporto tra parole e cose, tra interpretazione e dato, bensì a livello del rapporto tra differenti “discorsi”, delle loro

47 Ibid., p. 66. 48Ibid., p. 58.

reciproche influenze e trasformazioni. Il discorso, e i discorsi, non sono affatto la riscoperta archeologica di un sistema, di un fondo, che governerebbe la “mentalità” degli individui. In questo senso lo stesso concetto di a-priori storico è stato a mio avviso recepito generalmente dalla critica in maniera completamente falsata. Gli a-priori storici di Foucault, l’autore lo afferma chiaramente, non hanno nulla a che fare con

un insieme di determinazioni che si impongono dall’esterno al pensiero degli individui, o che vi risiedono dentro quasi preventivamente; essi costituiscono piuttosto l’insieme delle condizioni secondo cui si esercita una pratica, secondo cui questa pratica dà luogo agli enunciati parzialmente o totalmente nuovi, secondo cui infine può essere modificata.49

Non si tratta di ritrovare lo scheletro originario di una mentalità. Si tratta piuttosto di immettere nel discorso dominante un discorso particolare che miri ad alterarlo, producendo l’effetto di deformare le pratiche, gli effetti di soggettività e le connessioni logiche che lo sostengono.

“Le parole e le cose” è il titolo – serio – di un problema; è il titolo – ironico – del lavoro che ne modifica la forma, ne sposta i dati, rivela un compito finalmente diverso. Un compito che consiste nel non trattare – nel non trattare più – i discorsi come degli insiemi di segni (di elementi significanti che rimandino a contenuti o a rappresentazioni), ma come delle pratiche che formano sistematicamente gli oggetti di cui parlano. Indubbiamente i discorsi sono fatti di segni; ma fanno molto più che utilizzare questi segni per designare delle cose. È questo di più che li rende irriducibili alla langue e alla parole. È questo di più che bisogna mettere in risalto e che bisogna descrivere.50

Il discorso è qualcosa di ben diverso da ciò che governa, semplicemente e meccanicamente, la mentalità degli individui di una società, non siamo a livello di una versione banale, deterministico-materialistica dello Zeitgeist hegeliano, né del grande fratello orwelliano.

49 Ibid., p. 272.

Nell’analisi che si propone qui, le regole di formazione si collocano non nella mentalità o nella coscienza degli individui, ma nel discorso stesso; conseguentemente e secondo una specie di anonimato uniforme, si impongono a tutti gli individui che incominciano a parlare in quel campo discorsivo.51

Il fatto che le regole non si pongano nella coscienza, ma nel discorso, significa forse semplicemente che la coscienza è essa stessa un oggetto prodotto nel discorso; è sufficiente – affinché si produca l’identificazione dei soggetti con la coscienza – che nel discorso ci siano delle regole di un certo tipo. È per questo che non si tratta esattamente di una questione di “mentalità”, bensì di ciò che la causa. Su questo Lacan e Foucault sono strettamente in sintonia. “Le strutture definite dal discorso comune, dal linguaggio, vanno evidentemente molto più lontano di quelle che si possono ridurre alla funzione della mentalità”52. Con l’unica sottile differenza forse che, come abbiamo visto, Lacan identifica direttamente i discorsi con queste regole/strutture logiche, le quali – seguendo la speciale topologia soggettiva che egli articola nel suo sistema – funzionano sia fuori che dentro gli “individui”, non essendo gli “individui” altro che la frattura, il bordo, tra due esteriorità (quella del dentro e quella del fuori). Queste due “esteriorità” sono il campo stesso dell’Altro, il quale si specifica per essere il luogo in cui si producono i discorsi. L’Altro infatti, nella sua funzione simbolica di luogo di iscrizione (e di riserva) del significante, non è identificabile, né spartibile, tra un fuori o un dentro: è in entrambi i posti, ed è per questo che disloca i corpi parlanti sulla medesima superficie evenemenziale che è quella frattura, quel buco nell’Altro, che è l’oggetto piccolo a inteso come evento e luogo di scambio dei soggetti gli uni negli altri.

Le “condizioni attraverso cui si esercita una pratica” o, per dirla con Lacan, “le strutture logiche implicate da un certo discorso in quanto fonda un legame sociale”, non sono qualcosa di calato dall’alto, sono piuttosto a loro volta l’effetto – quotidiano ed eternamente in divenire – delle “verità”, delle influenze, delle seduzioni e delle identificazioni che, nella materialità del discorso, i soggetti etici sono gli uni negli altri. Quella che Althusser definisce l’interpellazione ideologica dei soggetti concreti in soggetti-della-coscienza è un fenomeno (al contempo politico, storico e discorsivo)

51 Ibid., p. 83.

che si produce per mezzo di quel vero e proprio mistero della teoria freudiana che prende il nome di identificazione. Com’è noto Freud declina l’identificazione, in uno degli annessi a Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in tre differenti modi, di cui soltanto il primo, quello immaginario, può veramente essere utile alle aspirazioni più incautamente antistoriche ed esoteriche di una certa psicanalisi. Se l’identificazione immaginaria (che nell’essere umano presiede alla formazione dell’io ideale) può infatti essere “dimostrata” a livello scientifico, e può perciò essere considerata in un certo senso trans-storica, transpolitica e trans-culturale, non è così per l’identificazione simbolica, quella che per Freud si determina attraverso l’einziger Zug, e che Lacan traduce con “tratto unario”; quest’ultima forma di identificazione rappresenta – storicamente e politicamente – proprio la funzione attraverso cui i soggetti concreti introiettano l’ideale dell’io dalle figure che nella loro vita appaiono dotate di maggiore autorità simbolica. L’ideale dell’io coincide nella nostra cultura con l’apprensione del proprio posto di soggetto “dentro” la coscienza, un posto che si produce e si trasmette, di persona in persona, ad opera di una stratificazione di significanti (tratti unari), ovviamente dotati di un supporto immaginario, che letteralmente si collocano dentro il soggetto, costituendone l’ideale dell’io. Fin dal Seminario II Lacan, citando Freud, affermava seccamente che “l’io è una somma di identificazioni”. Un errore comune riguardo ai tre registri lacaniani è proprio quello di considerare l’immaginario come legato all’immaginazione, quando esso è invece il registro che presiede a tutto ciò che è immagine (persino quell’immagine “uditiva”, che per Saussure era il “significato” di un significante).

Vediamo meglio con un esempio pratico, qual è il reale intreccio tra identificazione simbolica e immaginaria. Chiunque abbia avuto un bambino sa bene che è nel discorso che il posto dell’Io e del Tu vengono ad ordinarsi, e che è necessario insegnare ai bambini, quando imparano a parlare, che devono descrittivamente chiamare “io” la cosa che pensa in loro, e “tu” il genitore a cui si rivolgono. Gli episodi quotidiani di transitivismo in cui i bambini (specialmente fino ai tre anni) confondono io e tu, sono la testimonianza pratica del fatto che il posto dell’io – nella nostra società e nella nostra cultura – si apprende dal discorso nella prima infanzia dalle figure (dotate di maggiore autorità simbolica) che ci insegnano a parlare. L’io è appreso grammaticalmente per mezzo dell’introiezione del “tu” che ci ha interpellato, in un crossing-over di

identificazione immaginaria e simbolica che si produce tra corpi pulsionali (reale). Sulla terza forma di identificazione freudiana, quella che si produce per introiezione di un singolo desiderio, detta anche isterica, ci soffermeremo ampiamente nella seconda parte della tesi.

Quel che è importante considerare in questo momento è la relazione tra l’io ideale, cioè tra l’immagine di sé (e degli altri su cui è proiettata), e quel fondamento simbolico del soggetto-della-coscienza (ideale dell’io o super-io) che si manifesta nel soggetto come quella “voce della coscienza” che ne governa l’etica. Limitiamoci a segnalare per il momento come lo stesso Freud non possa fare a meno di ammettere che le funzioni del super-io e dell’ideale dell’io sono in certo senso intercambiabili (salvo forse che per la sfumatura per cui la genesi dell’ideale dell’io interessa maggiormente identificazioni private e strettamente intersoggettive, mentre il super-io parrebbe assumere maggiormente l’aria di uno “spirito del tempo” più generale). Ma come notava Lacan, già ai tempi del saggio sul Tempo logico, è molto probabile che questo “spirito del tempo”, questa morale, in fondo non sia altro che il frutto delle relazioni intersoggettive in cui ogni soggetto etico consiste e vive. “Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale”.53

Ciò che è appartenuto alla dimensione più profonda della vita psichica individuale, si trasforma, mediante la formazione dell’ideale, in quelli che noiriteniamo i valori più alti dello spirito umano. Vani però sarebbero i nostri sforzi ove volessimo localizzare l’ideale dell’Io, in modo anche soltanto simile a quello adottato per I’Io, o se volessimo inserirlo in una di quelle immagini mediante le quali abbiamo cercato di raffigurare la relazione esistente fra l’Io e l’Es. É facile mostrare che l’ideale dell’Io risponde a tutti i requisiti che gli uomini si aspettano di trovare nell’essere superiore. In quanto formazione sostitutiva per la nostalgia del padre, l’ideale dell’Io contiene il germe dal quale si sono sviluppate tutte le religioni. II giudizio sulla propria pochezza derivante dal confronto fra il proprio Io e il suo ideale produce quella sensazione di devota umiltà alla quale si richiama il credente nel suo fervore. Nel corso ulteriore dello sviluppo maestri e autorità hanno continuato a svolgere le funzioni del padre; i loro comandi e divieti sono rimasti efficaci nell’Io ideale, ed esercitano ora, come "voce della coscienza", la censura morale. La tensione fra le esigenze della coscienza morale e i comportamenti dell’Io viene avvertita come senso di

colpa. I sentimenti sociali poggiano su identificazioni con gli altri in base a un comune ideale dell’Io.54

L’Altro è per Lacan proprio il luogo di iscrizione di questo ideale, ed è anche il soggetto etico “passivo” stesso, considerato nella sua materialità e storicità. La superficie d’iscrizione di questo ideale è l’Io stesso, concepito – seguendo la seconda topica freudiana – come quella proiezione di superficie in cui si dice e si scrive il sapere.

Che cos’è l’Altro? È questo campo della verità che ho definito come il luogo in cui il discorso del soggetto prenderebbe la propria consistenza, il luogo in cui il soggetto si situa e si offre ad ogni refutazione o accettazione. Descartes si poneva il problema di sapere se ci o fosse o meno un dio che garantisse questo campo. Ora, questo problema è oggi totalmente dislocato, per il semplice fatto che non c’è, nel campo dell’Altro, possibilità di piena consistenza del discorso.55

È in questo giunto che si inserisce un’altra questione fondamentale, che sarà oggetto di dibattito tra Miller e Foucault nel 1977, vale a dire quella del rapporto tra le pratiche discorsive e l’ambito cosiddetto non discorsivo: cioè il rapporto del discorso con l’istituzione e col desiderio.

Infine questa istanza [quella che lega il discorsivo e il non discorsivo] si caratterizza mediante le possibili posizioni del desiderio in rapporto al discorso: questo può essere infatti luogo di messa in scena fantasmatica, elemento di simbolizzazione, forma del divieto, strumento di soddisfazione derivata (questa possibilità di essere in rapporto col desiderio non è soltanto una caratteristica dell’esercizio poetico, romanzesco o immaginario del discorso: i discorsi sulla ricchezza, sul linguaggio, sulla natura, sulla pazzia, sulla vita e sulla morte, e forse molti atri che sono molto più astratti, possono occupare delle posizioni ben determinate in rapporto al desiderio)[...]. Né il rapporto del discorso col desiderio, né i processi della sua appropriazione, né il suo ruolo tra le pratiche

54 S. Freud, “L’Io e l’Es”, in Opere complete vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino 1979, p. 499. 55 J. Lacan, D’un Autre à l’autre, cit., p. 24.

non discorsive sono estrinseci alla sua unità, alla sua caratterizzazione e alle leggi della sua formazione: […] sono elementi formatori.56

Considerare lacanianamente il sapere come ciò che è stato detto e scritto, ha permesso a Foucault di costruire nell’Archeologia anche l’oggetto “archivio”, identificandolo come l’unico possibile e “materiale” oggetto della pratica dello storico. L’archivio è infatti qualificato da Foucault come il campo stesso del sapere (considerato – seguendo sempre Lacan e Foucault – non come un atto cognitivo. ma piuttosto come l’effetto delle verità che si producono e riproducono, che seducono e si sedimentano nel discorso). In questo senso, facendo un piccolo salto, l’Archeologia stessa può essere considerata da noi, oggi, parte del nostro archivio, e come tale deve essere studiata.

La descrizione dell’archivio sviluppa le sue possibilità a partire dai discorsi che hanno appena cessato di essere nostri [...], ci distacca dalle nostre continuità; dissipa quell’identità temporale in cui amiamo contemplarci per scongiurare le fratture della storia [...]. Così intesa la diagnosi non stabilisce la nostra identità mediante il meccanismo delle distinzioni. Stabilisce che noi siamo differenza, che la nostra ragione è la differenza dei discorsi, la nostra storia la differenza dei tempi, il nostro io, la differenza delle maschere. Che la differenza non è origine dimenticata e sepolta ma quella dispersione che noi siamo e facciamo.57

La differenza che ci separa – non da noi stessi, bensì dal soggetto-della-coscienza a cui siamo identificati e che ci supponiamo essere a vicenda – è quella dispersione che noi siamo e facciamo. I cosiddetti a-priori “storici” dell’Archeologia sono estratti da Foucault a-posteriori, essi sono gli a-priori storici di quella che al filosofo francese pareva la realtà politico-culturale del proprio tempo. Non c’è scampo da questo prospettivismo, e Foucault non ha mai inteso davvero, lungo tutta la sua opera, sottrarsi ad esso. Da quando il suo primo corso al Collège è stato pubblicato, abbiamo la conferma di questa tesi da un supporto teorico inaspettatamente corposo, in cui Foucault teorizza, commentando Nietzsche, l’impossibilità teorica di “conoscere” la verità di alcunché – inclusi quindi gli stessi a-priori storici, almeno quali li considera

56 M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit. p. 228. 57 Ibid., p. 176.

abitualmente la critica. Confrontarsi con una simile messa a punto teorica, prodotta appena un anno dopo la pubblicazione dell’Archeologia, può forse aiutare a capire, in uno strano ma fruttuoso cortocircuito, quanto poco gnoseologica (e quanto invece già politica) fosse la categoria di a-priori storico che Foucault andava elaborando nell’Archeologia.

Domandarsi quale sia la vera natura della conoscenza significa già dare per scontato un certo tipo di rapporto: quello tra un soggetto e un oggetto. […] Nietzsche dice che “non esiste conoscenza in sé”, [...] cioè che non esiste, nella violenza del conoscere, un rapporto costante, essenziale e prestabilito che l’attività della conoscenza dovrebbe insieme dispiegare ed effettuare. Dire che non esiste conoscenza in sé è come dire che il rapporto soggetto-oggetto (e tutte le sue derive come a priori, oggettività, conoscenza pura, soggetto costituente) sono prodotti [del discorso] della conoscenza, e non il suo fondamento. […] E tutto ciò perché al cuore della conoscenza, Nietzsche rifiuta ostinatamente di porre qualcosa come il cogito, cioè la coscienza pura in cui l’oggetto si dà nella forma del soggetto, e in cui il soggetto può farsi oggetto a se stesso. Tutte le filosofie hanno fondato la conoscenza cercando di avvicinare al massimo il soggetto e l’oggetto (sia nella forma pura del cogito, sia nella forma minimale della sensazione, sia nella forma della pura tautologia: A=A). Nietzsche ha voluto rendere conto della conoscenza cercando di separare al massimo soggetto e oggetto, facendone dei prodotti distanti l’uno dall’altro e che non possono essere confusi che per illusione. Allontanandosi bruscamente dall’idea che il rapporto soggetto-oggetto sia costitutivo della conoscenza, Nietzsche ritiene proprio che l’illusione maggiore della conoscenza sia l’esistenza di un soggetto e di un oggetto. Ma cosa ci offre Nietzsche al posto del cogito? Ci propone il gioco dell’iscrizione/marchio [marque] e del volere, della parola e della volontà di potenza, o ancora, del segno e dell’interpretazione.

- il segno è la violenza dell’analogia, è ciò che domina e cancella la differenza.

- l’interpretazione è ciò che pone ed impone i segni, ciò che gioca con essi e introduce delle differenze radicali (quelle della parola e del senso) sulle differenze elementari del caos.

Il segno è l’interpretazione, nella misura in cui essa introduce nel caos la menzogna delle cose. E l’interpretazione è la violenza fatta al caos attraverso il gioco cosificante dei segni