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Il nuovo oggetto di Foucault

Già ne Le parole e le cose – seppur in maniera molto più filosofica e quasi letteraria – Foucault aveva iniziato ad abbordare la cruciale questione riguardante il rapporto dell’uomo con il discorso e con gli “oggetti” che questo produce.

Lungi dal ricondurre, o anche soltanto dall’orientarsi a un vertice, reale o virtuale d’identità, lungi dall’indicare il momento del Medesimo in cui la dispersione dell’Altro non è ancora entrata in gioco, l’originario dell’uomo [inteso come singolarità individuale] è ciò che fin dall’inizio lo articola su qualcosa di diverso da se stesso; è ciò che introduce nella sua forma e nella sua esperienza forme e contenuti più antichi di lui, e che egli non domina; ciò che vincolandolo a cronologie multiple, intrecciate, irriducibili spesso le une alle altre, lo disperde nel tempo e lo costella in mezzo alla durata delle cose. Paradossalmente, l’originario, nell’uomo, non annuncia il tempo della sua nascita, né il nucleo più antico della sua esperienza: lo lega a ciò che non ha il suo stesso tempo […]. Tanto che, in lui, le cose (quelle stesse che lo sovrastano) trovano il loro inizio.35

Quello che, in maniera un po’ pomposa, Foucault aveva definito ne Le parole e le cose l’allotropo empirico-trascendentale, era in nuce già una prima problematizzazione del rapporto tra l’uomo, il discorso e la storia. Una problematica così enorme – appena accarezzata ne Le parole e le cose – nonostante la fruttuosa autocritica operata da

Foucault, non poteva essere già risolta nell’Archeologia, che in questo senso – per ammissione del suo stesso autore – è davvero un libro esplorativo nel senso più pieno della parola. Non di meno, va riconosciuto a Foucault il merito di aver iniziato, proprio nell’Archeologia, seppur ancora in maniera nebulosa, a circoscrivere le scabrosità e la paradossalità del complesso intreccio che lega uomo al linguaggio e alla storia. Ancora una volta, persino su un tema così fondamentale, le posizioni di Foucault corrispondono in maniera quasi stupefacente a quelle di Lacan: nello stesso anno in cui Foucault afferma, in Nietzsche, la genealogia, la storia la necessità etica e politica di osare una storia della Storia, si può vedere Lacan affermare che “non esiste possibilità di un discorso sull’origine se non a partire dalla messa in questione dell’origine di un discorso”.36

L’impasse più grossa che Foucault incontrerà nell’Archeologia, un’impasse che gli varrà le critiche più aspre e in certo senso più giustificate, riguardava il posto e il desiderio (topologicamente intesi) del soggetto archeologo, cioè del soggetto concreto che si produce nel discorso affermandovisi come qualcuno che reperisce e descrive le relazioni che storicamente lo caratterizzano. La presunzione foucaultiana di poter semplicemente “descrivere” queste relazioni lo obbligava ancora implicitamente a rifarsi proprio a quel regime apofantico-descrittivo del linguaggio che pure aspirava a criticare radicalmente, e lo esponeva così ad un tipo di critica che era in fondo la stessa che egli stesso muoveva allo strutturalismo “classico”. Al contempo però, è anche vero che in molti momenti dell’Archeologia Foucault riesce già con successo a non astrarsi dalla dimensione di discorso in cui si sforzava di collocarsi (e li osserveremo tra poco). In ogni caso questa presunta e ulteriore impasse che emerge nell’Archeologia – come già era successo con quelle incontrate ne Le parole e le cose – avrà un importante e positivo ruolo propulsivo per il prosieguo delle analisi del filosofo: Foucault infatti saprà uscirne grazie all’invenzione della propria particolare etica della genealogia. In questa seconda operazione autocritica (che possiamo ritenere compiuta con Nietzsche, la genealogia, la storia e il primo corso al Collège), avvicinandosi ulteriormente a Deleuze, e ricalcando il suo percorso, Foucault si allontanerà progressivamente dalle tematiche più vicine ai diretti interessi di Lacan (riprendendo piuttosto, in maniera non

36 J. Lacan, … ou pire, cit., p. 231

ideologica, le direttrici politiche delle interpellazioni althusseriane), senza rinunciare per questo ad un intenso e proficuo dialogo sotterraneo con lo psicanalista francese. La critica più aspra che fu mossa a Foucault per l’Archeologia – proveniente dall’ambiente sartriano e marxista umanista – era quindi una critica tutto sommato in sintonia con la enorme questione che il filosofo francese iniziava appena a circoscrivere, e suonava pressappoco come un “e chi sei tu, per permetterti di negare la soggettività degli altri, guardandoti bene però, ipocritamente, dal riservare lo stesso trattamento alla tua (che ha progettato e calcolato minuziosamente questo libro audace e presuntuoso)?”. Riporto dall’Archeologia due differenti risposte di Foucault a questa provocatoria domanda (tutt’altro che campata in aria, e che doveva in certo modo averlo comunque almeno un po’ scosso). Credo che queste due risposte siano davvero esemplari, oltre che esplicative, dello stile e della contropolitica della filosofia di Foucault. La prima è tratta dall’Introduzione:

- Si prepara a dire ancora una volta di non essere mai stato quello che le rimproverano di essere? Sta preparandosi già la scappatoia che le consentirà, nel prossimo libro, di risorgere altrove e di schernire tutti come fa adesso: no, no, non sono dove mi cercate, ma qui dove vi guardo ridendo.

- Ma voi pensate davvero che io ci metterei tanta fatica e tanto piacere a scrivere [...] se non preparassi – con mano un po’ febbrile – il labirinto in cui avventurarmi, in cui spostare il mio discorso, aprirgli dei cunicoli, sotterrarlo lontano da lui stesso, trovargli degli strapiombi che riassumano e deformino il suo percorso, in modo da perdermici e comparire finalmente davanti a occhi che non dovrò più incontrare? Più d’uno, come faccio io, scrive per non avere più volto.37

La seconda dal vertiginoso antidialogo conclusivo:

Vi confesso che questa questione mi mette in imbarazzo [...]. Il fatto è che per adesso, e senza che possa ancora prevedere una scadenza, non solo il mio discorso non determina il luogo da cui parlo, ma addirittura evita il terreno su cui potrebbe appoggiarsi. È discorso su dei discorsi; ma non intende trovare in essi una legge nascosta, un’origine sepolta che

non dovrebbe far altro che liberare, non intende nemmeno stabilire per se stesso e da se stesso la teoria generale di cui i discorsi sarebbero i modelli concreti.38

Vediamo bene, ancora una volta, la distanza che separa la nozione di discorso di Foucault da quella di Althusser, il cui obiettivo era invece proprio, come abbiamo visto, quello di fondare una teoria generale del discorso. Nell’Archeologia Foucault cercava piuttosto – ancora un po’ alla cieca, lui stesso lo afferma – di fare qualcosa di molto diverso, e in certo senso opposto: cercava di entrare nel discorso, di esserlo, piuttosto che farne la teoria generale. Uno sforzo che proprio Lacan gli riconoscerà pubblicamente, forse per primo. Durante il suo seminario del 1968-1969 infatti Lacan si complimenta pubblicamente con il filosofo per essere stato capace, nella sua conferenza Che cos’è un autore, di “mantenersi alla propria situazione strettamente interna al discorso”.39

Il discorso, e i discorsi, nell’Archeologia, vengono indubbiamente considerati da Foucault (sotto forma di enunciati) come una sorta di primitivo. Si potrebbe arrivare a dire addirittura, mutuando proprio il metodo e il linguaggio inaugurati da Foucault nell’Archeologia, che i discorsi e il discorso sono gli oggetti, le due figure epistemologiche, prodotti dallo storico dei saperi Michel Foucault nel libro L’archeologia del sapere. Attraverso la propria nozione di discorso infatti, in maniera forse inosservata, Foucault creava un oggetto che non esisteva prima (e che, dopo la meteora sofistica, è stato rispolverato in età moderna appena da Bentham e Marx): il discorso considerato come l’innesco, come la causa – e non come l’effetto, né come un medium a disposizione – del soggetto-del-pensiero.

I discorsi nell’Archeologia del sapere sono considerati e analizzati da Foucault come pure materialità, iscrizioni prodotte su carta, sui corpi, o nella memoria degli uomini, di cui è possibile studiare con metodo strutturale le relazioni, le trasversali regolarità e le discontinuità storico-formali. Collocandosi (un po’ istericamente) in posizione interna al discorso stesso, Foucault iniziava dunque attraverso il proprio discorso a considerare i singoli discorsi come le molecole storiche e materiali di cui è costituito l’immenso archivio del sapere, laddove con l’espressione “sapere” – come affermava

38 Ibid., p. 268.

lo stesso Lacan in quegli anni – si intende “ciò che è cosa che detta, cosa che si dice. Ebbene, il sapere parla da solo, ecco l’inconscio”.40

É chiaro tuttavia che niente brucia più di quello che, nel discorso, si riferisce al godimento. Il discorso vi pesca senza sosta, dato che trae origine da esso. [...] Freud fa al riguardo un discorso strano, diciamolo, contrarissimo alla coerenza e alla consistenza di un discorso. Il soggetto del discorso non si sa in quanto soggetto che fa il discorso. Che non sappia che cosa dica, passi pure, vi si è sempre posto rimedio. Ma ciò che Freud dice è che [il soggetto che pensa] non sa chi lo dice. Il sapere – penso di avervi insistito abbastanza da farvelo entrare in testa – il sapere è cosa che si dice, che è detta. Ebbene, il sapere parla da solo, ecco l’inconscio.41