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La divisione del soggetto nel discorso

La divisione del soggetto – avanzata da Lacan fin dalla fase mediana del suo insegnamento e di cui si possono riscontrare le tracce in Foucault nella lezione conclusiva dell’Ermeneutica del soggetto – è l’inveitabile conseguenza storica, politica e strutturale, scotomizzata dal soggetto-della-coscienza (che ne è l’effetto), del fatto che “io” (il soggetto che parla e scrive, e in cui simultaneamente gli altri accadono e producono effetti di sapere e di soggettività), esisto nel discorso come due oggetti apparentemente incompossibili. “Io” sono l’agente e la vittima – la guancia e la percossa, lo slogatore e le ossa di baudelairiana memoria – del discorso stesso; sono l’assoggettato e l’assoggettante di un processo che si svolge su di una “superficialità”. Si può chiamare questa superficialità discorso, per comodità, pur trattandosi di una dimensione che – consistendo di pratiche e di relazioni – non si limita evidentemente soltanto alla parola, ma vi intreccia (in un unico nodo) anche il corpo pulsionale e l’immagine. È alla superficie di questo intreccio, sempre parziale e storico (ed esso stesso effetto di discorso), che attualmente si produce e riproduce l’oggetto, l’operatore politico che funge da garanzia ultima ed estrema di tutti i nostri legami sociali: il “soggetto-della-coscienza”.

Quel che Foucault e Lacan non dicono esplicitamente – e che mi sento di qualificare come il mio apporto personale a questa delicatissima questione, perché mi sembra logicamente implicato nei loro discorsi – è che i soggetti etici sono il dritto e il rovescio di quel campo di battaglia in cui si gioca la lotta politica – in eterno divenire – per la significazione dei significanti “padroni”.

Se è vero infatti che Foucault – dopo aver affermato la morte dell’uomo ne Le parole e le cose – intendeva nell’Archeologia aggredire il soggetto stesso, è vero anche che egli poteva osare questa ulteriore aggressione soltanto perché, nel suo discorso, egli

già muoveva – perché non dire, senza timore, semi-inconsciamente ? – in direzione di un’esperienza della soggettività totalmente differente, un’esperienza in cui il soggetto (tradizionalmente inteso come la cosa pensante che secerne i pensieri particolari) non è più ciò che io sono. “Vi ho detto in tutti i toni che il problema della nostra epoca, e dell’attuale congiuntura della psicoanalisi, è da prendere come uno dei sintomi del fatto che questo soggetto supposto sapere, è certo di non esistere”.133 O, per dirla con le parole di Foucault, invece che con quelle di Lacan:

[Nel mio discorso si tratta di] far vedere che un cambiamento, nell’ordine del discorso, non presuppone “idee nuove”, un po’ di invenzione e di creatività, una mentalità diversa, ma delle trasformazioni in una pratica, eventualmente in quelle che le sono contigue e nella loro articolazione comune. Non ho negato, e me ne sono guardato bene, la possibilità di cambiare discorso: non ho tolto il diritto esclusivo e istantaneo alla sovranità del soggetto.134

Foucault non nega affatto nell’Archeologia la possibilità di cambiare discorso, né la possibilità – per un soggetto-pratica (un soggetto etico) – di avere un ruolo centrale in questa trasformazione; ciò che nega con forza è piuttosto che l’attuale ordine del discorso possa essere deviato da un soggetto etico – o da un gruppo di soggetti etici – che continuano a interpellarsi, e a riprodursi nel discorso, come soggetti-della-coscienza. Il che in sostanza significa, e Foucault lo dice apertamente, che l’ordine del discorso (a cui darà più tardi il nome di regime di verità) non può essere alterato da filosofi, da storici, e in generale da cittadini, che continuano a vivere, parlare e condurre le loro ricerche e le loro vite quotidiane interpellandosi e vivendo come soggetti della coscienza. La morte dell’uomo affermata ne Le parole e le cose non era che un passo intermedio, necessario a Foucault per introdurre quello che, da sempre, nella scia del suo “maestro” Bataille, era il suo vero bersaglio grosso: la morte del soggetto supposto dall’allora dominante idea di “uomo”. “In effetti si tratta meno del narcisismo di ciascuno quanto del fatto che il gruppo prende le difese di un narcisismo

133 J. Lacan, D’un Autre à l’autre, cit., p. 347, traduzione mia. 134 M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., p. 273.

più vasto. Per giudicarlo basta sondare in tutta la sua ampiezza il giro lungo che fa un Michel Foucault per arrivare a negare l’uomo”.135

Lacan e Foucault condividevano – a differenza di Althusser – la consapevolezza della necessità di un giro lungo, di un percorso lento e per certi versi oscuro, che solo poteva aprire la strada all’articolazione, all’interno del discorso dominante, di un’esperienza differente della soggettività. Mentre Lacan userà come grimaldello per scardinare la tradizionale concezione della soggettività il godimento in perdita connesso alla sua etica della psicoanalisi, Foucault legherà profondamente la propria contropolitica della soggettività alla parola “pratica”, e in particolare a quella speciale pratica che è la genealogia (di cui abbiamo già messo in luce la dimensione autoaggressiva). Se considerata infatti a livello della sua ambiguità semantica, la parola “pratica” ci aiuta a capire fino a che punto l’iniziativa foucaultiana dell’Archeologia non avesse proprio nulla di aggressivo nei confronti della soggettività e dei soggetti etici, tutt’altro: essa mirava piuttosto a ricollocarne la funzione politica nel discorso e, addirittura, a riarticolarne la topologia all’interno di quella particolare struttura logica – e non per questo meno politica e materiale – che è il discorso del capitalista (cioè il discorso dominante che Lacan – in sintonia con Althusser – andava aggredendo proprio negli stessi anni in cui Foucault pubblicava l’Archeologia e cominciava la sua avventura al Collège).

Nonostante Althusser non sia riuscito ad uscire dalle impasses che gli sbarravano la strada per una proposta costruttiva riguardo alla soggettività, è impossibile non attribuirgli almeno il merito di essere stato, fra i tre, il più chiaro nel mettere in luce la logica che co-implica soggetto-della-coscienza e modo di produzione capitalista – da lui chiamata ideologia e rigorosamente individuata negli atti, nelle pratiche e nei rituali della vita quotidiana.

Non esiste ideologia che per dei soggetti concreti, e questa destinazione dell’ideologia non è possibile che attraverso il soggetto; intendiamo con ciò: non è possibile che attraverso la

categoria di Soggetto e il suo funzionamento.136

135 J. Lacan, Altri scritti, cit., p. 345.

136 L. Althusser, Ideologie et appareils ideologiques d’Etat, cit. «Il n’y a d’idéologie que pour des sujets concrets, et cette destination de l’idéologie n’est possible que par le sujet : entendons par la catégorie

Questa crudezza è al contempo il miglior pregio e il peggior difetto dell’elaborazione althusseriana. Se essa ci permette infatti di non nutrire alcun dubbio riguardo alla funzione politica che il milieu post-strutturalista attribuiva al soggetto-della-coscienza, al contempo – proprio a causa della sua limpidezza teorica – rende profondamente disagevole, per chiunque vi si approcci, sviluppare in maniera autonoma e individuale il percorso necessario a compiere, e ad assumere spontaneamente ed eticamente su di sé, una così vertiginosa trasformazione dell’esperienza soggettiva.

La struttura infatti – come aveva visto bene Althusser – è politica, e in fondo non è altro che ciò che Lacan definisce il “simbolico” e ciò che Foucault chiamerà “dispositivo”. La struttura infatti per Lacan, come per Foucault e Althusser, non è ideale, non è lo scheletro logico della realtà sociale, ma piuttosto il prodotto stesso – e al contempo, paradossalmente, le condizioni storico-politiche (sempre in divenire) – delle relazioni tra i soggetti etici. “Questa sorta di struttura che designo col termine di discorso è ciò attraverso cui, per l’effetto puro e semplice del linguaggio, si precipita un legame sociale. Ci si è accorti di questo senza bisogno della psicanalisi. È la stessa cosa di quel che si chiama correntemente l’ideologia”.137 Su questo punto la sintonia tra Lacan e Althusser è totale, oltre che documentata.

La riscoperta della materialità del discorso, e della alternativa esperienza della soggettività che vi è implicata, implicano a loro volta la materialità del pensiero e del senso. Lacan e Deleuze (specialmente in Logica del senso, e più tardi con la rivisitazione dell’artaudiano “corpo senza organi”) avevano visto quasi contemporaneamente fino a che punto la riscoperta della materialità del discorso obblighi logicamente ad una totale revisione dell’estetica trascendentale kantiana e di quel soggetto trascendentale che ne è sia garante, sia garantito. Lacan, nel Seminario X, ha approfondito questa delicata questione attraverso la metafora dell’occhio, ripresa poi ampiamente nel seminario dell’anno successivo (il primo all’École).

Il fatto che l’occhio sia specchio implica già in un certo qual modo la sua struttura. Il fondamento, se così possiamo dire, estetico-trascendentale di uno spazio costituito deve

cedere il posto a un altro. Noi parliamo della struttura trascendentale dello spazio come di un dato irriducibile dell’apprensione estetica del mondo, mentre questa struttura esclude una cosa sola: l’occhio stesso, ciò che esso è, la sua funzione. Si tratta di trovare le tracce di questa funzione esclusa. Essa si dimostra già abbastanza, nella fenomenologia della visione, come omologa alla funzione di a.138

Se infatti il soggetto etico è nel discorso – cioè negli altri, nei soggetti etici, tra cui figura anche egli stesso – l’intreccio di corpo attivo-passivo, sguardo-immagine e significante-pathos di significante, allora questo soggetto è contmeporaneamente sia una superficie di iscrizione, uno specchio liquido, una vescica, una membrana attraversabile dagli altri soggetti etici (incluso se stesso nella sua metà attiva), sia gli “oggetti” parziali che – accadendo nel discorso – vi si iscrivono (accadendo negli altri). Il “dentro” del soggetto etico quindi, per servirsi di una metafora un po’ brutale, si riconfigura in questo discorso come la discarica delle vite e delle parole – cioè degli oggetti – che i soggetti etici sono gli uni negli altri. Questa è la dinamica di “superficie” a partire da cui si producono persino quelle fragili nozioni della teoria analitica che prendono il nome di io ideale e di ideale dell’io. Il debole concetto freudiano di identificazione obbliga a fare i conti col fatto che le immagini, le parole (e persino delle parti di corpo) si iscrivono alla superficie del soggetto etico, lo attraversano, lo intaccano, lo violano, giungendo ad abitarlo proprio in quel luogo (da sempre vuoto) in cui l’ordine del discorso dominante colloca l’oggetto discorsivo “soggetto-della-coscienza”.

Molto tempo fa ho fatto allusione allo specchio senza superficie in cui non si riflette niente. […] Tale era il mio rapporto sulla causalità psichica. Il rapporto a specchio con l’oggetto è, per qualsiasi gnoseologia, un riferimento così comune e di così facile accesso che è anche facile incorrere nell’errore della proiezione. Sappiamo quanto è facile che le cose al di fuori assumano il colore della nostra anima, e anche la sua forma, e che persino avanzino verso di noi sotto forma di un doppio. Tuttavia, se reintroduciamo l’oggetto a come essenziale nel rapporto con il desiderio, la faccenda del dualismo e del non dualismo assume tutt’altro rilievo. Se quello che è maggiormente me stesso si trova all’esterno, non tanto perché l’ho

proiettato quanto perché è stato tagliato via da me, i percorsi che prenderò per ricuperarlo offrono tutt’altra varietà.139

Possiamo immaginare il rapporto tra attività e passività del soggetto etico come un rapporto polare, quasi elettromagnetico, in cui la passività è sempre anche un’attività in quanto è capace di “attirare” gli oggetti che vi si iscrivono; e dove l’attività stessa ha sempre un versante di passività in quanto, nel momento stesso in cui vi si iscrive, diviene immediatamente già la potenziale preda, l’oggetto, di quella passività che non è il contrario, bensì il “rovescio”, dell’attività stessa.

Questa doppia dinamica, che in nuce è già quella della fase dello specchio, e in cui già si sovrappongo i tre registri lacniani, ci svela come il soggetto etico, cioè l’oggetto a, rimanga abitualmente tagliato fuori dal normale percorso di riconoscimento soggettivo. L’oggetto a è infatti entrambi gli oggetti in cui ho orrore di riconoscermi: 1) la superficie “invisibile” cui si applicano i marchi simbolici chemi identificano al soggetto-della-coscienza, e 2) il marchio simbolico attraverso cui io stesso accado e “vivo” negli altri.

Solo così diviene possibile spiegare logicamente – cioè evitando facili spiegazioni scientifico-biologico-evoluzionistiche – il transfert politico dell’esperienza soggettiva quale realmente, materialmente e quotidianamente si consuma da soggetto a soggetto. Questa dinamica, semplicemente inavvicinabile senza gli strumenti offerti dal concetto freudiano – e soprattutto lacaniano – di identificazione, rimane a tutt’oggi uno dei più grandi impensati della nostra cultura e della nostra società (in quanto è da esse che proviene la attuale e dominante significazione storica della parola “soggetto”).

L’oggetto politico-discorsivo “soggetto-della-coscienza” si trasmette infatti da soggetto a soggetto attraverso il fenomeno dell’identificazione, in cui i tre registri lacaniani annodano i tre modi attivo-passivi dell’oggetto: parola (voce-ascolto), immagine (sguardo-dare a vedere) e corpo pulsionale (infliggere-subire). Se l’identificazione immaginaria, come abbiamo già accennato, potrebbe un giorno essere compiutamente dimostrata come fondata a livello biologico – essendo possibile reperirla anche negli animali ed essendo forse legata ai cosiddetti neuroni a specchio (come stanno cercando di accertare le neuroscienze) – certamente non si può dire lo

stesso per l’identificazione simbolica (che fonda l’ideale dell’io), né per quella isterica (che incarna il desiderio supposto nell’Altro). Queste altre due forme dell’identificazione, che Freud distingue in Psicologia delle masse e analisi dell’io, esigono infatti un’ulteriore e ancor più radicale sospensione dell’estetica trascendentale kantiano-newtoniana, delle sue categorie di spazio-tempo e persino del soggetto trascendentale che vi è implicato. Approfondiamole proseguendo la metafora lacaniana dell’occhio e addentrandoci nella frattura tra il soggetto della visione geometrale e l’oggetto-sguardo

L’occhio, arriverò a dire, organizza il mondo in spazio. Esso riflette quello che, nello specchio, è riflesso: ma all’occhio più acuto è visibile – se guarda bene dentro all’immagine che lo riflette – il riflesso del mondo che esso stesso ha in sé. Per dirla tutta non servono due specchi perché si creino riflessioni infinite, bastano l’occhio e uno specchino per produrre un dispiegamento infinito di immagini. È un’osservazione che non facciamo per la sua ingegnosità, ma per ricondurci al punto privilegiato che sta all’origine, e che è quello stesso in cui si annoda la difficoltà originaria dell’aritmetica, il fondamento dell’uno e dello zero [ulteriore metafora – sviluppata poi nel Seminario XIX – del primato (topo)logico del significante rispetto al significato e del soggetto etico rispetto al soggetto-della-coscienza]. L’immagine che si costituisce nell’occhio, quella che potete vedere nella pupilla, esige all’inizio un correlato che non è un’immagine. Se la superficie dello specchio non sta lì a reggere il mondo, non ne consegue che niente rifletta il mondo, ma precisamente che niente si riflette. Questo vuol dire che prima dello spazio c’è un Uno che contiene la molteplicità in quanto tale – spazio che non è mai altro se non uno spazio scelto, in cui possono sussistere delle cose giustapposte, solo fintanto che c’è posto. Che tale posto sia infinito o indefinito non cambia minimamente il problema.140

Per proseguire la metafora lacaniana dell’occhio, si potrebbe dire che il soggetto etico è contemporaneamente, e attivo-passivamente, sia l’oggetto sguardo (che si riflette nell’immagine dello specchio), sia l’oggetto che l’immagine nello specchio guarda. Il fatto che Lacan attribuisse una sorta di primato all’identificazione simbolica significa solo che tutto il “corporeo” e tutto l’“immaginario” sono legati inestricabilmente al discorso, cioè a quella struttura logica che non è un luogo teorico,

bensì la particolare dimensione pulsionale che presiede alla funzione della parola, dell’ascolto e del significante stesso. Lacan chiama “pulsione invocante” la speciale pulsione che, non a caso, che chiude e al contempo riapre, il circuito delle pulsioni ricongiungendosi alla pulsione orale. A questo riferimento lacaniano, tratto dal Seminario X, possiamo affiancare le famose e un po’ più tarde riflessioni di Deleuze in Logica del senso, come ad esempio quella in cui il filosofo fa rimbalzare quello che definisce oggetto x (o fallo) tra una serie composta da concetti e una afferente all’oralità; oppure quella in cui Deleuze rispolvera la celebre frase attribuita allo stoico Crisippo: “Se dico carro, un carro mi esce dalla bocca”. Tutto ciò per ribadire che il simbolico non è affatto una dimensione disincarnata, bensì proprio quella che – interessando la parola – presiede alle relazioni significanti che determinano il “pensare”.

Queste precisazioni sono importanti perché permettono di considerare in maniera davvero intrecciata e dinamica il rapporto che lega i tre registri lacaniani (i quali – è bene ricordarlo – partecipano tutti del reale). Non a caso nell’ultima fase del suo insegnamento Lacan utilizzerà non solo il concetto di nodo, ma addirittura dei veri e propri nodi di corda, per rendere topologicamente l’idea di questo intreccio. Addentriamoci un po’ di più nel rapporto che, secondo Lacan, intercorre tra l’identificazione e i tre registri commentando un delicato passaggio del Seminario XIX.

Qualsiasi cosa può servire a scrivere l’Uno della ripetizione. Non è che sia niente, esso può scriversi con qualsiasi cosa che sia almeno un po’ in grado di ripetersi sotto forma di immagine. Niente di più facile che immaginare che quest’Uno sia fatto per riprodurre naturalmente, come si dice, il suo simile o il suo tipo. Non che sappia all’origine fare la sua immagine, direi piuttosto che quest’immagine lo marchia, e che questo marchio – lui, l’Uno – può restituirlo all’immagine; restituirle quel marchio che è precisamente il tratto unario. Il tratto unario è il supporto di ciò da cui sono partito sotto il nome di stadio dello

specchio, cioè dell’identificazione immaginaria. Mi è capitato che mi si dicesse che do dei

giudizi di valore del tipo: immaginario schifo, simbolico gnam gnam. Ma non soltanto il reperimento di un supporto tipico, cioè immaginario, il marchio come tale, il tratto unario, non costituisce in alcun modo un giudizio di valore, ma tutto ciò che io ho detto, scritto, inscritto nei miei grafi, schematizzato persino in un modello ottico – in cui il soggetto si riflette nel tratto unario, e a partire da cui soltanto il soggetto può costituirsi come io-ideale;

tutto ciò non fa che insistere sul fatto che l’identificazione immaginaria si produce per mezzo di un marchio simbolico.141

Lacan era talmente infastidito dalla generale incomprensione dell’intreccio e della simultaneità che attribuiva ai propri tre registri che, due anni dopo la citazione che abbiamo appena apprezzato, nel Seminario XXI ripeterà lo stesso concetto accentuandovi – nella maniera più esplicita possibile – la relazione di dipendenza e di effettualità che il soggetto-della-coscienza (il moi) intrattiene rispetto ai “propri” dire (cioè con il reale, con il soggetto etico abitato dagli altri in cui si serrano i tre registri).

Qualsiasi cosa io dica, … dico “io” perché mi ci suppongo, a questo dire, in quanto pare un fatto che sia della mia voce. Qualsiasi cosa io dica, il mio dire fa sorgere due versanti: un bene e un male. È a partire da questa presupposizione che mi si attribuisce l’intenzione di dipingere l’immaginario come “schifo, cattivo”: un male. E il simbolico invece come il bene. Ecco che così, in quattro e quattr’otto, mi si vuole vedere come qualcuno che ha fondato un’etica. È proprio questo il malinteso che voglio dissipare, e voglio farlo proprio attraverso quel che quest’anno vi annuncio di questa struttura di nodo, in cui metto l’accento su questo: che è a partire dal tre che si introduce il reale.142

La riconfigurazione estetica (e persino estesiologica) del soggetto nel discorso , articolata da Lacan e dallo stesso Deleuze in Logica del senso, prevede che i soggetti etici si penetrino, si abitino e si attraversino passando per quella sorta di specchio liquido che sono gli uni per gli altri in quanto essi, nella materialità del discorso, sono contemporaneamente l’iscrizione e il luogo di iscrizione del “senso” e della “verità”. Per accettare questa dinamica è necessario iniziare a considerare che noi non siamo meno immagine di quanto non siamo parola, che non siamo meno ascolto di quanto siamo sguardo, e che lo siamo in maniera completamente sganciata da una qualsiasi idea tradizionale di “corpo proprio”, di “mente” e persino di “organismo”. Lacan ripete

141 J. Lacan, … ou pire, cit., p. 169.

142 J. Lacan, Seminario XXI. Les non dupes errent, cit., Lezione del 19 marzo. «Quoi que je dise… je dis « je » parce que je m’y suppose, à ce dire, dont pourtant il y a de fait qu’il soit de ma voix…quoi