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Nel presente studio cross-sectional, che ha preso in esame una coorte di pazienti affetti da MA lieve, è stato indagato se l’accumulo eritrocitario di proteine patologiche legate alla neurodegenerazione rappresenti un potenziale biomarcatore della patologia e quindi possieda la capacità di discriminare tra soggetti sani e soggetti affetti da MA. I pazienti considerati erano tutti affetti da “MA probabile”, quindi da una forma di demenza lieve caratterizzata da un prevalente deterioramento della memoria, secondo quanto stabilito in base ai criteri clinici del NINCDS-ADRDA (G. McKhann et al., 1984).

Dai risultati di questo studio emerge che, mentre né Ab1-42, né t-Tau hanno mostrato differenze

significative tra i due gruppi (Figura 1 e 2), t-a-syn risulta più elevata, in termini di concentrazione, nel gruppo MA (Figura 3) e possiede, inoltre, la capacità di discriminare i pazienti dai controlli con una moderata accuratezza diagnostica (Figura 4).

Riguardo ad Ab1-42, è noto che la sua deposizione cerebrale a livello delle placche senili

rappresenta un evento chiave nello sviluppo della MA, secondo quanto suggerito dalla cosiddetta “ipotesi della cascata dell’amiloide”(Gandy, 2005). Questo accumulo cerebrale è responsabile di una diminuzione della sua concentrazione all’interno del LCR; nonostante si possa osservare la medesima alterazione anche in altre malattie neurodegenerative, il riscontro di livelli ridotti di Ab1-42 nel LCR rappresenta attualmente uno dei principali biomarcatori per

confermare la diagnosi di MA (Dubois et al., 2014).

Partendo dal presupposto che l’efflusso verso il circolo periferico, mediato da specifici trasportatori, rappresenti una delle principali modalità con cui Ab1-42 viene eliminata dal SNC e

dal LCR (J. Wang et al., 2017), la sua concentrazione è stata misurata anche a livello plasmatico. Effettivamente, da un recente studio, è emerso che, nella MA, la diminuzione di Ab1-42 nel LCR

correlava con una relativa riduzione a livello plasmatico; inoltre, tale studio ha confrontato i livelli plasmatici di Ab1-42 in soggetti affetti da naMCI, aMCI e MA, riscontrandone un

al., 2018). Tuttavia, questo risultato contrasta con i dati ottenuti da numerosi ulteriori studi che, al contrario, hanno dimostrato una scarsa correlazione tra la concentrazione di Ab1-42 nel LCR e

quella nel plasma (Hansson et al., 2010). Tra queste ricerche, in particolare, una meta-analisi condotta su un’ampia casistica di soggetti (15699 pazienti affetti da MA vs. 13018 controlli sani), ha evidenziato che la concentrazione di Ab1-42 nel plasma non risultava significativa nel

discriminare i pazienti dai controlli (Olsson et al., 2016) e nemmeno nel prevedere l’esordio clinico di MA in pazienti asintomatici a rischio, come appurato da un'altra indagine che ha analizzato in parallelo pazienti affetti da MA preclinica e controlli cognitivamente sani (Lovheim et al., 2017).

La divergenza tra i vari studi può essere attribuibile all’utilizzo di diverse tecniche di immunodosaggio, le quali differiscono nel grado di sensibilità. Risulta quindi necessario effettuare ulteriori indagini mediante uso di metodiche ultrasensibili e standardizzate tra i vari laboratori.

Un’ulteriore spiegazione per questa assenza di correlazione tra MA e livello di Ab1-42 nel plasma,

è data dal fatto che la frazione plasmatica non rifletta in maniera diretta i processi patologici che avvengono a livello cerebrale, ma sia in realtà espressione di una produzione primariamente periferica di tale peptide, dovuta ad una diversa processazione di APP (M. Chen, Inestrosa, Ross, & Fernandez, 1995). Infatti, è ormai noto che la MA non è limitata al SNC, ma si estende a livello sistemico e, inoltre, si può avere un’interazione tra il distretto cerebrale e la periferia. In particolare, secondo le ipotesi più recenti, il compartimento periferico potrebbe addirittura influenzare lo sviluppo e la progressione del danno neuronale: questo avverrebbe non solo a causa di una riduzione della capacità di clearance periferica di Ab, ma anche perché la quota generata a livello periferico può penetrare il SNC (J. Wang et al., 2017).

Tra i distretti periferici coinvolti in tale processo vi sono anche le cellule del sangue e in particolare i GR: questi, infatti, risultano implicati nella generazione, nel trasporto e nella

clearance di Ab. Potendo intervenire nel suo metabolismo in maniera attiva e potenzialmente

indipendente dai processi in atto a livello cerebrale, la concentrazione di Ab che ritroviamo al loro interno potrebbe non solo essere associata alla formazione cerebrale di placche amiloidi, ma anche costituire la manifestazione di un’alterazione del metabolismo dell’amiloide in senso

sistemico. Tale situazione potrebbe spiegare come mai nel nostro studio non abbiamo rilevato differenze tra il gruppo MA e i controlli.

Merita infine ricordare che in soggetti in età avanzata, inoltre, sono stati osservati livelli eritrocitari di Ab maggiori rispetto ad individui più giovani, e tale incremento può riflettere una modificazione del metabolismo di Ab direttamente associata all’età (Kiko et al., 2012).

Alcune analisi, inoltre, hanno riscontrato che nella MA i GR diminuiscono la loro capacità di legare Ab e di mediarne la clearance (Rogers et al., 2006) (S. H. Chen et al., 2017): in questo modo si produce un aumento della quantità di Ab presente nel circolo periferico e ciò ne ostacola l’eliminazione cerebrale. D’altra parte, la frazione di Ab presente nel plasma è capace, a sua volta, di esercitare un’azione tossica nei confronti dell’eritrocita, in quanto provoca un’alterazione sia delle funzioni fisiologiche sia del numero (che infatti nella MA risulta ridotto (J. Wang et al., 2017)); da questi processi deriva una compromissione del trasporto dell’ossigeno che si ripercuote a livello cerebrale, incrementando eventuali danni neuronali e sinaptici già presenti. In tal caso si verrebbe quindi a creare un circolo vizioso in cui Ab rappresenta una fonte di tossicità per l’eritrocita, e l’eritrocita stesso, danneggiato, è responsabile di un incremento del danno neuronale (Wojsiat et al., 2017).

In conclusione, in base ai dati attualmente presenti in letteratura e secondo quanto emerge da questo studio, la concentrazione di Ab1-42 nel sangue non risulta significativa nel discriminare i

pazienti affetti da MA dai CS.

Ad ogni modo, nonostante le concentrazioni eritrocitarie di Ab1-42 non costituiscano un

biomarcatore utile all’identificazione della MA, risulta evidente che i GR svolgono un ruolo attivo nel metabolismo di Ab e potenzialmente facilitante la neurodegenerazione.

Tuttavia, considerando che pazienti con MA, rispetto a soggetti sani, possiedono una quota considerevolmente maggiore di GR legati a fibrille di Ab (Lan et al., 2015), sarebbe necessario indagare ulteriormente la relazione tra questi aggregati, Ab1-42 e la MA.

Per quanto riguarda t-Tau, il presente studio mostra che le sue concentrazioni eritrocitarie nei pazienti affetti da MA sono quantitativamente comparabili a quelle riscontrate nei CS.

Questa proteina si ritrova principalmente associata ai microtubuli degli assoni corticali; le sue concentrazioni misurate nel LCR sono direttamente correlate a processi di degenerazione e di perdita neuronale corticale, i quali si sviluppano non solo nella MA, ma anche in altre patologie neurodegenerative (Jack et al., 2013). In particolare, nella MA, l’aumento della concentrazione di t-Tau nel LCR rappresenta uno dei biomarcatori liquorali attualmente richiesto per la diagnosi, nonostante la sua aspecificità (Blennow et al., 2010).

Alcuni autori hanno comparato la concentrazione plasmatica di t-Tau in una coorte di pazienti affetti da MA con demenza avanzata a un gruppo di controlli sani concordanti per età, dimostrando che, sebbene tale concentrazione risultasse più elevata nel gruppo MA rispetto ai controlli, tale differenza non era statisticamente significativa. Studi di follow-up hanno rivelato, inoltre, un’associazione significativa tra il livello plasmatico di t-Tau e un peggioramento nella cognitività, una atrofia ippocampale e un ipometabolismo corticale (Mattsson et al., 2016). Al contrario, altri studi hanno riscontrato una consistente associazione tra la MA e i livelli di t-Tau misurati nel plasma o nel siero, relazione che non è stata evidenziata invece nei controlli sani (Olsson et al., 2016).

In conclusione, in base ai dati attualmente disponibili, la misurazione di t-Tau a livello del sangue non rappresenta ancora un potenziale biomarcatore affidabile della MA. Il nostro studio conferma che i suoi livelli eritrocitari non mostrano differenze statisticamente significative tra il gruppo con MA e il gruppo di controllo. Tuttavia, considerando il legame tra t-Tau e la neurodegenerazione, potrebbe essere interessante andare a confrontare l’andamento della sua concentrazione eritrocitaria all’interno dello spettro delle malattie neurodegenerative e valutarne le eventuali differenze. Inoltre, saranno necessarie analisi di tipo longitudinale per stabilire se la concentrazione di t-Tau nel sangue possa fornire informazioni utili riguardo la progressione della malattia e possieda, quindi, un valore prognostico nella MA e in altri disturbi neurodegenerativi.

In relazione a quanto è emerso dal nostro studio, sebbene riguardo Ab1-42 e t-Tau non siano stati

raggiunti risultati significativi, quanto rilevato rispetto a t-a-syn, invece, si è dimostrato significativo nel discriminare le due popolazioni in esame.

a-syn rappresenta la principale componente dei corpi di Lewy. Tali reperti, sebbene costituiscano un elemento distintivo delle sinucleinopatie, sono stati riscontrati anche in pazienti affetti da MA a livello dell’amigdala, in oltre la metà dei casi analizzati (Hamilton, 2000). Tipicamente, a-syn si localizza nel citoplasma dei neuroni e delle cellule gliali, ma la sua presenza è stata ampiamente dimostrata anche nel LCR, nel plasma, nella saliva, negli eritrociti e in altri tessuti periferici (Atik et al., 2016). Nelle sinucleinopatie, d’altra parte, la misura della concentrazione di a-syn a livello del LCR e del plasma ha portato a risultati contrastanti e inconcludenti (Duran et al., 2010) (Visanji et al., 2017). Nel caso particolare di queste ultime analisi citate, è tuttavia importante aggiungere che l’inattendibilità e la variabilità di tali misurazioni sono dovute in gran parte alla contaminazione di questi fluidi biologici dovuta all’emolisi dei campioni, la quale produce una sovrastima della quantità di a-syn presente (Atik et al., 2016). Infatti, in condizioni normali, più del 99% dell’a-syn nel sangue si concentra all’interno dei GR (Barbour et al., 2008), i quali, dunque, rappresentano idealmente un ottimo substrato per studiare il ruolo patogenetico di questa proteina nelle malattie neurodegenerative. Studi condotti su pazienti affetti da MP hanno confermato l’ipotesi che il livello di a-syn nei GR costituisca un potenziale biomarcatore diagnostico della malattia. Nello specifico, alcuni dei risultati hanno dimostrato un aumento significativo della forma dimerica di a-syn, del rapporto tra la forma dimerica e quella monomerica (Papagiannakis et al., 2017) e del rapporto tra la forma oligomerica e t-a-syn (X. Wang et al., 2015). Per quanto riguarda la MA, dato il riscontro delle inclusioni intraneuronali di a-syn si è scelto di indirizzare la ricerca della stessa a livello del LCR e dei tessuti periferici. Sebbene il livello di a-syn liquorale in pazienti con MA si sia dimostrato significativamente maggiore rispetto a pazienti affetti da sinucleinopatie, i risultati sono stati complessivamente contrastanti (Z. Y. Wang et al., 2015). Pertanto, ci è sembrato utile andare a valutare la concentrazione eritrocitaria dell’a-syn anche nella MA.

Dal presente studio è emerso che t-a-syn è presente all’interno dell’eritrocita in concentrazioni significativamente ridotte nel gruppo dei pazienti con MA rispetto ai CS; inoltre, tale concentrazione permette di distinguere le due popolazioni con un’accuratezza diagnostica moderata. Si può ipotizzare che la riduzione della concentrazione periferica di t-a-syn sia associata ad un contemporaneo incremento della quota di a-syn presente sottoforma di dimeri

e oligomeri neurotossici o alla inclusione dell’a-syn stessa in eterocomplessi con altri composti proteici, tra cui potenzialmente anche Ab e Tau. Infatti, tramite questo studio siamo andati a misurare soltanto la forma monomerica di tale proteina: questo è dovuto al fatto che il kit di immunodosaggio utilizzato si avvale di un anticorpo diretto esclusivamente verso la forma monomerica di a-syn, in quanto risulta specifico per un epitopo che può presumibilmente essere mascherato nel momento in cui a-syn si lega ad altre proteine o si aggrega a se stessa (Wong & Krainc, 2017).

Un ulteriore aspetto che riteniamo significativo mettere in luce è la capacità di cui risulta dotata a-syn nel legarsi ai lipidi di membrana, alterandone la composizione e destabilizzandola. Conseguentemente, merita osservare che l’interazione stessa con una membrana danneggiata, aumenta la propensione di a-syn a oligomerizzare. L’alterazione dei lipidi della membrana dell’eritrocita rappresenta, infatti, uno degli elementi responsabili dell’aumento della concentrazione eritrocitaria di a-syn dimerica, la quale possiede una dimostrata capacità neurotossica (Papagiannakis et al., 2017). Un altro fattore che può causare cambiamenti a livello delle membrane dell’eritrocita, del resto, risulta essere proprio Ab: quest’ultima infatti, come già detto in precedenza, può provocare una perossidazione fosfolipidica attraverso l’innesco dello stress ossidativo a livello dell’eritrocita. Questo dato sottolinea ancora una volta come le alterazioni di specifiche proteine possano non solo coesistere, ma siano anche capaci di interagire in maniera complessa potenziando reciprocamente i propri meccanismi di danno. In conclusione, i risultati ottenuti consentono di ipotizzare che le modificazioni relative all’a- syn riscontrate a livello periferico riflettano meccanismi fisiopatologici neurodegenerativi cerebrali, sebbene non siano specifici per la malattia. Dunque si può affermare che misurare i livelli di t-a-syn all’interno dei globuli rossi potrebbe costituire un’utile metodica di screening nei pazienti con MA in fase iniziale.

È importante, ad ogni modo, tenere in considerazione la presenza di alcuni fattori limitanti lo studio: innanzitutto la ridotta numerosità del campione in analisi, che non consente di rendere generalizzabili tali conclusioni. In secondo luogo, la mancata inclusione di pazienti affetti da MCI e la natura cross-sectional dello studio, che non hanno permesso di esaminare il potenziale

valore prognostico dei biomarcatori. Futuri studi di tipo longitudinale che prendano in esame pazienti con un iniziale deterioramento cognitivo, potrebbero riuscire a valutare e monitorare il comportamento dei biomarcatori in quei pazienti che progrediscono a demenza e in quelli che invece rimangono stabili alla fase di MCI.

In merito alla popolazione studiata, bisogna osservare che è stata selezionata esclusivamente in base a criteri clinici: potrebbe essere interessante, dunque, effettuare studi analoghi andando però a reclutare i soggetti sulla base non solo dei dati clinici e neuropsicologici, ma anche dei biomarcatori liquorali e di imaging attualmente utilizzati (PET con tracciante amiloide e dosaggio liquorale delle proteine Ab1-42, t-Tau e p-Tau), correlandoli con il dosaggio dei

biomarcatori eritrocitari.

I criteri diagnostici utilizzati, inoltre, hanno selezionato unicamente pazienti affetti dalla tipica sindrome amnesica ippocampale, escludendo dunque pazienti con esordio clinico cognitivo atipico (le varianti posteriore, logopenica e frontale); rimane dunque da valutare se la presenza dei biomarcatori nei GR mostri variabilità a seconda dei differenti fenotipi clinici.

Per quanto riguarda le proteine implicate nella patogenesi, ne è stata dimostrata la capacità di organizzarsi in eterocomplessi: in particolare, a-syn sembra indurre la formazione di complessi potenzialmente patologici con altre proteine, tra le quali Ab e Tau (Wong & Krainc, 2017). Future ricerche potrebbero dunque essere direzionate a chiarire il ruolo che questi composti svolgono nel decorso della malattia.

Considerando, infine, l’esistenza di ulteriori biomarcatori implicati nella patogenesi dei disturbi neurodegenerativi, potrebbe rivelarsi utile stabilirne la concentrazione intra-eritrocitaria per poi compararla con quanto emerso dal nostro lavoro; tra questi biomarcatori vale la pena menzionare p-Tau (che riflette specificamente la presenza dei grovigli neurofibrillari), a-syn fosforilata (in quanto costituisce il 90% dell’a-syn insolubile all’interno dei corpi di Lewy) (Atik et al., 2016), le fibrille o gli aggregati di Ab (che si legano ad una quota di GR nettamente maggiore in pazienti con MA rispetto a controlli sani) (Lan et al., 2015) e infine la forma oligomerica dell’a-syn, il cui dosaggio intra-eritrocitario ha già fornito risultati significativi nella MP (X. Wang et al., 2015).

Per validare ed espandere tali risultati si rende dunque necessario effettuare ulteriori studi su un maggior numero di pazienti, prendendo in esame i diversi fenotipi clinici nei differenti stadi di malattia. Inoltre, è consigliabile indagare la correlazione tra questi biomarcatori eritrocitari e quelli fisiopatologici standard, unitamente alla ricerca di nuovi potenziali biomarcatori periferici. Queste indagini, nel complesso, potranno servire non solo per ottenere un’ulteriore conferma diagnostica e un’esplorazione di tipo prognostico, ma anche per fornire chiarimenti aggiuntivi riguardo i meccanismi patogenetici implicati nelle malattie neurodegenerative.

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