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Valore diagnostico dei marcatori periferici intra-eritrocitari Beta-amiloide, Tau e Alfa-sinucleina nella Malattia di Alzheimer iniziale

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(1)

V

ALORE DIAGNOSTICO DEI MARCATORI PERIFERICI

INTRA

-

ERITROCITARI

B

ETA

-

AMILOIDE

,

T

AU E

A

LFA

-

SINUCLEINA NELLA

M

ALATTIA DI

A

LZHEIMER INIZIALE

R

ELATORE

:

Chiar.mo Prof. Ubaldo Bonuccelli

C

ANDIDATO

:

Elena Casali

SCUOLA DI MEDICINA

DIPARTIMENTO DI RICERCA TRASLAZIONALE E DELLE NUOVE TECNOLOGIE IN MEDICINA E CHIRURGIA

C

ORSO DI

L

AUREA

M

AGISTRALE IN

M

EDICINA E

C

HIRURGIA TESI DI LAUREA MAGISTRALE

(2)
(3)

INDICE

1. RIASSUNTO………...7

2. MALATTIA DI ALZHEIMER………...11

.   Epidemiologia………...11

.   Eziologia e fattori di rischio ……….13

.   Neuropatologia e patogenesi ………...…….17

.   Quadro clinico e diagnosi………..…………...……24

.   Biomarcatori………...……...31

.   La MA come spettro di malattia neurodegenerativa……….37

.   Biomarcatori da sangue periferico………..……..39

3. OBIETTIVI………...42

4. MATERIALI E METODI………..43

.   Soggetti reclutati e disegno dello studio………...43

.   Prelievo di globuli rossi………44

.   Identificazione di Aβ 1–42………...……45 .   Identificazione di t-Tau………46 .   Identificazione di t-α-syn……….…46 .   Analisi statistica………...47 5. RISULTATI………..…48 .   Analisi descrittiva………..………...48 .   Risultati dell’immunodosaggio………48

.   Analisi della curva ROC………...49

6. DISCUSSIONE E CONCLUSIONI………51

7. BIBLIOGRAFIA………..59

8. FIGURE E TABELLE……….……89

(4)

ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI

ABCA7 ATP Binding Cassette sottofamiglia A membro 7 ADL Activities of Daily Living


AICD Amyloid precursor protein IntraCellular Domain AMS Atrofia Multi-Sistemica

APOE Apolipoproteina E


APP Amyloid Precursor Protein


AUROC Area Under Receiver Operating Characteristic

Aβ Peptide b-amiloide

Aβ1-40 Peptide b-amiloide di 40 aminoacidi


Aβ1-42 Peptide b-amiloide di 42 aminoacidi


BACE1 b-site Amyloid precursor protein Cleaving Enzyme 1 BIN1 Bridging Integrator 1

BSA Bovine Serum Albumin AAC Cerebral Amyloid Angiopathy

CD2AP Cluster of Differentiation 2-Associated Protein CD33 Cluster of Differentiation 33

CI Confidence Interval

CLU Clusterina

CR1 Complement Receptor type 1

CS Controlli Sani

C83/CTFa frammento C-terminale di 83 aminoacidi C99/CTFb frammento C-terminale di 99 aminoacidi

EDTA acido EtilenDiamminoTetraAcetico ELISA Enzyme-Linked Immunosorbent Assay DCB Degenerazione Cortico-Basale

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DNA DeoxyriboNucleic Acid

EOAD Early-Onset Alzheimer’s Disease FANS Farmaci Antiinfiammatori Non Steroidei

18

FDG 18-F-2-fluoro-2-desossi-D-glucosio FTD FrontoTemporal Dementia

GR Globuli Rossi

HD Huntington’s Disease

HIV Human Immunodeficiency Virus HRP Horseradish Peroxidas

IADL Instrumental Activities of Daily Living


IQ InterQuartile

IWG International Working Group LCR Liquido CefaloRachidiano
 LOAD Late-Onset Alzheimer’s Disease MA Malattia di Alzheimer

MCI Mild Cognitive Impairment


MCI-MD MCI- dominio multiplo MCI-SD MCI- dominio singolo

aMCI MCI amnesico

naMCI MCI non amnesico

MMSE Mini-Mental State Examination
 MND Motor Neuron Disease

MP Malattia di Parkinson

MS4A Membrane-Spanning 4-domain family, subfamily A NFTs NeuroFibrillary Tangles

NIA-AA National Institute on Aging - Alzheimer’s Association

NINCDS-ADRDA National Institute of Neurological and Communicative Disorders and Stroke and the Alzheimer’s Disease and Related Disorders Association

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NMDA N-metil-D-aspartato


NPI NeuroPsychiatric Inventory


OMS Organizzazione Mondiale della Sanità

PBS-T Phosphate Buffered Saline contenente 0.01% Tween 20 PET Positron Emission Tomography,

PiB 11

C-Pittsburgh compound B

PICALM Phosphatidylinositol binding clathrin assembly protein

PS Placche Senili

PSEN1 Presenilina 1 
 PSEN2 Presenilina 2 


p-Tau proteina tau fosforilata
 
 RM Risonanza Magnetica


ROC Receiver Operating Characteristic sAPPa Soluble amyloid precursor protein a sAPPβ Soluble amyloid precursor protein β SDS Sodio DodecilSolfato

SNC Sistema Nervoso Centrale SORL1 Sortilin Related Receptor 1 TMB 3,3’,5,5’ TetraMetilBenzidina TC Tomografia Computerizzata

TDP-43 Transactive-response DNA-binding Protein 43 kDa t-a-syn proteina a-sinucleina totale

t-Tau proteina tau totale

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1. RIASSUNTO

La Malattia di Alzheimer (MA) è il più comune disturbo neurodegenerativo e la principale causa di demenza nella popolazione di età avanzata. Rappresenta un fenomeno di grande impatto sociale ed economico, destinato ad aggravarsi in futuro a causa dell’incremento, nella popolazione generale, dell’aspettativa di vita e dell’età media.

La diagnosi di certezza di MA è autoptica e viene formulata sulla base della presenza combinata di anamnesi positiva di demenza e riscontro anatomopatologico cerebrale di placche di amiloide (proteina b-amiloide 42, Ab1-42) e di grovigli neurofibrillari (proteina tau fosforilata, p-Tau).

L’introduzione nella pratica clinica di biomarcatori dell’amiloide e della proteina tau in vivo (neuroimaging e analisi liquorali), direttamente correlati con il substrato fisiopatologico della MA, ha permesso un miglioramento dell’accuratezza diagnostica. Tali strumenti, integrati alla imprescindibile valutazione clinica neuropsicologica, non solo si rivelano di grande ausilio nella diagnosi di conferma della tipica sindrome amnesica della MA, ma, soprattutto, permettono di anticiparne la diagnosi già durante la fase prodromica (mild cognitive impairment) o addirittura preclinica (fase asintomatica) che precede l’esordio dei disturbi cognitivi. Inoltre i biomarcatori permettono di identificare forme clinicamente atipiche, cioè non amnesiche, quali la variante frontale, logopenica e posteriore.

Tuttavia, è importante sottolineare che la relazione tra gli elementi patogenetici e lo sviluppo della malattia non sembra possedere una causalità lineare così come presupposto dall’ipotesi amiloidogenica: è sempre più accreditata, invece, la teoria che sostiene la coesistenza di meccanismi patogenetici multipli, eterogenei e soprattutto condivisi con altri disturbi neurodegenerativi. In particolare, le malattie neurodegenerative sono caratterizzate da un

misfolding di multiple proteine, come Ab, Tau e a-sinucleina (a-syn), le quali si aggregano e si

accumulano in maniera anomala non solo a livello cerebrale, ma anche nei tessuti periferici; la capacità di tali proteine di interagire l’una con l’altra sembra rappresentare un ulteriore fattore di aggregazione, deposizione patologica e, non ultimo, variabilità fenotipica. Infine, il riscontro

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post-mortem di profili variabili e pleiomorfi di accumulo proteico intracerebrale rafforzerebbe

l'ipotesi dell’esistenza di uno spettro continuo tra le malattie neurodegenerative, compresa la MA; infatti, solo per citare un esempio, nelle analisi autoptiche, in circa un terzo dei pazienti affetti da MA, è possibile dimostrare a livello dell’amigdala la presenza di inclusioni intracellulari di a-syn, classicamente ritenuta patognomonica delle sinucleinopatie (in particolare della Malattia di Parkinson e della demenza con corpi di Lewy).

Ad oggi, il processo di valutazione di tali biomarcatori presenta alcune limitazioni di applicabilità, dovute ad invasività e costi; per questo motivo si tende a orientare la ricerca verso l’individuazione di biomarcatori a livello periferico, soprattutto al fine di promuovere uno screening di popolazione.

Alla luce della natura complessa della MA, emerge la necessità di strutturare l’approccio diagnostico su più livelli, e in questo scenario si muove la ricerca di biomarcatori periferici. La scoperta di biomarcatori diagnostici affidabili su sangue potenzialmente possiede tutte le caratteristiche di un’ideale metodica di screening, in quanto facilmente accessibile, riproducibile, economica e minimamente invasiva. La disponibilità di un adeguato test di screening per la MA e le altre malattie neurodegenerative permetterebbe di selezionare i pazienti che necessitano di sottoporsi a metodiche di secondo livello per una caratterizzazione biologica più specifica; lo scopo finale di questo processo diagnostico a tappe sarebbe quello di disegnare interventi terapeutici disease-modifying mirati e personalizzati. È stato dimostrato che le alterazioni del metabolismo proteico cerebrale e liquorale si riflettono nei tessuti periferici, in particolare nel sangue, grazie a un semplice processo di diffusione o per compromissione della barriera emato-encefalica. Recenti studi hanno dimostrato che i globuli rossi sono sensibili all’accumulo di proteine misfolded, probabilmente per un meccanismo di assorbimento cellulare dal fluido plasmatico. Inoltre, i globuli rossi contengono la quasi totalità dell’a-syn presente nel sangue e sono coinvolti nella produzione e nel catabolismo della proteina Ab; per questo possono rappresentare un sito privilegiato e un modello per lo studio dei processi neurodegenerativi.

Partendo da tali premesse, è stato disegnato il seguente studio cross-sectional, con lo scopo di misurare la concentrazione dei biomarcatori periferici Ab1-42, Tau totale (t-Tau) e t-a-syn

(9)

all’interno dei globuli rossi in una coorte di pazienti affetti da MA lieve e, conseguentemente, stabilire se questa misurazione possieda un potenziale valore diagnostico nel discriminare tali pazienti da un gruppo di controlli cognitivamente sani. Di ogni biomarcatore è stata quindi misurata la concentrazione eritrocitaria e indagata l’accuratezza diagnostica nel discriminare i due gruppi.

In particolare, sono stati reclutati 26 pazienti (11 donne e 15 uomini, età 70

±

8,71 anni) affetti da “MA probabile” prevalentemente amnesica (MA tipica), secondo i criteri diagnostici clinici del National Institute of Neurological and Communicative Disorders and Stroke; Alzheimer’s Disease and Related Disorders Association (NINDCS-ADRDA), con una severità di grado lieve, come stabilito in base al punteggio ottenuto al Mini-Mental State Examination (MMSE) (≥ 20/30). Parallelamente, sono stati arruolati 20 controlli cognitivamente integri (quattro donne e 16 uomini, età 68,05

±

5,93 anni). Il livello dei biomarcatori nei campioni di sangue è stato misurato utilizzando il saggio ELISA (Enzyme-Linked Immunosorbent Assay).

Le differenze nei valori dei biomarcatori riscontrate tra i due gruppi (controlli vs. pazienti affetti da MA) sono state studiate mediante il test non-parametrico di Mann-Whitney. Le differenze di sesso sono state studiate mediante il test del χ2

con correzione per la continuità o il test esatto di Fisher quando appropriato.

In primo luogo, è emerso che né la differenza di sesso né la differenza di età media tra il gruppo dei pazienti e il gruppo dei controlli sono risultate statisticamente significative. Per quanto riguarda i dati dell’immunodosaggio, né Ab1-42 né t-Tau hanno mostrato differenze

statisticamente significativa tra il gruppo MA e il gruppo di controllo; invece, la concentrazione eritrocitaria di t-a-syn, risulta significativamente inferiore nel gruppo dei pazienti affetti da MA rispetto al gruppo dei soggetti cognitivamente sani (mediana = 8,39 vs. 20,33 ng/mg, range IQ = 3,72-14,47 vs. 15,61-47,99 ng/mg; p = 0,001). Inoltre, i livelli di t-a-syn permettono di discriminare i due gruppi con un’accuratezza diagnostica moderata (AUROC = 0,78; IC = 0,63-0,92, 95%; p = 0,001).

In base a questi risultati, dunque, le concentrazioni eritrocitarie di Ab1-42 e di t-Tau non sembrano

rappresentare potenziali biomarcatori della MA. A questo proposito, studi analoghi effettuati su sangue hanno condotto a esiti contrastanti. Rimane comunque da tener presente il possibile

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coinvolgimento dei globuli rossi soprattutto nel metabolismo e nella clearance del peptide Ab con conseguenti potenziali ripercussioni a livello del sistema nervoso centrale. Saranno quindi necessarie ulteriore indagini mediante metodiche ultrasensibili e standardizzate tra più laboratori. Riguardo a t-a-syn, invece, si può ipotizzare che la riduzione della sua concentrazione periferica si associ a un incremento dei dimeri e degli oligomeri neurotossici di a-syn o alla formazione di eterocomplessi di a-syn con altre molecole, tra cui potenzialmente Ab e Tau. I risultati ottenuti suggeriscono, quindi, che modificazioni nella concentrazione di t-a-syn riscontrate a livello eritrocitario possano riflettere meccanismi fisiopatologici neurodegenerativi cerebrali, sebbene non sembrino specifici della MA.

In conclusione, mentre le concentrazioni eritrocitarie di Ab1-42 e di t-Tau non sembrano

possedere un valore diagnostico nella MA, quelle di t-a-syn consentono di discriminare il gruppo di pazienti con MA dal gruppo dei controlli con moderata accuratezza, e per tale motivo potrebbero costituire un potenziale biomarcatore diagnostico della MA in fase precoce di malattia. La misurazione dei livelli di t-a-syn all’interno dei globuli rossi potrebbe, in definitiva, risultare un’utile metodica di screening nei pazienti con MA in fase iniziale.

Il nostro studio presenta questi principali limiti: una ridotta numerosità del campione, la mancata inclusione di pazienti con mild cognitive impairment, e la natura cross-sectional della nostra indagine che non ci permette un’esplorazione prognostica dei biomarcatori. È necessario, dunque, effettuare ulteriori indagini in una coorte più ampia di pazienti, con un lungo periodo di follow-up e associarvi una correlazione con biomarcatori gold-standard di neuroimaging e liquorali (PET cerebrale con tracciante amiloide e dosaggio delle concentrazioni liquorali di Ab1-42, p-Tau e t-Tau), in modo tale da confermare ed espandere i nostri risultati. Future indagini,

inoltre, potrebbero essere rivolte alla ricerca di nuovi biomarcatori eritrocitari, da individuare in base alle alterazioni molecolari osservate nello spettro delle malattie neurodegenerative.

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2. LA MALATTIA DI ALZHEIMER

Epidemiologia

La demenza è una delle maggiori cause di disabilità e di dipendenza tra gli adulti in età avanzata; con questo termine si fa riferimento a diversi disturbi di natura per lo più progressiva che riguardano la memoria e le altre funzioni cognitive e comportamentali, e che interferisce significativamente con la capacità personale di svolgere le attività della vita quotidiana (World Health Organization, 2017). A livello mondiale sono stimate 44 milioni di persone affette, cifra che è destinata quasi a raddoppiare ogni 20 anni almeno fino al 2050. Il numero di nuovi casi ogni anno è di circa 7,7 milioni (Dening & Sandilyan, 2015). La forma più comune di demenza è la Malattia di Alzheimer (MA), che rappresenta da sola il 60-70% dei casi. Altre forme primarie neurodegenerative progressive croniche sono rappresentate dalla demenza con corpi di Lewy (DLB) (5-20%) e dalla demenza frontotemporale (FTD) (5-20%) nelle sue varie varianti: la variante comportamentale e l’afasia primaria progressiva, a sua volta distinta in una variante semantica e in una variante non fluente (Bang, Spina, & Miller, 2015) (Nowrangi, Rao, & Lyketsos, 2011). La demenza secondaria più diffusa è quella vascolare (20-40% di tutte le demenze). Data la frequente condivisione di aspetti clinici, fisiopatologici e di fattori di rischio, il confine tra le differenti tipologie di demenza rimane indefinito, e spesso vengono definite come forme miste (World Health Organization, 2017).

La MA è definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come una malattia neurodegenerativa a eziologia sconosciuta, caratterizzata da un deterioramento progressivo della memoria e delle altre funzioni cognitive come il linguaggio, le abilità visuo-spaziali, le funzioni esecutive e la capacità di giudizio (Niu, Alvarez-Alvarez, Guillen-Grima, & Aguinaga-Ontoso, 2017) (Auld, Kornecook, Bastianetto, & Quirion, 2002). Sebbene possa manifestarsi in ogni epoca della vita adulta, interessa principalmente soggetti a partire dalla sesta decade di età; in un numero relativamente esiguo di casi si può presentare prima o durante la quinta decade.

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La prevalenza della MA è intorno a 300/100000 nella popolazione compresa tra i 60 e i 69 anni, 3200/100000 tra i 70 e 79 anni e 10800/100000 tra gli individui con più di 80 anni (Samuels, Klein, & Ropper, 2014), mentre la prevalenza della demenza prima dei 50 anni è inferiore a 1 su 400, con circa il 30% dei casi attribuibili alla MA (Scheltens et al., 2016). Soltanto negli Stati Uniti 5,5 milioni di persone soffrono di questa malattia incurabile e devastante (Khan & Alkon, 2015).

L’incidenza della MA clinicamente diagnosticata aumenta con l’età: si contano approssimativamente 3 nuovi casi all’anno su 100000 soggetti al di sotto dei 60 anni e 125 nuovi casi su 100000 soggetti al di sopra dei 60 anni (Samuels et al., 2014). I risultati dello studio Framingham dei primi anni novanta mostrano che l’incidenza raddoppia ogni 5 anni fino all’età di 89 anni (Hickman, Faustin, & Wisniewski, 2016). Tuttavia, non è chiaro se l’incidenza continui a crescere anche in età maggiormente avanzate o se, ad un certo punto, raggiunga un

plateau, e ciò potrebbe essere rilevante anche dal punto di vista eziologico: da una parte, un

aumento sistematicamente esponenziale dell’incidenza con l’avanzare dell’età suggerirebbe che la MA sia un’inevitabile conseguenza dell’invecchiamento; dall’altra, una sua interruzione o un declino in un’età molto avanzata potrebbe suggerire che quest’ultima conferisca a tali soggetti una ridotta vulnerabilità, forse per influenza di fattori genetici o ambientali (Qiu, Kivipelto, & von Strauss, 2009). L’incidenza è generalmente maggiore in Nord America e in Europa rispetto alla maggior parte dei paesi economicamente meno sviluppati, tuttavia, un considerevole aumento di prevalenza è stato registrato in Cina, India e America Latina (Hickman et al., 2016). La prevalenza di MA varia a seconda del genere: circa due terzi di tutti i pazienti che ricevono la diagnosi sono donne. Sebbene la durata di vita della donna sia maggiore di quella dell’uomo, questo da solo non spiega tale discrepanza: anche fattori genetici, ormonali e sociali, verosimilmente, giocano un ruolo significativo.

Inoltre esistono dati epidemiologici riguardanti le differenze razziali: soggetti anziani di origine africana e ispanica hanno una prevalenza maggiore rispetto a soggetti anziani di origine caucasica, in parte per via di un livello medio di educazione inferiore e di una maggiore prevalenza di comorbilità cardiovascolari, sebbene possano intervenire anche fattori genetici o sociali (Apostolova, 2016).

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L’aspettativa media di vita dopo la diagnosi clinica di MA è approssimativamente di 7 anni, con solo il 3% di individui vivi dopo più di 14 di malattia (Khan & Alkon, 2015). L’aspettativa di vita dei pazienti con MA è ridotta, soprattutto per cause respiratorie e cardiovascolari e per l’inanizione, ma anche per altre ragioni non completamente chiarite (Samuels et al., 2014). Negli Stati Uniti, nel 2013 sono state registrati 84767 certificati di morte per MA, rendendola la sesta causa principale di morte o addirittura la quinta causa prendendo in esamine il sottogruppo di popolazione americana con età superiore a 65 anni. Comunque è probabile che il numero reale di decessi dovuti a MA sia, in generale, sottostimato (Alzheimer's, 2016).

Eziologia e fattori di rischio

La MA è una malattia multifattoriale, geneticamente complessa ed eterogenea, grossolanamente distinguibile in due diverse categorie: MA familiare o ad esordio precoce e MA sporadica o ad esordio tardivo (Khan & Alkon, 2015) Nonostante si differenzino per alcuni aspetti quali l’età di esordio, il ruolo della genetica, la presentazione clinica e il decorso, si suppone che queste due forme condividano meccanismi neuropatologici e biochimici simili.

MA ad esordio precoce:

Le forme familiari o ad esordio precoce (Early-Onset Alzheimer’s Disease, EOAD) interessano una minoranza della popolazione affetta da MA (2-10%), si manifestano quasi sempre prima dei 65 anni e hanno un decorso tendenzialmente più aggressivo con minore aspettativa di vita. Un 5-10% dei casi di EOAD e meno dell’1% del totale dei casi di MA, sono causati da mutazioni altamente penetranti che si trasmettono secondo un profilo di ereditarietà autosomico dominante e si localizzano a livello di tre geni: il gene della Presenilina-1 (PSEN1) sul cromosoma 14, il gene della Presenilina-2 (PSEN2) sul cromosoma 1 e il gene della Proteina Precursore dell’Amiloide (APP) sul cromosoma 21 (Mendiola-Precoma, Berumen, Padilla, & Garcia-Alcocer, 2016) (Van Cauwenberghe, Van Broeckhoven, & Sleegers, 2016). Queste mutazioni inducono un aumento della deposizione cerebrale di Aβ1–42, la forma patogena della proteina β-amiloide (Aβ) nonché principale componente patogenetica della malattia (vedi di seguito

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patogenesi) (Bird, 2005). Le mutazioni di PSEN1 sono la causa delle forme più frequenti e più severe di MA a penetranza completa e l’esordio può avvenire già a partire dai 25 anni di età; il decorso è rapidamente progressivo, con una sopravvivenza media di 6-7 anni. Le mutazioni nel gene PSEN2 sono invece meno frequenti, possono mostrare una penetranza incompleta, hanno una durata media di 11 anni e si manifestano più tardivamente (39-83 anni), nonostante l’età di esordio sia altamente variabile in entrambi i casi. Le preseniline sono proteine altamente omologhe che fanno parte del sito catalitico del complesso multiproteico della γ-secretasi, uno degli enzimi coinvolti nel processazione di APP: tali mutazioni conducono ad un incremento dell’attività della γ-secretasi, la quale genera, quindi, una quota maggiore di Aβ1–42. Sono state inoltre descritte numerose mutazioni del gene APP che inducono proteolisi di APP a favore di uno sbilanciato incremento della produzione di Aβ1–42 (Van Cauwenberghe et al., 2016) (Atwood & Bowen, 2015) (Seeley & Miller, 2013) (Frosch, Anthony, & De Girolami, 2010). Infine, anche i soggetti affetti da Sindrome di Down hanno una maggiore incidenza di MA ad esordio precoce: a partire dai 40 anni, si riscontrano infatti alterazioni morfostrutturali istopatologiche cerebrali caratteristiche della MA, e circa due terzi dei soggetti sviluppano demenza all’età di 60 anni. Si ritiene che l’iper-espressione del gene APP dovuta alla trisomia del cromosoma 21 ne sia, in effetti, la causa principale (Wiseman et al., 2015) (Hartley et al., 2015).

In definitiva, la dimostrazione della presenza di una di queste rare forme monogeniche rappresenta un elemento di per sé sufficiente per porre una diagnosi di MA, anche in assenza della relativa sintomatologia; questa fase è stata definita “MA presintomatica” in quanto, nel corso degli anni, il paziente progredirà inevitabilmente alla fase clinicamente conclamata della malattia (Dubois et al., 2010; Dubois et al., 2014).

MA ad esordio tardivo:

In oltre il 95% dei casi la MA ha carattere sporadico con esordio tardivo (Late-Onset Alzheimer’s Disease, LOAD), cioè dopo i 65 anni di età (Mendiola-Precoma et al., 2016), e si manifesta come risultato finale di una combinazione di fattori genetici e ambientali, che vanno a sommarsi ai meccanismi di invecchiamento cerebrale (Bird, 2005). Sebbene i sintomi della malattia siano frequentemente diagnosticati in un’età avanzata, il processo di

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neurodegenerazione ha inizio, tuttavia, probabilmente molti anni prima rispetto all’esordio clinico (Anoop, Singh, Jacob, & Maji, 2010).

Inoltre, anche nella forma sporadica esiste una chiara componente genetica, come dimostrato dal fatto che una storia familiare positiva per MA si associa sempre a un aumento della sua incidenza, con un rischio di due volte maggiore per i parenti di primo grado del familiare affetto (Khan & Alkon, 2015). Tale rischio aumenta non solo in presenza di familiarità per MA, ma anche per malattia di Parkinson (MP), suggerendo una possibile eziologia comune (Hofman et al., 1989). Inoltre, studi di genome-wide association hanno identificato numerosi polimorfismi genetici connessi con un aumento del rischio di MA sporadica, suggerendo alcuni possibili percorsi fisiopatologici implicati nella malattia. Tra questi troviamo TREM2, CR1, CD33 e MS4A coinvolti nell’infiammazione e nella risposta immunitaria; SORL1, PICALM, BIN1 e CD2AP nel riciclo delle vescicole endosomali; CLU e ABCA7 nel metabolismo del colesterolo e dei lipidi (Van Cauwenberghe et al., 2016) (Mendiola-Precoma et al., 2016).

Il più importante fattore di rischio genetico resta comunque il polimorfismo dell’allele ε4 del gene APOE collocato sul cromosoma 19 (Mandell & Green, 2011); tale polimorfismo aumenta il rischio sia nella forma familiare che in quella sporadica, ma non è tuttavia necessario né sufficiente a causare la MA, come è dimostrato dal fatto che fino al 75% dei portatori non sviluppano MA durante la vita, e fino al 50% delle persone affette da MA non possiedono tale variante allelica. APOE codifica per una glicoproteina espressa in diverse sedi e con svariate funzioni (Van Cauwenberghe et al., 2016). È stato proposto che APOE, interagendo in qualche modo con APP o con la proteina tau, modifichi la formazione delle placche amiloidi (Ropper, Samuels, & Klein, 2014). Il gene APOE contiene tre principali varianti alleliche (ε2, ε3, ε4), che codificano per tre differenti isoforme (APOE-ε2, APOE-ε3, APOE-ε4) (Van Cauwenberghe et al., 2016). APOE-ε3 è la variante più comune, presente in circa il 60% della popolazione e non viene considerata un fattore di rischio per la MA. L’eterozigosi APOE-ε4/-ε3 o l’omozigosi APOE-ε4 conferiscono invece un rischio elevato: rispettivamente di 3 volte e di 8-25 volte più alto. APOE-ε4 viene identificato approssimativamente nel 40% dei casi di MA e tendenzialmente si associa con un’età di esordio più precoce (Hickman et al., 2016). Si pensa che l’allele APOE-ε2 abbia invece un ruolo protettivo e ritardante l’età di esordio della malattia (Van Cauwenberghe et al., 2016).

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Esistono anche diversi fattori ambientali modificabili associati a MA, alcuni dei quali potrebbero intervenire già in età precoce o interagire con i fattori genetici, innescando meccanismi di amplificazione di un presunto danno iniziale, con conseguente perdita funzionale e strutturale progressiva delle cellule nervose.

Multipli fattori di rischio vascolari, in particolare ipercolesterolemia (Solomon et al., 2007) ipertensione arteriosa, diabete mellito di tipo 2 e una storia di pregresso ictus sono stati associati sia con un aumento dell’insorgenza, sia con una più rapida progressione della MA (Lorius et al., 2015), sebbene con risultati contrastanti (Silvestrini et al., 2012). Ulteriori fattori di rischio vascolare, che potrebbero presumibilmente giocare un ruolo nella genesi della malattia, sono l’iperomocisteinemia (Zhuo, Wang, & Pratico, 2011), elevate concentrazioni di acidi grassi saturi, presenza di malattia aterosclerotica e fibrillazione atriale (Luchsinger & Mayeux, 2007). Per quanto riguarda il rischio associato al fumo di sigaretta, dagli studi caso-controllo risultano discrepanze, in quanto alcuni ritengono che ne provochi un aumento (Reitz, den Heijer, van Duijn, Hofman, & Breteler, 2007) (Swan & Lessov-Schlaggar, 2007) mentre altri addirittura una diminuzione (Ott et al., 1998) (Launer, Feskens, Kalmijn, & Kromhout, 1996).

In merito al peso corporeo è stato documentato che sia l’obesità durante la mezza età (Kivipelto et al., 2005), che una riduzione eccessiva di peso, aumentano il rischio, oltre a essere quest’ultima anche una manifestazione della malattia stessa (Gillette-Guyonnet et al., 2000). Dati sempre più consistenti suggeriscono un’associazione tra patogenesi della MA e altre demenze con le alterazioni endocrine, quali insulino-resistenza (Craft, 2006), elevate concentrazioni plasmatiche di cortisolo (Csernansky et al., 2006), bassi livelli di estrogeni (Shumaker et al., 2003) e disfunzione tiroidea (Tan et al., 2008).

Ulteriori fattori, sembrano essere anche un ridotto livello di scolarizzazione (Ngandu et al., 2007) e i traumi cranici (Guo et al., 2000). Nel primo caso si ipotizza l’esistenza di una proporzionalità diretta tra scolarizzazione e numero di sinapsi corticali, per cui soggetti che possiedono una scolarizzazione maggiore avrebbero una riserva biologica più consistente e un conseguente ritardo nella comparsa di un’eventuale demenza. I traumi cranici invece, attraverso meccanismi non del tutto chiariti, favorirebbero la deposizione e l’accumulo di Aβ a livello cerebrale (Loeb & Tabaton, 2003).

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L’esposizione a numerosi altri fattori ambientali, tra cui alluminio, mercurio e virus, sono stati proposti come concause di MA, ma non è tuttavia dimostrato che giochino realmente un ruolo significativo (Seeley & Miller, 2013).

Tra i possibili fattori protettivi ci sono invece, oltre al già citato allele ε2, una dieta ricca di antiossidanti (Qin et al., 2006), un consumo moderato di alcol, specialmente di vino rosso (Luchsinger & Mayeux, 2004), l’attività fisica (Boyle, Buchman, Wilson, Leurgans, & Bennett, 2009) e mentale (Wilson, Scherr, Schneider, Tang, & Bennett, 2007), l’utilizzo cronico di farmaci anti infiammatori non steroidei (FANS) (Seeley & Miller, 2013), nonostante siano comunque necessarie ulteriori ricerche per stabilire l’effettivo ruolo preventivo.

Neuropatologia e patogenesi

Macroscopicamente, l’encefalo di un paziente affetto da MA mostra un grado variabile di atrofia corticale, maggiormente evidente a livello dei lobi frontale, temporale e parietale. L’atrofia si distribuisce in maniera generalmente diffusa e simmetrica, e si accompagna ad un ampliamento dei solchi cerebrali, un assottigliamento delle circonvoluzioni e ad un aumento compensatorio delle cavità ventricolari. A livello temporale mediale, le regioni coinvolte più precocemente sono l’ippocampo, la corteccia entorinale e l’amigdala: tali sedi, nelle fasi avanzate, sono solite andare incontro ad un grado severo di atrofizzazione (Frosch et al., 2010; Mandell & Green, 2011).

L’atrofia è dovuta in particolare alla degenerazione neuronale, la quale inizia con un coinvolgimento delle connessioni sinaptiche e si conclude con la morte della cellula per apoptosi. Questa rarefazione neuronale e sinaptica colpisce anche alcune sedi sottocorticali che proiettano diffusamente alla corteccia, come il locus coeruleus, il nucleo dorsale del rafe e le strutture colinergiche del tronco encefalico (nucleo basale di Meynert, nucleo del setto mediale, nucleo della banda diagonale di Broca); la degenerazione di questi nuclei a proiezione corticale diffusa contribuisce alla riduzione dei livelli di alcuni neurotrasmettitori, tra cui l’acetilcolina, la noradrenalina e la serotonina (Ropper et al., 2014) (Loeb & Tabaton, 2003). Una

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modificazione si ha anche nel sistema del neurotrasmettitoriale glutammatergico: i suoi recettori NMDA (N-metil-D-aspartato), infatti, sembrano essere sottoposti ad un’attivazione lenta ma costante. Questa disregolazione andrebbe a perpetuare il danno neuronale e la disfunzione sinaptica, in quanto l’attivazione recettoriale continuativa porta ad un afflusso di calcio costante all’interno del neurone, con alterazione dei sistemi di trasduzione del segnale ed effetto citotossico (Danysz, Parsons, Mobius, Stoffler, & Quack, 2000) (Francis, 2003). La presenza di modificazioni dell’assetto dei neurotrasmettitori e, in particolare, di un più chiaro deficit colinergico, continua a costituire il razionale di molte terapie. Tuttavia, il deficit colinergico rappresenta uno degli stadi più avanzati, se non finali, di un processo la cui origine è verosimilmente determinata dal convergere di più fattori (Terry & Buccafusco, 2003).

Le caratteristiche più rilevanti dal punto di vista microscopico sono le placche senili, i grovigli neurofibrillari e l’angiopatia amiloide cerebrale: si tratta di reperti fortemente suggestivi di MA, sebbene non siano patognomonici. Poiché non è insolito riscontrarli anche in individui affetti da altre demenze o in anziani apparentemente sani dal punto di vista cognitivo, la diagnosi di MA si basa sulla combinazione di caratteristiche patologiche e sintomi clinici.

- Le placche senili o neuritiche o amiloidi (amyloid plaques, PS) sono depositi sferoidali extracellulari, costituiti da un nucleo centrale di amiloide, circondato da un alone di processi neuronali distrofici; alla loro periferia si localizzano cellule della microglia e astrociti reattivi. Il nucleo di amiloide contiene varie proteine alterate, tra cui proteoglicani, APOE-ε4 e α1-antichimotripsina, ma il principale componente è il peptide Aβ. Aβ è una proteina di 39-43 aminoacidi normalmente espressa in forma solubile nel plasma e nel liquido cefalorachidiano (LCR). Depositi di Aβ, perlopiù la forma Aβ

1-42, si ritrovano anche in assenza di reazione

astrocitaria e microgliare circostante: in tal caso vengono definite placche diffuse, una forma alternativa di placca senile che sembra rappresentare uno stadio precoce dello sviluppo delle placche neuritiche. Le placche senili si distribuiscono primariamente nell’ippocampo, nell’amigdala e nella neocorteccia, così come nella base del prosencefalo, nella sostanza nera, nel nucleo del rafe e nel locus coeruleus, risparmiando solitamente le aree motorie e sensitive primarie.

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- I grovigli neurofibrillari (neurofibrillary tangles, NFTs) sono agglomerati intracellulari argentofili che si localizzano nel citoplasma dei neuroni, in modo tale da circondare (e talvolta dislocare) il nucleo. Tali aggregati sono composti soprattutto da filamenti a doppia elica, a loro volta costituiti da un’isoforma iperfosforilata di Tau (p-Tau): si tratta di una proteina stabilizzante i microtubuli che svolge un importante ruolo nel trasporto assonale e contribuisce tanto alla stabilità quanto alla plasticità sinaptica. Lo stato di iperfosforilazione interferisce con la sua funzione, in particolare destabilizzando i microtubuli. Tali modifiche conducono ad un accumulo di p-Tau e a una sua aggregazione all’interno dei corpi neuronali e dei dendriti, sottoforma di grovigli neurofibrillari. I grovigli alterano la funzionalità dei neuroni, ed essendo i principali responsabili della morte neuronale, sono anche gli elementi che meglio correlano con la severità del deterioramento cognitivo.I grovigli si distribuiscono in maniera sistematica, progredendo dalla corteccia entorinale verso l’ippocampo, l’amigdala e la neocorteccia temporale, raggiungendo, quindi, le aree corticali parietali associative e risparmiando invece le aree primarie (Frosch et al., 2010) (Ropper et al., 2014) (Mandell & Green, 2011) (Varadarajan, Yatin, Aksenova, & Butterfield, 2000) (Sanes & Jessell, 2015) .

- Per angiopatia amiloide cerebrale (CAA) si intende un accumulo di Aβ (principalmente Aβ 1-40) nello spessore della parete delle arteriole corticali e leptomeningee; è un reperto che si osserva

quasi costantemente nei pazienti affetti da MA, ma riscontrabile anche in soggetti anziani cognitivamente sani. Alcune evidenze sperimentali suggeriscono che l’età e malattie cerebrovascolari, così come la presenza dell’allele ε4, possano interferire con l’eliminazione di Aβ dal liquido interstiziale perivascolare, portando alla deposizione di quest’ultima all’interno delle pareti vasali. È più pronunciata a livello parieto-occipitale posteriore e in minor misura a livello del lobo temporale, ma né la sua distribuzione, né la sua severità hanno dimostrato una significativa relazione con la gravità o la durata della malattia. Studi recenti hanno evidenziato come la CAA possa svolgere un ruolo indipendente dalla MA nel determinare il decadimento cognitivo. Una complicanza comune della CAA sono infatti le microemorragie e le emorragie spontanee intracerebrali lobari, condizione che si presenta più spesso nei portatori dell’allele ε2, mentre ε4 si associa maggiormente con una forma di CAA non emorragica (Banerjee et al., 2017) (Mandell & Green, 2011).

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In molti casi sono riscontrabili ulteriori alterazioni microscopiche meno specifiche della MA, quali cambiamenti a livello della sostanza bianca, degenerazione granulo-vacuolare e aggregati di altre proteine come corpi di Lewy, corpi di Hirano immunoreattivi di actina e inclusioni immunoreattive costituite da TDP-43 (TAR DNA-binding protein 43) (Frosch et al., 2010) (Hyman et al., 2012).

Secondo l’ipotesi della cascata dell’amiloide l’accumulo cerebrale anomalo e progressivo del peptide Aβ rappresenta il primum movens e l’evento patogenetico centrale della MA; secondo tale teoria tutti gli altri elementi patogenetici, come i grovigli neurofibrillari, lo stress ossidativo, il danno vascolare e la morte neuronale, avrebbero dunque un ruolo secondario e facilitante tale accumulo, o ne rappresenterebbero addirittura un epifenomeno (Beyreuther & Masters, 1991) (J. Hardy & Allsop, 1991) (J. A. Hardy & Higgins, 1992) (Selkoe, 1991).

La proteina Aβ viene prodotta fisiologicamente dal metabolismo della APP, una lunga proteina transmembrana tipicamente espressa nei neuroni, ma anche in cellule non nervose (Sanes & Jessell, 2015) Tale proteina svolge importanti funzioni fisiologiche che riguardano lo sviluppo cerebrale, la plasticità sinaptica e la neuroprotezione (Muller, Deller, & Korte, 2017). Il precursore della amiloide può essere processato secondo due vie enzimatiche, di cui una conduce alla produzione di amiloide (vedi appendice 1). Nella via non amiloidogenica, APP subisce una proteolisi combinata e sequenziale ad opera degli enzimi α- e γ-secretasi. Nello specifico, l’α-secretasi esegue un taglio a livello della sequenza Aβ, rilasciando nelle immediate circostanze il dominio amino (N)- terminale extracellulare solubile di APP (sAPPα), mentre il dominio citoplasmatico carbossi (C)-terminale (C83 o CTFa) rimane ancorato alla membrana; il successivo clivaggio di quest’ultimo realizzato tramite la γ-secretasi genera il dominio intracellulare di APP (AICD) e un frammento sottile denominato 3p, il quale non sembra svolgere alcun ruolo nella formazione delle placche né nella tossicità neuronale (Yates & McLoughlin, 2008). Stessa cosa vale per il frammento sAPPa, il quale sembra addirittura possedere un effetto neuroprotettivo (Mockett, Richter, Abraham, & Muller, 2017).

Nella seconda via, denominata via amiloidogenica, il clivaggio di APP viene effettuato dalla β-secretasi (BACE1) anziché dall’α-β-secretasi, dando origine ad una variante più corta del dominio solubile extracellulare (sAPPβ); infine, il rimanente dominio citoplasmatico C99 (o CTFb)

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subisce un clivaggio ad opera della γ-secretasi, la quale, a seconda del sito in cui agisce, porta alla produzione di due frammenti di differente lunghezza: si tratta di Aβ

1-40 o di Aβ1-42, costituiti

rispettivamente da 40 e 42 aminoacidi. Sebbene Aβ

1-40 sia la forma maggiormente prodotta

(10:1), è Aβ

1-42 che possiede una maggior tendenza all’aggregazione, caratteristica conferitale

dalla presenza di due addizionali aminoacidi idrofobici a livello dell’estremità C-terminale (Spies et al., 2010) (Yates & McLoughlin, 2008). Fisiologicamente e grazie a meccanismi non del tutto noti, la quota di Aβ prodotta viene poi rapidamente degradata da alcune proteasi (la neprisilina, l’enzima convertente l’endotelina e l’enzima degradante l’insulina); in seguito viene eliminata dagli spazi extracellulari cerebrali (Duyckaerts, Delatour, & Potier, 2009), risultando praticamente assente nel cervello dei soggetti sani.

Secondo l’ipotesi dell’amiloide, a causa di un disequilibrio tra produzione e degradazione, si ha un aumento del rapporto tra Aβ

1-42 e Aβ1-40. Questo aumento relativo di Aβ1-42 predispone al

passaggio da una forma monomerica e solubile ad una conformazione a β-foglietto, che la rende propensa all’aggregazione; dapprima si organizza in oligomeri solubili e in seguito in più grandi fibrille insolubili, le quali si ritrovano nel nucleo delle placche amiloidi (Blennow, de Leon, & Zetterberg, 2006) (Haass & Selkoe, 2007). Negli ultimi decenni, numerosi studi hanno mostrato come gli oligomeri solubili di Aβ

1-42 possano alterare direttamente le sinapsi, sia da un punto di

vista funzionale (il meccanismo di long-term potentiation), che strutturale (danneggiando le spine dendritiche) (Shankar et al., 2008). Altri studi hanno suggerito che il sequestro di Aβ nella forma fibrillare possa addirittura funzionare come meccanismo di protezione nei confronti di tale specie tossica oligomerica (Selkoe, 2002) (Lee et al., 2004). La neurotossicità di Aβ si esprime anche indirettamente, tramite l’attivazione della microglia e degli astrociti: queste cellule cominciano a produrre e a secernere una varietà di citochine, specie reattive dell’ossigeno e proteine di fase acuta, scatenando un processo di neuroinfiammazione e stress ossidativo che potenzia la degenerazione neuronale e che coinvolge anche i neuroni adiacenti. Parallelamente, l’alterata omeostasi ionica indotta dall’interazione di Aβ con la membrana neuronale, sommata allo stress ossidativo, conducono all’iperfosforilazione di Tau, mediante attivazione di chinasi o inattivazione di fosfatasi; p-Tau provoca la depolimerizzazione dei microtubuli e la formazione dei grovigli neurofibrillari. La compromissione del trasporto assonale dovuta a Tau,

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sommata al danno sinaptico indotto da Aβ, conducono alla selettiva perdita di neuroni e, in ultima analisi, allo sviluppo della demenza (Haass & Selkoe, 2007; Walsh & Selkoe, 2007). Esistono correntemente molti dati a sostegno dell’ipotesi della cascata amiloide. Innanzitutto i quattro geni tradizionalmente associati alla MA portano tutti ad un aumento della produzione (APP, PSEN1, PSEN2) o ad una riduzione della clearance (APOE4) di Aβ1-42 a livello cerebrale.

È stato dimostrato che tale deposito precede l’insorgenza clinica della MA e che il livello di Aβ correla con il grado di compromissione cognitiva. Inoltre, nei pazienti con Sindrome di Down, l’iperproduzione di amiloide inizia alla nascita, e il suo accumulo avviene già a partire dai 12 anni, ovvero molto prima che sviluppino i grovigli e le altre lesioni. Infine, la sperimentazione clinica di tre differenti anticorpi monoclonali specifici per Aβ(solanezumab, crenezumab e aducanumab) (Doody et al., 2014), ha mostrato un rallentamento del declino cognitivo, sebbene solo in analisi post hoc, di pazienti con MA lieve (ma non moderata) (Selkoe & Hardy, 2016) (Mandell & Green, 2011).

Nonostante, ad oggi, la cascata amiloide rappresenti la teoria patogenetica più consolidata e condivisa, non è tuttavia sufficiente a spiegare da sola la natura patogeneticamente complessa ed eterogenea della MA; perciò, col tempo, sono state proposte altre ipotesi, le quali in parte si dissociano e in parte si integrano alla teoria amiloidogenica (Scheltens et al., 2016).

Una teoria alternativa è quella che vede come punto di partenza l’iperfosforilazione di Tau e la formazione dei grovigli neurofibrillari. Nella MA, la tipologia e la severità dei sintomi rispecchiano maggiormente il numero e la distribuzione sia spaziale che temporale dei grovigli piuttosto che delle placche (Musiek & Holtzman, 2015). La capacità di Tau di indurre neurodegenerazione, indipendentemente da un precedente intervento di Aβ, è dimostrata dal fatto che, nella FTD, si possono identificare mutazioni nel gene codificante per Tau e grovigli neurofibrillari, in assenza di placche amiloidi. Tuttavia, alcuni elementi si contrappongono a tale teoria, come il fatto che l’accumulo di Aβ sia in realtà temporalmente antecedente rispetto alla comparsa dei grovigli neurofibrillari, i quali, tramite diversi esperimenti di laboratorio (Jin et al., 2011) (Lewis et al., 2001), non si sono dimostrati capaci di innescare la deposizione di amiloide. Non è comunque da escludere che Tau e Aβ agiscano in parallelo nella patogenesi della MA, incrementando reciprocamente i propri effetti deleteri (S. A. Small & Duff, 2008), o

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che siano addirittura effetti di un meccanismo eziopatogenetico a monte non ancora identificato (Hyman et al., 2012).

Inoltre, indipendentemente da quale sia l’elemento patogenetico primario, è stato progressivamente riconosciuto, nel corso degli anni, il ruolo dello stress ossidativo nella patogenesi della MA. Nonostante l’invecchiamento rappresenti un fattore che di per sé aumenta sia la predisposizione che la vulnerabilità allo stress ossidativo, è stato osservato che pazienti affetti da MA mostrano livelli cerebrali di ossidazione nettamente maggiori rispetto alla popolazione anziana sana. Inoltre, un aumento della produzione dei radicali liberi dell’ossigeno e del danno ossidativo a carico del DNA, si rileva anche in soggetti affetti da una forma iniziale e non conclamata di declino cognitivo: questa evidenza sottolinea il carattere precoce con cui lo stress ossidativo interviene nella patogenesi, e quindi il potenziale beneficio che potrebbe derivare da una terapia antiossidante, la quale finora ha tuttavia dimostrato risultati poco incoraggianti (Pratico, 2005) (Padurariu et al., 2013)

Infine rimane da evidenziare che, così come accade in altre malattie neurodegenerative, è stato ipotizzato che le alterazioni tipiche della MA possano diffondersi da neurone a neurone secondo un meccanismo simil-prionico (o prion-like). Infatti, anche nella MA, analogamente a quanto avviene nelle malattie prioniche, vi sono proteine (Aβ, Tau, oppure entrambe) che modificano patologicamente la propria conformazione, inducendo a loro volta altre proteine normali ad assumere una conformazione tossica, spiegando in tal modo la progressione spaziale e temporale della malattia all’interno del sistema nervoso centrale (SNC) (Jucker & Walker, 2013). Rimane comunque da chiarire se tale processo non sia dovuto a una maggiore vulnerabilità neuronale in alcune regioni cerebrali, piuttosto che ad un vero e proprio processo fisico di diffusione (Selkoe & Hardy, 2016).

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Clinica e diagnosi

Nel 1906, in Germania, Alois Alzheimer riportò il primo caso della malattia che riceverà il suo nome: si tratta di Auguste Deter, una donna che all’età di 51 anni iniziò a manifestare un progressivo cambiamento nella personalità caratterizzato da un’intensa gelosia verso il marito, un rapido deterioramento della memoria e una notevole compromissione psicosociale. La donna appariva confusa e disorientata a livello spazio-temporale e nel corso del tempo il suo stato generale peggiorò, il linguaggio si rivelò sempre più incomprensibile, fino a diventare completamente apatica e costretta quasi costantemente a letto nell’ultimo anno di vita. Dopo la morte della donna, avvenuta per setticemia dopo 5 anni dall’esordio dei sintomi, Alzheimer ne analizzò il tessuto cerebrale individuando le peculiari caratteristiche istopatologiche che ancora oggi contraddistinguono la MA: marcata perdita neuronale e presenza di placche amiloidi e di grovigli neurofibrillari. Per lungo tempo, la malattia di Alzheimer fu considerata una rara demenza pre-senile distinta dalla più comune demenza senile, considerata invece un’accelerazione dei fisiologici meccanismi di invecchiamento. Solo negli anni Settanta una serie di studi dimostrarono che la demenza pre-senile di Alzheimer e la demenza senile possedevano una sintomatologia e un substrato anatomopatologico analoghi, per cui, attualmente, si ritiene che esista un’unica entità nosologica, denominata “demenza tipo Alzheimer” (Cipriani, Dolciotti, Picchi, & Bonuccelli, 2011) (Loeb & Tabaton, 2003).

La MA si manifesta clinicamente con un deterioramento progressivo delle capacità cognitive e con la comparsa di disturbi del comportamento e dell’affettività, che portano inesorabilmente il malato all’impossibilità di mantenere rapporti congrui con l’ambiente circostante e ad una perdita dell’autonomia funzionale e strumentale (J. L. Cummings, 2004).

È caratterizza da un esordio insidioso, una progressione graduale e un esito inevitabilmente fatale che sopraggiunge mediamente dopo 8-10 anni dalla comparsa dei sintomi, con un intervallo di variabilità che va da 1 a 25 anni (Seeley & Miller, 2013); la sopravvivenza media dopo la diagnosi riflette l’età avanzata della popolazione affetta piuttosto che il reale decorso della malattia (American Psychiatric Association, 2013). Data la natura subdola e insidiosa della sua comparsa, il deficit cognitivo viene spesso inizialmente misconosciuto e attribuito ai fisiologici cambiamenti determinati dall’età, per cui spesso, a posteriori, le prime manifestazioni

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di malattia vengono fatte risalire anche a 3-4 anni prima (Loeb & Tabaton, 2003).

La diagnosi di MA rappresenta la tappa finale di un percorso che parte da scrupolosa raccolta dei dati anamnestici sia dal paziente stesso che dal caregiver, passa per un’attenta valutazione clinica e neuropsicologica supportata da accertamenti laboratoristico-strumentali e, tramite l’imprescindibile esclusione di altre cause di demenza, conduce alla determinazione di un livello probabilistico di conferma (Ropper et al., 2014); nonostante ancora oggi si possa giungere alla diagnosi definitiva soltanto attraverso un riscontro istopatologico cerebrale, ovviamente inattuabile in vivo (Sanes & Jessell, 2015), il grado di incertezza diagnostica è andato progressivamente diminuendo grazie ad una miglior definizione del quadro clinico supportata dall’utilizzo dei biomarcatori (Dubois et al., 2010).

L’elemento clinico principale è rappresentato da una precoce, predominante e ingravescente compromissione della memoria, che all’inizio riguarda soprattutto la memoria episodica e si esprime come una difficoltà a richiamare fatti specifici soprattutto se appresi di recente, e incapacità di acquisire nuove informazioni (Tromp, Dufour, Lithfous, Pebayle, & Despres, 2015); viene anche chiamata sindrome amnesica di tipo ippocampale, in quanto si associa ad una riduzione del volume dell’ippocampo visibile alla RM (Sarazin et al., 2010).
Precoce è anche il coinvolgimento della memoria prospettica, con tendenza a dimenticare appuntamenti, eventi o compiti futuri (Huppert & Beardsall, 1993). La memoria semantica e autobiografica vengono, invece, relativamente conservate fino alle fasi successive (Cambier, Masson, Masson, & Dehen, 2012), così come la memoria procedurale (American Psychiatric Association, 2013). Alle turbe mnesiche, si accompagnano o seguono i disturbi nelle altre sfere cognitive (Dubois et al., 2007). È tipico il deficit del linguaggio, che coinvolge progressivamente la denominazione, la comprensione e la fluenza verbale, mentre le abilità fonologiche e sintattiche sono in genere relativamente preservate. La natura di questo deficit non è chiara ma potrebbe essere una conseguenza della perdita della memoria semantica e/o di una disfunzione esecutiva. Il paziente può presentare anomie durante l’eloquio spontaneo, difficoltà nel reperire le parole, con conseguente ricorso a parafasie (soprattutto di tipo semantico) e circonlocuzioni. Si ha un impoverimento del linguaggio, che diventa sempre più stereotipato e inflessibile, e alterato

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anche sul piano della comprensione e della produzione scritta, con disgrafia e dislessia ingravescenti. In uno stadio avanzato e severo la comprensione è limitata ai comandi semplici e il linguaggio può essere ristretto a palilalia, ecolalia e stereotipie verbali, fino al mutismo terminale (Taler & Phillips, 2008) (Pena-Casanova, Sanchez-Benavides, de Sola, Manero-Borras, & Casals-Coll, 2012) (Ferris & Farlow, 2013).

Le abilità matematiche soffrono di un simile deterioramento, con discalculia o acalculia. In alcuni pazienti si manifestano, inoltre, disorientamento spazio-temporale (talvolta con improvvisi “black-out”, anche in fasi precoci di malattia e soprattutto in luoghi non familiari), varie agnosie visive (mancato riconoscimento di oggetti comuni e del loro utilizzo, di volti familiari incluso il proprio), deficit di tipo visuo-spaziale (ad esempio difficoltà nel ricopiare anche semplici figure geometriche) (Mandell & Green, 2011), aprassia costruttiva e ideo-motoria (da un’iniziale difficoltà nell’usare appropriatamente strumenti di uso non quotidiano, fino all’incapacità di eseguire anche semplici sequenze motorie) (Pena-Casanova et al., 2012). Con frequenza si hanno disturbi dell’umore, che nei primi stadi si presentano sotto forma di apatia, passività e perdita di interessi o, al contrario, sotto forma di aggressività e disinibizione. L’apatia, in particolare, rappresenta il sintomo neuropsichiatrico più comune nella MA e deve essere opportunatamente differenziato dalla depressione maggiore, con la quale può essere confuso soprattutto quando ancora è presente un deterioramento cognitivo lieve (Onyike et al., 2007). Con il peggioramento della malattia possono comparire agitazione psico-motoria,manie di persecuzione, allucinazioni soprattutto visive, deliri e misidentificazioni, a cui si sommano disturbi comportamentali (Kramer & Miller, 2000). Anche il ritmo sonno-veglia viene perturbato; a questo proposito, esistono studi che ritengono che questa alterazione possa causare il cosiddetto sundowning (la comparsa o l’esacerbazione di agitazione, irrequietezza, panico, scatti d’ira verbali o fisici e intenso disorientamento durante il tardo pomeriggio o la sera) sebbene l’agitazione stessa possa essere responsabile a sua volta dei disturbi del sonno (Reynolds, Hoch, Stack, & Campbell, 1988).

Molti pazienti sono inconsapevoli delle proprie difficoltà (anosognosia) o, sebbene lo siano, sono incapaci di comprendere le conseguenze concrete del loro disturbo.

L’insight viene mantenuto soprattutto all’esordio e il paziente tende a mascherare i suoi deficit sviluppando strategie compensatorie, confabulazioni e minimizzando i propri errori (Mardh,

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Karlsson, & Marcusson, 2013); altre volte la consapevolezza si manifesta con irritabilità e scatti di rabbia o con stati d’ansia e una reazione depressiva, rendendo necessaria la diagnosi differenziale tra un disturbo dell’umore e il deterioramento mentale. Con il progredire della malattia, la perdita della capacità critica e di giudizio è inevitabile, così come la riduzione dell’attenzione e della concentrazione, con facile distraibilità; diminuisce l’efficienza a livello lavorativo e, nelle fasi più tardive, si riduce il funzionamento anche sul piano sociale (Loeb & Tabaton, 2003; Mandell & Green, 2011). Possono comparire, in questa fase tardiva, anche alterazioni della personalità(Galton, Patterson, Xuereb, & Hodges, 2000).

Alterazioni sensoriali e motorie di tipo extrapiramidali (rigidità, bradicinesia) (Duker et al., 2012), crisi convulsive (Scarmeas et al., 2009) e mioclono (Hauser, Morris, Heston, & Anderson, 1986)rimangono poco comuni perlomeno fino alle ultime fasi della malattia, quando, invece, possono essere riscontrati all’esame obiettivo eventualmente associati alla comparsa dei riflessi primitivi (suzione, prensione palmare e plantare, riflesso plantare estensorio (G. McKhann et al., 1984).

Si assiste, dunque, ad una lenta e inesorabile perdita della facoltà di svolgere le attività della vita quotidiana, che interessa dapprima le attività strumentali (scrivere, guidare, usare il telefono o gestire il denaro) e in seguito coinvolge anche le attività più semplici e le autonomie personali (mangiare, vestirsi, curare l’igiene personale). Il malato finisce per necessitare di una sempre maggiore supervisione quotidiana, fino a che non diviene totalmente dipendente dal caregiver (Trabucchi & Guaita, 2016).

Nella fase terminale il paziente diviene rigido, muto, incontinente, costretto a letto (Seeley & Miller, 2013) e culmina con un quadro di tetraparesi in flessione; il decesso avviene in condizioni di marcato scadimento generale, per malnutrizione, complicanze infettive e broncopolmonari (Loeb & Tabaton, 2003).

Oltre alla tipica sindrome amnesica ippocampale esistono fenotipi clinici della MA decisamente meno comuni, caratterizzati da una relativa conservazione della memoria; si tratta delle varianti atipiche, denominate posteriore, logopenica, frontale e un’ulteriore variante associata a Sindrome di Down. Tali presentazioni si sovrappongono clinicamente con quelle proprie di altri disordini su base neurodegenerative o vascolare, rendendo complessa e poco affidabile la

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formulazione di una diagnosi basata solo sulla descrizione clinica (Dubois et al., 2014). Grazie alla determinazione di biomarcatori capaci di fornire in vivo evidenze della presenza di un sottostante processo patologico di tipo Alzheimer, è stato possibile includere queste varianti atipiche all’interno dello spettro della MA (Perrin, Fagan, & Holtzman, 2009) (Price et al., 1993), sebbene la positività degli stessi non costituisca un elemento sufficiente ad escludere la coesistenza di altri processi fisiopatologici che potrebbero aver contribuito a una data sintomatologia (Dubois et al., 2014).

La variante posteriore viene distinta in due sottotipi: una variante occipitofrontale (Galton et al., 2000), in cui predomina il declino nelle abilità visuo-percettive di identificazione visiva di oggetti, simboli, parole o facce, e una più comune variante biparietale (Ross et al., 1996), contraddistinta invece da una marcata deterioramento a livello visuo-spaziale, aprassia degli arti o neglect.

La variante logopenica si manifesta con un interessamento del linguaggio, in particolare si ha una progressiva compromissione nella capacità di ricercare termini specifici e nella ripetizione di frasi, mentre vengono risparmiate la semantica, la sintassi e le abilità motorie (Henry & Gorno-Tempini, 2010).

Nella variante frontale i disturbi riguardano principalmente il comportamento e le funzioni esecutive, con presenza di apatia o disinibizione e comportamenti stereotipati (Woodward et al., 2010).

La MA insorta in pazienti affetti da Sindrome di Down rientra tra le presentazioni atipiche di malattia, in quanto è clinicamente dominata da cambiamenti comportamentali, disfunzioni esecutive e alterazioni nelle attività funzionali (Ball, Holland, Watson, & Huppert, 2010). MCI (Mild Cognitive Impairment o deterioramento cognitivo lieve). Esiste un’ulteriore entità clinica che riguarda quella fase in cui compaiono i primi disturbi cognitivi, senza che raggiungano, tuttavia, in un primo momento, un livello di severità tale da interferire con il funzionamento quotidiano. Nel caso in cui ci siano sufficienti elementi diagnostici per supporre che questo lieve deficit cognitivo rappresenti lo stadio iniziale della MA, si parla di “fase prodromica della MA”, (Dubois et al., 2010; Dubois et al., 2007) o, alternativamente, di “MCI dovuto a MA” (Albert et al., 2011).

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Il MCI è una sindrome caratterizzata dal riscontro soggettivo e oggettivo di alterazioni riguardanti uno o più domini cognitivi, le quali risultano di grado maggiore rispetto a quanto non sia ritenuto normale per età, istruzione e precedente livello di funzionamento, ma nemmeno tanto severe da raggiungere la soglia della demenza. Non comporta dunque una significativa compromissione in ambito sociale, lavorativo o nello svolgimento delle usuali attività quotidiane, permettendo al paziente di mantenere un buon grado di indipendenza (Albert et al., 2011). I soggetti con MCI possiedono un maggior rischio di sviluppare demenza (tasso di progressione annuale compreso tra l’8% e il 15%) e anche un aumentato rischio di mortalità; ciononostante si tratta di una condizione che può anche rimanere stabile per molti anni o addirittura ritornare ad uno stato di normalità (Vos et al., 2015) (Petersen, 2016).

Quando il deficit cognitivo interessa unicamente l’ambito della memoria (amnestic-MCI single domain, aMCI-SD), il rischio di evoluzione verso la demenza di tipo Alzheimer è elevato (8-33% durante 2 anni) (Jeffrey L. Cummings, Doody, & Clark, 2007) (Bertens, Knol, Scheltens, & Visser, 2015); inoltre alcuni studi indicano che, se il deficit mnesico si accompagna a disturbi in altri domini cognitivi (funzioni esecutive, linguaggio e abilità visuo-spaziali) (amnestic-MCI multiple domain, aMCI-MD), tale evoluzione risulta addirittura più probabile e più precoce, verosimilmente perché tali soggetti possiedono alterazioni neuropatologiche simil-MA di grado più avanzato rispetto ai soggetti con aMCI-SD (Whitwell, Petersen, Negash, & et al., 2007). La presenza di una positività ai biomarcatori biologici o di neuroimaging specifici, in particolare, è indice di un rischio aumentato di progressione a una demenza Alzheimer indipendentemente dal fenotipo neuropsicologico, quindi anche nel caso in cui i sintomi riguardino uno o più domini cognitivi esclusa la memoria (nonamnestic-MCI single domain, anMCI-SD; nonamnestic-MCI multiple domain, anMCI-MD) (Whitwell et al., 2007) (Vos et al., 2013).

Uno dei più grandi progressi dal punto di vista diagnostico è avvenuto nel 1984 grazie al NINCDS-ADRDA Work Group (National Institute of Neurological and Communicative Disorders and Stroke; Alzheimer’s Disease and Related Disorders Association) che ha stabilito tre categorie in base a tre differenti livelli di accuratezza diagnostica (vedi appendice 2). Affinché un paziente soddisfi i criteri di “MA probabile” deve essere stabilita oggettivamente la presenza di demenza, con una compromissione riguardante almeno due domini cognitivi, un

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progressivo peggioramento della memoria e di altre funzioni cognitive e un esordio insidioso e graduale compreso tra i 40 e i 90 anni; tutto ciò deve comparire in assenza di alterazioni della coscienza e di altri disturbi sistemici o cerebrali che possano essere altrimenti responsabili di tale deterioramento cognitivo. Viene posta invece diagnosi di “MA possibile” nel momento in cui, nonostante il fenotipo clinico della demenza si distanzi da quello tipico, non sono presenti elementi che orientino consistentemente verso una diagnosi alternativa. È evidente come questi criteri permettano di formulare una diagnosi di MA su base essenzialmente clinica e con una probabilità più o meno elevata fintanto che il paziente sia in vita, riservando la diagnosi di certezza ai casi in cui sia possibile ottenere una conferma neuropatologica tramite biopsia o autopsia. (G. McKhann et al., 1984).

La sensibilità e la specificità dimostrate sono elevate, rispettivamente nell’ordine dell’81% e del 70% per quanto riguarda la diagnosi di MA probabile, mentre per la diagnosi di MA possibile la sensibilità mostrata è ancora maggiore (93%), a spese però di una bassa specificità (48%), che riflette la grande sovrapposizione che esiste tra le demenze non–MA e la MA stessa (Knopman et al., 2001).

Nonostante tali criteri rimangano tuttora estremamente validi sul piano clinico, l’avanzamento delle conoscenze scientifiche riguardo la patogenesi e il decorso di MA ne ha reso possibile, e allo stesso tempo necessaria, una rivisitazione. Attualmente i due principali algoritmi diagnostici sono quelli raccomandati dall’International Working Group (IWG) (Dubois et al., 2007) (Dubois et al., 2010) (Dubois et al., 2014) (vedi appendice 3 e 4) e dal National Institute on Aging-Alzheimer’s Association workgroup (NIA-AA)(G. M. McKhann et al., 2011) (Jack et al., 2011); sebbene presentino divergenze riguardanti stadiazione, nomenclatura e interpretazione dei marcatori (Jack et al., 2016), entrambi hanno condotto ad una miglior definizione dei fenotipi clinici, riducendo l’importanza della diagnosi di esclusione, e all’integrazione nel percorso diagnostico di biomarcatori specifici e validati. In questo modo è stato possibile inquadrare la MA come uno processo fisiopatologico continuo, che parte da uno stadio preclinico asintomatico di durata variabile (in genere superiore ad una decade) (Sperling et al., 2011), passa da una fase sintomatica pre-dementigena (Albert et al., 2011), per poi arrivare alla demenza conclamata (G. M. McKhann et al., 2011) (Dubois et al., 2014).

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Biomarcatori

I processi fisiopatologici caratteristici della MA precedono di alcune decadi le manifestazioni cliniche dei primi disturbi cognitivi, perciò risulta difficile identificare la presenza di tali processi in maniera affidabile basandosi solamente sul fenotipo clinico. Per questa ragione, la disponibilità di marcatori biologici (biomarcatori) per la diagnosi precoce risulta essere di grande utilità nella gestione della malattia (Mandel, Morelli, Halperin, & Korczyn, 2010). Il termine biomarcatore fa riferimento a un parametro fisologico, biochimico o anatomico, che può essere misurato in vivo e che riflette specifiche caratteristiche dei processi fisiopatologici relativi ad una certa malattia (Jack & Holtzman, 2013). I biomarcatori rappresentano un mezzo utile da un punto di vista sia diagnostico che prognostico, in quanto il loro utilizzo permette di migliorare l’accuratezza diagnostica, monitorare la progressione della malattia e la responsività al trattamento (Blennow, Hampel, & Zetterberg, 2014) (O'Bryant et al., 2017).

Nella MA si possono distinguere due tipologie di biomarcatori attualmente utilizzati nella pratica clinica: neuroimaging e biomarcatori liquorali.

Biomarcatori di neuroimaging

Tramite tecniche di neuroimaging strutturale e funzionale si possono identificano in vivo alterazioni cerebrali associate alla neurodegenerazione e al declino cognitivo. Queste metodiche includono RM strutturale, 18FDG-PET e PET con tracciante per l’amiloide (Giacomelli, Daniele,

& Martini, 2017).

La RM strutturale cerebrale rappresenta una tappa fondamentale nella valutazione di un paziente con disturbi cognitivi, poiché aiuta non solo ad escludere un’eziologia non degenerativa (ad esempio vascolare), ma anche a rilevare forme di atrofia proprie di specifiche demenze neurodegenerative (Nasrallah & Wolk, 2014). Il segno caratteristico della MA, evidenziato con la RM, è tipicamente l’atrofia del lobo temporale mediale, che appare in maniera più precoce e più severa a livello dell’ippocampo e della corteccia entorinale. Altre regioni frequentemente interessate includono il precuneo e la corteccia cingolata posteriore (Kehoe, McNulty, Mullins, & Bokde, 2014), sebbene in realtà la localizzazione possa variare nelle forme atipiche della malattia (Jack et al., 2016).

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La 18

FDG-PET cerebrale misura la captazione di glucosio da parte dei neuroni e delle cellule gliali, la quale risulterà sensibilmente ridotta in caso di disfunzione sinaptica. Tale disfunzione, nella MA tipica, può essere rappresentata alla 18

FDG-PET come un ipometabolismo a livello temporo-parietale, comprendente il cingolo posteriore e il precuneo (Scheltens et al., 2016). Questo esame si è dimostrato capace di rilevare con una buona sensibilità le alterazioni precoci della MA (Anchisi et al., 2005)(Drzezga et al., 2003),compresa la fase asintomatica a rischio di MA (Reiman et al., 2004) (G. W. Small et al., 2000), e di seguirne progressivamente l’evoluzione (Johnson, Fox, Sperling, & Klunk, 2012) (Mosconi et al., 2009). Una riduzione del metabolismo a localizzazione temporo-parietale può essere osservata anche in condizioni diverse dalla MA, ad esempio nella degenerazione cortico-basale (DCB), nell’atrofia progressiva primaria (Josephs et al., 2010) e nei disordini cerebrovascolari(Wirth et al., 2013). Sebbene la 18

FDG-PET sia dotata di alta sensibilità e specificità nella distinzione tra pazienti affetti da MA e controlli sani (Herholz et al., 2002), la distribuzione delle aree di ipometabolismo potrà variare in relazione ai diversi fenotipi appartenenti allo spettro della MA stessa (Lehmann et al., 2013) (Bohnen, Djang, Herholz, Anzai, & Minoshima, 2012).

Sia la 18

FDG-PET che la RM strutturale vengono dunque considerati biomarcatori topografici, in quanto capaci di individuare la localizzazione e la distribuzione cerebrale delle alterazioni neuropatologiche, partendo dal presupposto che queste portino a cambiamenti metabolici o a perdita neuronale nelle regioni connesse. Si modificano in maniera dinamica a partire da una fase non necessariamente precoce e seguono, quindi, l’evoluzione della malattia, correlando con l’insorgenza dei sintomi cognitivi (Jack et al., 2009) e marcandone la severità clinica (Jack et al., 2010) (Bateman et al., 2012). Perciò sono raccomandati non tanto per la diagnosi di MA, data la loro bassa specificità, quanto per misurare lo stadio e quantificare la progressione della patologia (Dubois et al., 2014).

La PET-amiloide è una tecnica che utilizza traccianti (11

C-Pittsburgh compound B (PiB) o altri radioligandi come Florbetapir, Florbetaben o Flutemetamol) che si legano specificatamente alla forma fibrillare di Ab, mostrando un’elevata captazione laddove sono presenti placche neuritiche e angiopatia amiloide. La PET-amiloide rappresenta dunque un biomarcatore fisiopatologico poiché è un indicatore in vivo chiaramente correlato con il substrato

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