Sebbene, a mio parere, siano poco convincenti le osservazioni di Milgram sul fenomeno della disobbedienza, ridotta ad una serie di reazioni emotive, è interessante notare che egli individua come elemento scatenante del processo di disobbedienza il conflitto che si instaura tra autonomia individuale e subordinazione all’autorità. Da un punto di vista teoretico Milgram assume, infatti, la distinzione elaborata da Piaget (1932/1999) tra eteronomia, intesa come dipendenza dal contesto esterno, ed autonomia. Secondo la teoria di Piaget, autonomia ed eteronomia sono poste su di un continuum che riflette lo sviluppo morale della persona: da una condizione di anomia, cioè di assenza di regole, una persona sviluppa un senso morale inizialmente basato sull’eteronomia, in cui le regole sono indicate da un’autorità esterna, per giungere progressivamente all’autonomia, condizione evoluta in cui la persona riesce ad autoregolarsi. Il senso etico eteronomo riflette quindi una moralità di obbedienza, poiché l’individuo non regola il proprio comportamento sulla base di convinzioni personali, ma secondo le indicazioni dell’autorità; le persone moralmente autonome, invece, seguono proprie regole e principi morali e possono svincolarsi dall’autorità, manifestando il proprio dissenso e disobbedendo. Come è risaputo, le teorie di Piaget sullo sviluppo morale sono state ampliate da Kohlberg, che ha rinforzato ulteriormente l’idea che eterono mia ed autonomia siano poste in un sistema gerarchico, dove l’eteronomia rappresenta un livello di sviluppo morale più basso rispetto all’autonomia (Kohlberg, 1969). Secondo Kohlberg lo sviluppo del senso etico, che ci permette
di discernere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, è valutabile attraverso 3 livelli, ciascuno dei quali suddiviso in 2 stadi, che in parte coincidono con lo sviluppo biologico della persona ed in parte dipendono da fattori circostanziali:
• Il primo livello è quello pre-convenzionale: i problemi di natura morale (i cosiddetti dilemmi morali) vengono considerati esclusivamente dalla propria prospettiva e sono pertanto connotati da egocentrismo. Nel primo stadio un’azione viene considerata sbagliata quando si riceve una punizione per averla compiuta (la disobbedienza è respinta per paura di incorrere nelle punizioni); nel secondo stadio le norme vengono valutate in termini di vantaggi e svantaggi che comportano (si obbedisce alle regole per ottenere ricompense o vantaggi).
• Il secondo livello è quello convenzionale: i giudizi morali vengono elaborati su base convenzionale, cioè sulle norme dettate dal gruppo di riferimento (si rispettano le norme socialmente approvate). Nel terzo stadio l’azione viene giudicata in base a ciò che è giusto o sbagliato secondo il proprio gruppo di appartenenza (si obbedisce alle regole per mantenere buone relazioni ed evitare la disapprovazione del proprio gruppo); nel quarto stadio le relazioni interindividuali vengono considerate nel contesto della società, che viene vista come un insieme di gruppi in competizione che si danno delle regole per poter convivere (si obbedisce alle regole in quanto esse assicurano l’ordine sociale).
• Il terzo livello è il più alto, ed è definito post-convenzionale: le norme morali vanno al di là della società in cui si vive e sono riferite a principi astratti e valori universali; valori e principi che assumono importanza a prescindere dall’autorità che li definisce. Negli stadi quinto e sesto il richiamo ad una morale di ordine superiore permette quindi di giudicare in maniera autonoma le regole convenzionali. Se nel quinto stadio il fine ultimo dell’individuo è la costruzione di una società democratica e rispettosa dei diritti di ciascuna parte (si obbedisce per favorire la democrazia e il rispetto dei diritti di tutti), secondo Kohlberg esisterebbe anche un livello etico ulteriore, a cui però solo pochi individui riescono ad accedere. Nel sesto stadio, infatti, la persona accede ad un concetto di giustizia superiore e imparziale, basato sul rispetto della dignità di tutte le persone e su principi etici universali, che talvolta possono non essere scritti nelle leggi. Basandosi su questo livello può non essere considerato immorale violare le leggi della società qualora venissero va lutate in contrasto con
i principi etici universali. Un esempio celebre è quello di Antigone, eroina della tragedia di Sofocle, la quale disobbedisce alle leggi della polis per dare una degna sepoltura al fratello Polinice. Per questo suo atto di disobbedienza verso una legge considerata moralmente illegittima, Antigone viene condannata dal re Creonte ad essere murata viva (Carillo, 2008). Lo sviluppo morale è, in questo framework, strettamente gerarchico: una persona in una condizione di totale dipendenza dall’autorità (I stadio, livello convenzionale) ha sviluppato in misura minore il proprio senso etico rispetto a che si trova una condizione di totale autonomia (VI stadio, livello post-convenzionale). In altre parole il suo sviluppo morale è rimasto ad una fase infantile, in cui la persona è totalmente dipendente dai giudizi dell’autorità per stabilire ciò che è bene e ciò che è male.
Sebbene l’approccio di Kohlberg sia diventato dominante tra le teorie sullo sviluppo morale, negli stessi anni Fromm (1963) suggeriva che eteronomia e autonomia non dovessero essere considerate su una scala gerarchica. Secondo lo psicologo tedesco eteronomia e autonomia hanno pari status poiché una persona può contemporaneamente obbedire in maniera eteronoma ad un’autorità esterna e in maniera autonoma alla propria coscienza. Di fatto, questo approccio corrisponde alla teoria originale di Piaget (1932/1999), secondo cui le persone possono comportarsi in accordo ad un orientamento eteronomo quando sono inserite in un contesto gerarchico e manifestare un orientamento autonomo in una situazione di cooperazione tra pari (Carpendale, 2000). In anni recenti, Leman e Duveen (1999) hanno studiato empiricamente la presenza simultanea degli orientamenti autonomi ed eteronomi nei bambini. Analizzando il modo di reagire di bambini di dieci anni verso differenti tipi di autorità (epistemiche e di status), Leman e Duveen hanno trovato che i bambini passano dall’eteronomia all’autonomia a seconda del tipo di autorità con cui si relazionano. Questi dati non confermano, quindi, l’approccio gerarchico e unidimensionale di Kohlberg, avvalorando invece un approccio multidimensionale in cui l’obbedienza ad un’autorità esterna (eteronomia) e la disobbedienza (autonomia) possano coesistere contemporaneamente3.
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Non posso addentrarmi in questa sede nella tematica della disobbedienza infantile, anche se mi pare necessario segnalare che essa è considerata una espressione fondamentale dell’affermazione del Sé, nel corso del processo di individuazione (Spitz, 1957), e già dagli anni della scuola dell’infanzia anche come costruzione di condotta sociale
In altre parole, la disobbedienza non nega a priori l’obbedienza quando è giustificata da istanze morali che spingono gli individui a non obbedire ad uno specifico ordine o disposizione dell’autorità. Rochat e Modigliani (1995) chiamano “ordinarietà del bene” questa capacità comune all’essere umano di disobbedire all’autorità per perseguire un ideale di giustizia più ampio. L’ordinarietà del bene si oppone concettualmente alla banalità del male di stampo arendtiano e si basa sull’assunto che le persone non necessitino di caratteristiche speciali per agire in accordo con istanze morali sovraordinate e, pertanto, tutte le persone hanno la possibilità di disobbedire all’autorità per perseguire un bene maggiore. Come specificano i due autori: “Le possibilità che il male sia perpetrato aumentano quando è reso banale, ma il bene non sparisce durante il processo in cui il male diventa di senso comune” (Rochat e Modigliani, 1995, p. 198, traduzione mia ). Inoltre, il “concetto di ordinarietà [del bene] non sottintende che il bene è un luogo comune, per cui è facilmente manifestabile nell’incontro tra le autorità e i subordinati”. Piuttosto intende suggerire che “il bene può essere espresso con modalità abbastanza ordinarie, che sono la mera estensione di un senso civile comune o di decenza di base” (Rochat e Modigliani, 1995, p. 206, traduzione mia).
Kelman e Hamilton (1989) e Kelman (2006) ritengono che i comportamenti disobbedienti siano strettamente legati ad una condizione di autonomia psicologica dell’ind ividuo e siano una conseguenza della percezione di possibili alternative al contesto sociale dominante. Come si è visto nel primo capitolo, per mantenere e preservare il proprio status, un’autorità deve infatti farsi percepire come legittima dai suoi subordinati; la legittimità non è importante che sia reale ed effettiva, quanto che venga percepita come tale. La legittimità viene mantenuta attraverso la possibilità dell’autorità di definire e codificare la realtà dei suoi membri. Più un’autorità sente che la propria legittimità può essere misconosciuta e minacciata, più essa cercherà di imporre la propria visione della realtà: il nazismo, con le sue campagne promozionali di diffamazione nei confronti degli ebrei, fornisce un ottimo esempio di questo principio. Ciò accadde anche nella situazione sperimentale di Milgram dove lo sperimentatore, con le costanti pressioni sul fatto che l’esperimento doveva essere concluso per il bene della scienza, era riuscito a ricodificare la visione della realtà dei soggetti sperimentali, facendo dimenticare che un esperimento scientifico
sulla memoria non può essere una motivazione sufficientemente valida per impartire scariche di 450 volt ad un’altra persona.
La storia dell’ultimo secolo ci ha insegnato quanto i mezzi di comunicazione abbiano un ruolo chiave nella definizione della percezione della realtà dei membri di una società, deumanizzando e trasformando i propri vicini di casa in nemici da debellare. Le campagne di demonizzazione tra i due schieramenti della Guerra Fredda, le propagande discriminatorie nelle guerre civili dell’ex- Yugoslavia o del Rwanda sono chiari esempi di come l’autorità, quando deve impartire disposizioni moralmente equivoche, cerchi di stabilire un’interpretazione della realtà che giustifichi le proprie azioni. Per poter disobbedire, quindi, l’individuo deve essere, innanzitutto, autonomo dall’autorità, accedendo ad interpretazioni alternative della realtà attraverso cui analizzare le richieste che gli vengono fatte.
Secondo Kelman e Hamilton (1989) in una struttura sociale si possono individuare delle forze che legano l’individuo all’impegno verso l’autorità, rafforzandolo e impedendo di ridefinire la situazione (forze vincolanti), e delle forze che invece si oppongono all’adempimento dell’ordine (forze contrastanti). Nel rapporto tra cittadino e Stato esistono, ad esempio, sanzioni che frenano la comparsa di comportamenti dissidenti e disobbedienti e che, in tal senso, corrispondono alle forze vincolanti di Kelman e Hamilton; in Italia, l’articolo 415 del Codice Penale (per quanto sia stato dichiarato illegittimo dalla sentenza n. 108 del 23 aprile 1974 della Corte Costituzionale ) sancisce come illegale l’istigazione alla disobbedienza dichiarando che “chiunque pubblicamente istiga alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico, ovvero all'odio fra le classi sociali, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”.
Le forze contrastanti sono individuabili, invece, in tutti quegli elementi che spingono l’individuo a ridefinire l’interpretazione della relazione con l’autorità e ad acquisire una maggiore autonomia. Quando lo status quo non è accettato come l’unica interpretazione possibile della realtà, la legittimità delle richieste dell’autorità è, infatti, continuamente messa in discussione, rafforzando l’autonomia dell’individuo dal contesto. Ciò significa, ad esempio, che in caso di disposizioni volte a ledere l’incolumità psicofisica degli altri, le persone possono riconoscerne l’illegittimità da un punto di vista etico-morale e disobbedire. L’esposizione a punti di vista differenti presuppone, inoltre, che la disobbedienza non sia da intendersi come un gesto
eroico, ma come una conseguenza di un’interpretazione sociale della realtà. Esattamente come descritto negli studi sull’influenza minoritaria (Moscovici, 1976) che ha la funzione, fra le altre, di presentare un punto di vista diverso sulla realtà e antagonista con quello della maggioranza. Le analisi delle autobiografie di disobbedienti celebri, come Gandhi, Martin Luther King e Nelson Mandela, hanno messo infatti in evidenza che il punto di rottura con l’autorità e le sue richieste è individuabile in una costruzione sociale della realtà, in cui vengono definite delle alternative allo status quo e la disobbedienza rappresenta un mezzo per raggiungerle (Morselli e Passini, 2006; Passini e Morselli, 2005). La disobbedienza può essere intesa anche come un movimento sociale costruito attivamente attraverso argomentazioni che definiscono interpretazioni alternative e che si basano sulla condivisione di valori diversi da quelli dello status quo (Della Porta, 2005; Keniston, 1968; Reicher, Cassidy, Wolpert, Hopkins e Levine, 2006). Viene così socialmente costruita un’interpretazione della realtà autonoma rispetto a quella dell’autorità; questa interpretazione autonoma rappresenterebbe una delle condizioni basilari per disobbedire ad una richiesta dell’autorità.