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a) La questione della ricettività

La problematica relativa alla definizione della tesi fondamentale del

monismo è servita a mostrare come, in verità, non basti riferirsi ai soli concetti di distanza, op-posizione o posizione-innanzi per risolvere la questione relativa al Wie costitutivo della fenomenicità originaria. Infat- ti, co-essenziale a queste determinazioni è pur sempre anche il rilievo della ricettività, ovvero il processo di realizzazione del fenomeno in ge-

nerale. Considerare il fenomeno circa la sua realtà effettiva significa pe-

rò, altresì, impostare la domanda circa il modo del suo sapersi. Il banco di prova con cui il monismo ontologico è chiamato a misurarsi riguarda pertanto il modo in cui, per mostrarsi come tale, conformemente al sen- so della co-appartenenza, la trascendenza debba poter realizzare il pro-

prio sapersi, ovvero: in che modo, al fine di potersi costituire a titolo di

“struttura originaria”, la trascendenza debba poter ricevere se medesi- ma nella totalità della sua schiusura. Scrive infatti Henry:

L’orizzonte è ciò che, in quanto trascendenza, l’essenza oppone a se medesi- ma. Per essere reale, tuttavia, all’essenza non basta opporsi l’orizzonte in cui essa compie la propria objettivazione. […] L’opposizione e la ricezione di ciò che, nell’opposizione, si trova opposto all’essenza, costituiscono insieme la possibilità dell’objettivazione. […] Nell’indissolubile unità dell’opposizione e della ricezione d’orizzonte si mostra il carattere fondamentale della ricezione, la quale assicura in effetti la possibilità stessa di questa unità. […] La ricettivi-

tà dell’orizzonte è allo stesso modo il suo mostrarsi. Se, come è stato mostra-

to, il divenire fenomenico dell’essenza pura della fenomenicità consiste nel mostrarsi dell’orizzonte, la questione della possibilità interna per questo dive- nire che dona all’essenza la sua realtà si concentra nel problema della ricetti- vità. Solo la risposta a questo problema può rendere comprensibile nella sua struttura interna la Selbständigkeit dell’essenza3.

Con la messa in risalto della questione della ricettività, Henry pone uno dei punti cardine dell’intera sua opera di “distruzione”, segnando

l’apice della parabola argomentativa volta al definitivo oltrepassamento

del monismo ontologico.

La nozione fenomenologica di ricettività nomina il problema relati- vo al sapersi originario, vale a dire la questione relativa alla realizzazio-

3

ne della struttura fenomenologica dell’essere in quanto Seinsverständ- nis: comprensione d’essere – comprensione fedele alla non-objettità della sua stessa costituzione essenziale. Coerentemente all’enucleazione del concetto monista della co-appartenenza fra essere e comprensione d’essere, tale realizzazione è stata indicata come indipendente rispetto al fattivo sapersi che la comprensione d’essere costitutivamente realizza

nel modo dell’esistenza finita. Il che, trasposto sul piano metodologico

per quel che concerne la problematica relativa alla fondazione filosofi-

ca, vuol dire: la questione della ricettività deve poter essere inquadrata e tematizzata come indipendente e autonoma rispetto al modo in cui, nell’esistenza fattiva, siffatto compimento può esser saputo in quanto tale.

Pensare la ricettività conformemente all’indipendenza costitutiva

della struttura originaria rispetto all’esistenza fattiva significa pensarla

alla luce della distinzione fra comprensione ontologica e comprensione ontica4. In altri termini, ciò che è da pensare è la ricettività indipenden- temente da quella particolare modalità che è la ricezione d’ente, “rice- zione ontica”. Ma appunto qui è la difficoltà più grande. Commentando questo passaggio, Henry stesso non tralascia di sottolineare il fatto che «è stato possibile occultare il carattere ontologico della ricettività nella misura in cui questa è stata pensata innanzitutto alla luce del problema della ricezione dell’ente, e per questo motivo la si trova legata al con-

cetto di finitezza, così com’esso si presenta almeno in prima istanza»5.

Riferimento implicito per questa remarque è, non tanto il pensiero naturale (per il quale, chiaramente, la questione della ricettività è legato

a quello della finitezza [Endlichkeit] intesa nel senso di un rapporto fra

sostanze), quanto piuttosto – ancora una volta – il pensiero filosofico di

Martin Heidegger. Questa breve osservazione – che in L’essence de la manifestation apre il confronto di Henry con le tesi heideggeriane svi- luppate in Kant und das Problem der Metaphysik – si rivela essere tanto

più sottile ma altrettanto più significativa se si considera il fatto che la

filosofia di Heidegger è puntualmente richiamata da Michel Henry co-

me exemplum di un’impostazione filosofica programmaticamente af-

francata dal pregiudizio della objettità (ontica), predominante nella

4 Cfr. supra, Sez.

II, Cap. III, § 20. 5

comprensione naturale dell’essere, in tutte le sue forme. Se dunque6, per un verso, merito di Heidegger è stato l’aver tentato di dar forma si-

stematica e filosofica al pensiero fedele al criterio della pura non-objet-

tità, ciò che nella precedente citazione Henry contesta è, essenzialmen- te, il fatto di aver mantenuto in questa sua pur rigorosa enucleazione

della struttura originaria il riferimento all’ente7. Certo, in Heidegger

l’ente è di fatto spogliato di ogni ruolo veramente essenziale per quel che concerne la realizzazione della verità dell’essere. E tuttavia, come è

emerso a proposito del tema della parousia8, benché Heidegger abbia

sempre dichiarato di concepire l’ontologia fenomenologica come pensiero della costitutiva differenza [Differenz] fra essere ed ente, l’interpretazione della trascendenza nel senso della temporalità estatica non induce ad escludere, ma anzi spinge ad avvalorare la possibilità di impostare la questione della verità dell’essere (e del suo sapersi) nei

termini di un rapporto “dia-logico” 9 fra comprensione ontica e

comprensione ontologica.

“Orizzonte” di questo dialogo è l’esistenza fattiva. All’interno di ta- le orizzonte, rilievi quali la schiusura dell’essere (genitivo soggettivo), l’apertura – nel modo del comprendere ontologico – dell’orizzonte tem-

poralmente finito dell’esserci, il rapportarsi-a e la ricezione della mani-

festazione ontica si rivelano essere tutti “momenti” differenti ma tutti costitutivamente con-implicati nell’accadere di un unico evento [Ereig- nis] che è il realizzarsi della manifestatività dell’essere in quanto aletheia, in-grazia-della temporizzazione estatica del Da-sein nei modi propri dell’In-der-Welt-sein.

Orbene, è a questo titolo che, in Heidegger, con rigorosamente in coerenza con il criterio della Gleichursprünglichkeit di essere ed e-si- stenza, la ricezione ontica è tutt’altro che esclusa, bensì inclusa all’in- terno della problematica concernente la struttura originaria. Ed è appun- to sul senso e sulle ragioni di questa inclusione (vale a dire, in ultima istanza: sul presupposto della riduzione del senso della trascendenza

6 Come anche è emerso nel corso delle analisi relative alla fenomenologia storica, cfr. supra, Sez. I, Cap. III, passim.

7

Cfr. supra, Sez. II, Cap. I, § 17. 8 Cfr. supra, Sez.

II, Cap. II, § 20. 9 L’espressione è di Heidegger, cfr.

HBE, pp. 178-180 (trad. it. cit., pp. 166-168). Cfr. anche supra, Sez. II, Cap. II, § 20.

alla temporalità estatica) che la precedente osservazione henryenne po-

ne definitivamente in causa la filosofia di Heidegger. Difatti, come la te-

matizzazione della ricettività che Heidegger sviluppò nel Kantbuch del 1929, l’assimilazione della trascendenza alla temporalità estatica fa sì che all’interno di questa impostazione di pensiero la questione della ri- cettività originaria sia giocoforza inquadrata innanzitutto a partire dal problema relativo alla possibilità della ricezione ontica.

b) Ricezione ontica e ricettività ontologica

In L’essence de la manifestation, le argomentazioni heideggeriane

del cosiddetto Kantbuch sono riprese e sviluppate da Henry al fine di

chiarire secondo quali motivazioni, nella prospettiva onto-fenomenolo- gica posta da Heidegger, l’inclusione della problematica della ricettività

ontica all’interno della più ampia riflessione concernente la ricettività

propria dell’essere in quanto fondamento (d’ora innanzi: ricettività on- tologica) debba poter essere considerata come legittima, ed anzi addirit-

tura necessaria. La riflessione kantiana in merito alla questione dell’es-

senza del fondamento si rivela essere particolarmente significativa in

quanto, come sottolineato dallo stesso Heidegger, essa rappresenta un

momento di “svolta”, nel senso di un primo e significativo “passaggio”

dalla concezione tipicamente moderna e “gnoseologistica” della tra- scendenza, verso una concezione addirittura “inaudita” e tale da preco-

nizzare alcune delle tesi fondamentali di Sein und Zeit10.

Secondo quanto affermato da Heidegger, il criticismo kantiano muo- ve inizialmente a partire da un concetto tutt’affatto naturale di ricettivi- tà, il cui senso è ricavato in contrapposizione ad un altro concetto, che è quello di “creatività”. Così intesi, ricettività e creatività sono assunti co-

me due possibili caratteri del conoscere in generale11. “Ricettivo” è det-

to, allora, quel conoscere al quale non è data la possibilità di porre da sé

l’ente. Affinché l’ente possa esser accolto come oggetto per siffatto co-

noscere è necessario che l’ente stesso, l’ente come tale, sia in qualche modo “già dato”, già predisposto in vista del suo coglimento. La ricetti-

10 Cfr.

K, p. 243 (trad. it. cit., pp. 208-209). 11 Cfr.

vità è in questo senso assunta da Kant come contrassegno della finitezza di quel modo del conoscere, la cui condizione di possibilità è individua- ta nella “predatità” dell’ente il quale, già nel suo stesso mostrarsi, “anti-

cipa” e “prepara” la sua ricezione alla maniera d’una affectio 12. Vice-

versa, “creativa” è detta quella modalità del conoscere che di per sé è la

condizione stessa di possibilità per il darsi del suo oggetto13.

La distinzione fra “ricettività” e “creatività” si basa in prima istanza sul modo in cui, internamente al riferimento all’ente (presupposto co- mune ad entrambi i modi del conoscere), il conoscere stesso realizza la struttura del rapporto stabilendo la sua subordinazione o meno nei con- fronti del suo “oggetto”. Ebbene, proprio l’elemento comune del riferi- mento all’ente fa sì che, in Kant, ogni conoscenza sia in quanto tale ca-

ratterizzata come intuizione14. In ciò, d’altronde, è da riconoscersi il

12 «L’intuizione finita ha bisogno, per essenza, che l’intuibile la riguardi, ha bisogno d’esserne “affetta” [affiziert]» (K, p. 26, trad. it. cit., p. 33).

13 Più precisamente, in Kant la distinzione tra conoscenza ricettiva (intuizione finita, “intuitus derivativus”) e conoscenza creatrice (intuizione infinita, “intuitus origina-

rius”) è posta a partire dalla definizione dei rispettivi “oggetti” del conoscere. Og-

getto dell’intuitus originarius è l’Entstand, vale a dire l’ente saputo nell’atto stesso della sua creazione. In quanto Entstant, l’ente è in questo caso saputo compiutamen- te, nella sua pienezza, in ragione dell’identità che si presuppone sussista tra l’atto che pone l’oggetto e la sua conoscenza. Sì che, in riferimento all’intuitus origina-

rius, la ricezione dell’Entstand è concepita come già sempre inclusa nell’atto creati-

vo che pone l’oggetto. Diversamente, oggetto dell’intuitus derivativus è il Gegen-

stand, ovvero, letteralmente, il “contro-stante”. Nella ricezione del proprio oggetto,

la conoscenza finita non include bensì presuppone la possibilità della posizione-in- nanzi. La possibilità della ricezione del Gegenstand rinvia pertanto a condizioni che non si identificano con la conoscenza effettiva dell’ente, ed il cui dispiegamento ac- cade “prima” (in senso non cronologico, ma trascendentale) di quest’ultima. Che, tuttavia, la ricezione del Gegenstand sia resa possibile solo sotto condizioni date, vuol dire che tali condizioni devono poter esse stesse in qualche modo apparire, mo- strarsi. Il che significa: anche le condizioni di possibilità dell’apparire del Gegen-

stand devono poter in qualche modo esser sapute, ricevute in quanto tali. Poiché, pe-

rò, ciò che fonda la possibilità della manifestazione del Gegenstand non è possibile che sia esso stesso dato alla maniera di ciò che in lui è fondato, ossia nel modo del porre-innanzi objettivo, ne viene che per siffatte condizioni è necessario ammettere l’esistenza d’una maniera “altra” di ricezione. Come le analisi che seguono tenteran- no di mostrare, la ricettività costitutiva dell’intuitus derivativus è tale per cui implica una duplice dinamica, a cui corrispondono due tipi diversi di ricezione, gerarchica- mente disposti.

14 Cfr. I.K

ANT, Kritik der reinen Vernunft (1787), in Kant’s gesammelte Schriften, Akademie-Ausgabe, vol. III, a cura di B. Erdmann, Berlin, Reimer, 19112, p. 49 (trad. it. Critica della ragion pura, a cura di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, rive-

tratto esplicitamente “gnoseologista” della concezione kantiana della trascendenza, in quanto ancora essenzialmente pensata come struttura per la conoscenza d’objectum. Per converso, tale caratterizzazione della

ricettività fornisce una determinazione del senso della finitezza [Endli-

chkeit], del tutto peculiare. Per Kant, evidentemente, ciò che determina

nello specifico la finitezza del conoscere umano non è il suo carattere

intuitivo. Poiché infatti ogni conoscere si determina per essenza come

intuitivo, in Kant anche il conoscere infinito (scil. “il conoscere divino”)

è pensato come costitutivamente intuitivo. Solo che, mentre l’intuizione divina si caratterizza per la sua capacità di crearsi da sé il proprio og- getto, l’intuizione umana non ha altra possibilità se non quella di rice- verlo sotto condizioni date. Sì che in questa condizionatezza va in defi-

nitiva riconosciuta la radice della finitezza del conoscere umano. La co-

noscenza umana si rivela pertanto “finita”, non perché intuitiva, ma per-

ché essa sola veramente ricettiva: non sufficiente a se medesima, ma bi-

sognosa di un’ulteriore facoltà che è la capacità discorsiva del pensie- ro. Come giustamente Heidegger ha sottolineato a tal riguardo:

L’essenza della conoscenza umana finita viene delineata per contrasto rispetto all’idea della conoscenza divina infinita, dell’intuitus originarius. […] La dif- ferenza fra intuizione infinita e intuizione finita consiste in questo, che la pri- ma, rappresentando immediatamente il singolare (cioè l’ente singolo e unico nella sua totalità), porta primordialmente quest’ultimo al suo essere, offrendo- gli il modo di sorgere (origo). L’intuizione assoluta non sarebbe assoluta se fosse “assegnata” [angewiesen] a un ente già presente, e se potesse accedere all’intuibile solo conformandosi ad esso. Il conoscere divino è quel modo di rappresentazione che crea, intuendolo, l’ente intuibile come tale. E poiché lo intuisce in modo immediato e totale con subitanea e assoluta trasparenza, non ha bisogno del pensiero. Il pensiero come tale è già, quindi, il sigillo della finitezza15.

Il senso della finitezza risiede non nel riferimento all’ente, ma nel

modo in cui siffatto riferimento è reso possibile nella conoscenza. Se,

infatti, nell’ambito dell’intuitus originarius, la conoscenza infinita (di-

vina) conosce l’ente im Entstand, cioè nel suo stato sorgivo, in ragione dell’identità di atto creativo e conoscenza dell’oggetto, diversamente, duta da V. Mathieu, Roma/Bari, Laterza, 200010, p. 53); cfr. anche K, p. 21 (trad. it. cit., p. 31).

15

nell’ambito dell’intuitus derivativus, la conoscenza finita umana si rive- la non esser in grado di stabilire neppure un rapporto diretto con l’ente in quanto tale, costretta com’è a rapportarsi solo con il suo fenomeno. E tuttavia: se, per un verso, è vero che la conoscenza umana non è in gra- do di accedere all’ente im Entstand, ma di rapportarsi solo al suo feno- meno, dato alla maniera di ciò-che-sta-di-contro, per un altro verso, al- trettanto vero è che, per Kant, ciò che pone le condizioni per il farsi in- contro del Gegenstand è la facoltà conoscitiva umana per eccellenza, ovvero l’intelletto. In questa capacità Kant scorge la “spontaneità” pro- pria dell’intuitus derivativus. Una “spontaneità” che è da intendersi, evi- dentemente, non come creazione dell’ente, bensì come posizione a prio- ri delle condizioni di possibilità dell’apparire ontico objettivo.

Nella prospettiva kantiana, è noto che il dispiegamento di tali condi- zioni è ricondotto all’opera congiunta delle forme pure a priori delle facoltà conoscitive superiori, cioè della sensibilità e dell’intelletto. In particolare, la dottrina dello schematismo trascendentale indica nell’in- tuizione pura del tempo la forma pura a priori garante dell’unità di intel- letto e sensibilità, nell’uso teoretico della ragione. Sulla base della me- diazione del tempo, l’intelletto – “puro pensiero” – porta a compimento la sintesi determinante l’orizzonte dell’esperienza possibile e dunque il dispiegamento delle condizioni trascendentali per la ricezione ontica objettiva.

Nel suo Kantbuch, conformemente a tali indicazioni preliminari,

Heidegger insiste circa la necessità di ricondurre la radice della finitezza

umana a questo peculiare “stato di assegnazione”, caratteristico della conoscenza umana, il cui senso rinvia non, semplicemente, al rapporto all’ente in cui esso si realizza, quanto piuttosto alla reciprocità (intera- mente fondata a priori) di sensibilità e intelletto. Sì che è soltanto in

virtù di questo “stato di assegnazione” che, in definitiva, la conoscenza

finita umana si rivela essere in grado di costituire per sé, nella forma di un sapere non-ontico, le condizioni di possibilità per la ricezione onti- ca. Tale sapere, in-grazia-del quale la conoscenza umana troverebbe predisposta per sé la possibilità di accesso al rapporto con l’ente ed alla

ricezione di questi als Gegenstand, è ciò che Heidegger chiama cono- scenza ontologica16.

Orbene, nell’ambito della problematica di L’essence de la manife- station, la domanda che Henry pone, confrontandosi con le dottrine di Kant e Heidegger è la seguente: posto che il dispiegamento delle condi-

zioni a priori della conoscenza finita riposi in una “conoscenza ontolo-

gica”, o più in generale in un sapere non-objettivo, in che modo questo sapere è infine esso stesso reso possibile? Dire infatti (come Heidegger pure tenta a suo modo di fare), che la possibilità della conoscenza onto-

logica, in quanto a priori, riposa nella finitezza del conoscere umano

non sembra condurre ad una risposta valida: muovendo dal presupposto

che il senso della finitezza rinvia al modo di costituzione di siffatta co-

noscenza non-ontica, essa piuttosto finisce col “chiudere” la domanda in

un circolo, che in realtà è un vicolo cieco. Eppure, dell’origine di siffat- ta conoscenza ontologica è essenziale che l’ontologia fenomenologica sia in grado di rendere conto giacché, in gioco, è la sua stessa possibi-

lità e legittimità del methodos assunto e delle chiarificazioni che da esso

derivano.

c) Aporie dell’interpretazione heideggeriana del tempo, secondo Michel Henry

La posizione della domanda circa la ricezione delle condizioni di possibilità della donazione del Gegenstand (vale a dire l’ente in quanto objectum) richiede, innanzitutto, un’ulteriore specificazione dell’iniziale distinzione kantiana tra “ricettività” e “creatività”. In particolare, è il concetto stesso di “ricezione” che, sciolto nella sua determinazione es- senziale dal vincolo nei confronti dell’ente/objectum, richiede d’esser approfondito. Come indicato da Heidegger, si tratta cioè di pensare il possibile senso per una ricettività non-objettiva – ovvero, se si preferi- sce, una ricettività non-ontica: la ricezione fondante il costituirsi di quell’orizzonte di senso alla luce del quale soltanto, in quanto fenome-

16 Scrive infatti Heidegger: «La conoscenza ontica può adeguarsi all’ente ([cioè ai suoi] “oggetti”) solo se tale ente è già in precedenza manifesto come ente, ossia è già conosciuto nella costituzione del suo essere» (K, p. 13, trad. it. cit., p. 21).

no, all’ente è dato poter mostrare se stesso conformemente al modo d’essere del contro-stante.

È nota la riduzione manualistica per cui, nella concezione kantiana della conoscenza, la sensibilità è indicata come la facoltà ricettiva per eccellenza, capace di produrre rappresentazioni solo in maniera passiva – vale a dire per effetto dell’azione che su di essa la “cosa in sé” o noumeno esercita, suscitando in essa le affectiones, e cioè rappresenta- zioni sempre e solo singolari e costitutivamente prive di quel carattere di unità che è proprio della conoscenza stricto sensu. Diversamente, di contro alla costitutiva passività della sensibilità, si staglierebbe la pecu- liare spontaneità dell’intelletto puro, capace di fornire alla ragione uma-

na finita rappresentazioni a priori in vista delle possibili unità sotto cui

raccogliere il molteplice materiale sensibile. In realtà, se considerato

alla luce del significato non-objettivo della ricettività e della spontaneità

prima richiamati, il quadro dei rapporti fra intuizione pura e pensiero

appare ben più complesso e significativo.

Si consideri, ad esempio, la sensibilità. Come si è detto, questa è sì

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