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deve poter realizzare il proprio mostrarsi con-implica costitutivamente la schiusura estatica d’orizzonte, vale a dire il dispiegamento della di- mensione ontologica dell’e-sistenza in quanto comprensione d’essere. Conformemente a questa determinazione della trascendenza, è dunque possibile riassumere la tesi fenomenologica fondamentale del monismo ontologico secondo la seguente formula: sul fondamento dell’estaticità, essere e comprensione d’essere si danno come costitutivamente co-ap- partenenti in seno alla struttura fenomenologica dell’apparire origina- rio. Orbene, ciò che tuttavia la nozione di distanza fenomenologica, in quanto enucleazione della tesi fenomenologica fondamentale del moni- smo ontologico, lascia indeterminato è in che modo sia da intendere in ultima istanza la tesi monista della co-appartenenza di essere e com- prensione d’essere in seno alla manifestatività originaria.

Le precedenti analisi circa la concezione heideggeriana della tra- scendenza hanno confermato che non è nel senso della temporalità e- statica che siffatta co-appartenenza è intesa da Michel Henry. Questo “distacco” di Henry nei confronti del paradigma onto-fenomenologico heideggeriano appare in tutta la sua evidenza, allorché Henry dichiara esplicitamente:

La comprensione ontologica dell’essere è radicalmente indipendente rispetto a qualsiasi comprensione esistentiva. Che la comprensione esistentiva di sé, da parte dell’esistenza, sia […] “autentica” o “inautentica”, tutto questo non mo- difica in nulla, nella sua struttura universale, la natura originaria […] della comprensione ontologica dell’essere. […] L’indipendenza […] ci spinge a stabilire un’opposizione assoluta tra ciò che l’esistenza è in sé ed il modo in cui tale esistenza si rappresenta o comprende se stessa3.

Contro la (pretesa, da Heidegger) unità costitutiva dell’In-der-Welt- sein, la trascendenza tematizzata da Michel Henry, e indicata come enu- cleazione della concezione propriamente monista di questo concetto, ri- vendica la possibilità di “liberare” la determinazione essenziale del rap- porto fra l’essere e l’e-sistenza (l’“accadere” della comprensione d’es- sere in quanto schiusura estatico orizzontale) da ogni implicazione o con-implicazione esistentiva o ontica. Essa, cioè, rivendica per sé la possibilità di considerare la struttura ontologica del Dasein indipenden-

3 Cf.

temente dal modo in cui questo fattivamente comprende la propria co- stituzione essenziale così come l’essere überhaupt.

In L’essence de la manifestation, è precisamente nel momento in cui la problematica liberata dalla determinazione ontologica della distanza fenomenologica giunge a trovarsi nella necessità di chiarire quali siano i rapporti fra comprensione ontologica dell’essere e comprensione esi- stentiva, ovvero in che modo sia possibile pensare il senso della coap- partenenza dell’essere e della comprensione d’essere, indipendente- mente da ogni implicazione esistenziale, che l’argomentazione henryen- ne cessa finalmente di riferirsi alle analisi di Sein und Zeit, per volgersi piuttosto alle tesi della Anweisung zum seligen Leben di Johann Gottlieb Fichte, ovvero alla Religionslehre del 1806.

Questo cambiamento di riferimenti andrà compreso come un vero e proprio “cambiamento di paradigma”.

La comprensione di questa “svolta” che dalla concezione onto-feno- menologica heideggeriana della trascendenza dovrà condurre a quella

propriamente “monista”, passando attraverso l’interpretazione fichtiana

del fenomeno della “coscienza religiosa”, richiederà innanzitutto una prima ricostruzione del significato generale del discorso fichtiano del- l’Anweisung. Alla luce di questa prima ricostruzione del rapporto fra

essere ed esistenza dal punto di vista della religione4, le acquisizioni

ottenute saranno poi ricondotte nuovamente all’interno del contesto teo- retico-problematico di L’essence de la manifestation e sviluppate con-

formemente all’interpretazione fornita da Michel Henry5, con lo scopo

di trarne, infine, tutte le dovute conseguenze teoretico-metodologiche6.

Questo percorso argomentativo, articolato in queste tre principali tappe

servirà a determinare l’insieme delle premesse per la definitiva critica

del presupposto fondamentale del monismo.

19. Religione e filosofia. La “Anweisung” di J.G. Fichte

In un passo dell’Anweisung, Fichte così spiega la propria concezio- ne della religione: 4 Cfr. infra, Sez. II, Cap. II, § 19. 5 Cfr. infra, Sez. II, Cap. II, § 20. 6 Cfr. infra, Sez. II, Cap. III, § 21-22.

La religione consiste nel vedere, avere e possedere Dio direttamente nella no- stra propria persona, e non in una estranea, con il nostro proprio occhio spiri- tuale, e non con uno estraneo. Ciò però è possibile soltanto in virtù del pensie- ro puro e autonomo, poiché soltanto mediante esso si diventa una vera perso- na […]. Il pensiero puro è la stessa esistenza divina 7.

In quanto visione divina, Fichte riconduce il concetto di religione al- l’essenza stessa del rapporto fra essere e pensiero; ed afferma: questo rapporto non è estrinseco, ma intimamente legato alla struttura di ciò che egli chiama il “pensiero autonomo”, ossia il pensiero che compren- de se stesso e la sua stessa costituzione d’essere, in quanto tale. La reli- gione è essenzialmente intesa come peculiare atteggiamento [Verhält- nis] del pensiero, ossia quel modo di rapportarsi a Dio che coinvolge il costitutivo rapportarsi del pensante alla sua stessa costituzione d’essere.

Ne viene che, nell’enucleazione fichtiana del concetto di religione, ciò

che è posto in merito al rapporto essere/pensiero è il legame essenzial- mente unitario fra l’auto-comprensione del pensiero ed il rapporto che questi intrattiene con Dio, in quanto principio d’essere.

Nell’ottica dell’Anweisung, la comprensione dell’unità di essere e pensiero (scil. comprensione d’essere) è propriamente il “fatto” della religione8. Su questo “fatto” riposa l’incontro della filosofia con il cri- stianesimo. Sempre secondo Fichte, infatti, la religione è già compren- sione di quello che è il contenuto essenziale della filosofia “scientifi-

ca”9. Da questa, tuttavia, la religione costitutivamente si distingue10, in-

7 Anweisung, pp. 418-419 (trad. it. L’iniziazione alla vita beata ovvero la dottrina

della religione, in J.G.FICHTE, La dottrina della religione, a cura di G. Moretto, Na- poli, Guida, 1989, pp. 241-400, p. 259). Corsivi nostri.

8

Diversamente, infatti, da tutti gli altri modi di autocomprensione non filosofici del- l’esistenza nella sua fatticità, la religione si distingue, secondo Fichte, in ragione del superamento che essa fattivamente realizza della comprensione naturale dell’esisten- za come “separata” dall’essere. Ciò che, pertanto, se considerata nella sua tesi fonda- mentale, la religione essenzialmente – secondo Fichte – afferma è l’unità essenziale di essere ed esistenza (su questo punto cfr. M.GUEROULT, L’évolution et la structure

de la doctrine de la science chez Fichte, a cura di H.M. Baumgartner e W.G. Jacobs,

Hildesheim/Zürich/New York, Georg Olms Verlag, 1982, in part. pp. 164-165). Or- bene, di quale tipo di unità si tratti ed in che modo questa si strutturi – vale a dire: in che modo l’unità di essere ed esistenza sia saputa ed appresa dalla religione intesa come peculiare modo di realizzazione della costitutiva autocomprensione dell’esi- stenza – su questo punto sarà essenzialmente centrata la seguente lettura dell’Anwei-

sung zum seligen Leben di Fichte.

9 Cfr. M.G

nanzitutto per il fatto che, a differenza del pensiero filosofico, è capace di comunicare in maniera più accessibile il senso delle verità ultime. Esprimendosi per “immagini”, la religione rende comunicabili contenu- ti che altrimenti resterebbero per lo più oscuri all’ordinario comprende- re della moltitudine degli uomini. In questo senso è da intendersi il ca-

rattere “popolare” di questa dottrina11. Nella Vorrede Fichte afferma

esplicitamente che la “popolarità” riguarda sì la forma espositiva, ma non anche la sostanza del contenuto e che, anzi, contrariamente a quan- to potrebbe sembrare, dietro la multiformità di un linguaggio voluta- mente “semplice”, le lezioni dell’Anweisung «sono nel loro complesso il risultato della mia autoformazione, perseguita da circa sei-sette anni con maggiore tranquillità e […] in maniera instancabile, alla luce di

quella visione filosofica che mi è stata partecipata già tredici anni fa e

che […] non ha tuttavia mutato da allora se stessa in nessun punto»12.

La religione – cioè, per Fichte, il cristianesimo esemplarmente e-

spresso nel Prologo al Vangelo giovanneo13 – pensa le medesime verità

della filosofia. Solo che tali verità sono comprese dalla religione in ma-

niera diversa. In ciò, peraltro, è da ascriversi anche il carattere “iniziati- co” o “introduttivo” del pensiero religioso. La visione religiosa dell’es- sere costituisce, infatti, proprio in ragione della sua “popolarità”, una prima mediazione attraverso la quale poter condurre la concezione ordi- naria dell’essere al di là dei pregiudizi in cui essa naturalmente si tiene e da cui si lascia in genere più facilmente dominare: «Questa esposizione – spiega Fichte al suo uditorio, nella seconda lezione – fa sì che la verità divenga e si produca, davanti ai nostri occhi, a partire da un mondo pie- 10

Nella sesta lezione dell’Anweisung, Fichte distingue cinque differenti modi di concepire l’esistenza. Di questi, la religione individua appunto il quarto, mentre la scienza filosofica, posta al gradino più alto della progressione, il quinto. Cfr. Anwei-

sung, pp. 475-491 (trad. it. cit., pp. 311-325).

11

“Popolare” è termine che lo stesso Fichte usa (cfr. Anweisung, p. 399, trad. it. cit., p. 243) ad indicare un gruppo di opere scritte fra il 1804 ed il 1806, quali – oltre, ov- viamente all’Anweisung redatta e pubblicata nel 1806 – i Grundzüge des gegenwär-

tigen Zeitalters (lezioni del 1804-05) e Das Wesen des Gelehrten (lezioni del 1805).

Sui caratteri della “popolarità” dell’Anweisung, cfr. l’approfondita esposizione di Giovanni Moretto nell’introduzione alla traduzione italiana del quinto volume dei

Sämmtliche Werke: cfr. G.MORETTO, Introduzione a J.G.FICHTE, La dottrina della

religione, Napoli, Guida, 1989, pp. 11-67, e in part. pp. 12-21.

12 Cfr. Anweisung, p. 399 (trad. it. cit., p. 243).

no di errori»14. La dottrina della religione costituisce una Darstellung, un’esposizione che, conducendo la comprensione ordinaria dell’essere

dinnanzi al proprio pregiudizio di fondo, anticipa la visione scientifica

facendo sì che ciò che soltanto la scienza può adeguatamente esprimere possa altresì esser in qualche modo già recepito nel suo contenuto es-

senziale15.

La Anweisung è pertanto da intendersi, essenzialmente, come un “avviamento” al pensiero dell’essere, una prima “introduzione” rispetto

al modo in cui i concetti della filosofia debbono poter esser colti. La

dottrina della religione è pensata in maniera tale per cui, “predisponen- do” al corretto Verhältnis del pensiero nei confronti della sua stessa co-

stituzione essenziale e dell’essere16, “educa” di fatto al modo di pensare

autonomo, necessario per poter correttamente “entrare” [hineinkommen]

nell’ambito delle verità della filosofia17. La “popolarità” dell’Anweisung

ed insieme il suo carattere “iniziatico” fanno appunto riferimento alla “propedeuticità” di questa Darstellung, il cui compito è spiegato da Fichte nel senso di una “preparazione” del pensiero naturale al corretto inquadramento del senso del proprio rapporto con l’assoluto.

14 Anweisung, p. 422 (trad. it. cit., p. 262). Corsivi di Fichte.

15 L’iniziazione alla vita beata è l’introduzione della coscienza (cioè l’esistenza) al cammino che essa è necessario che compia per potersi unire a Dio, in Dio. Il senso di questo cammino è quello dell’abbandono delle immagini esteriori del mondo (il

topos è neoplatonico-agostiniano), cioè dell’abbandono della maniera ordinaria di

come comprensione objettiva dell’essere come sostanza. Ciò che, alla luce di questo abbandono, la coscienza guadagnerà è un diverso grado di consapevolezza, nei con- fronti del suo stesso essere. Superata la concezione ordinaria dell’essere come so- stanza, la coscienza è introdotta alla concezione dell’essere come vita, ovvero come

sentimento di sé e come sapere, sapersi. Ma scoprendosi costituita nel sapere, in

quanto sapersi, la coscienza scoprirà altresì di non essere essa stessa l’origine del suo stesso essere. Questa origine essa la potrà trovare in un sapersi altro, un sapersi il cui senso è di essere ciò che la coscienza non è né può mai aspirare ad essere, e cioè l’origine del sapere stesso in quanto essere assoluto. In questo abbandono del mondo – che è un ritorno all’origine – è la disposizione “religiosa” della coscienza ed insieme la Darstellung propria della Religionslehre.

16 Cfr. Anweisung, p. 418 (trad. it. cit., pp. 258-259).

17 Cfr. Anweisung, p. 412 (trad. it. cit., pp. 253-254). Sul problema dei rapporti fra religione e filosofia in Fichte, e in particolare sul problema dei rapporti fra l’Anwei-

sung del 1806 e la Wissenschaftslehre del 1804, si rinvia ancora una volta soprattut-

to al monumentale lavoro di M.GUEROULT,L’évolution et la structure…, cit., pp.

La “preparazione” a cui la Religionslehre introduce rinvia diretta-

mente alla concezione fichtiana del pensiero, ovvero dell’esistenza [Da-

seyn], e dell’essere [Seyn]. In riferimento a quest’ultimo, nella lezione

inaugurale Fichte afferma esplicitamente di rifiutare la definizione, pro-

pria della concezione ordinaria, dell’essere come sostanza. Nell’Anwei- sung si legge, infatti:

L’essere – l’essere dico – e la vita sono poi un’unica e medesima cosa. Sol- tanto la vita può esistere autonomamente, in se stessa e per se stessa; e di nuo- vo la vita, nella misura in cui sia soltanto vita, comporta l’esistenza. Normal- mente si pensa l’essere come qualcosa di statico, rigido e morto; anche i filo- sofi, quasi senza eccezione, lo hanno pensato in questo modo, persino quando lo presentavano come assoluto. E ciò deriva unicamente dal fatto che, per pensare l’essere, invece che da un concetto vivo, si muoveva da un concetto morto. Non nell’essere in sé e per sé sta la morte, ma nello sguardo apportato- re di morte del morto spettatore. Che in questo errore stia la fonte principale di tutti gli altri errori e che a causa di esso il mondo della verità e il regno de- gli spiriti si chiudano per sempre allo sguardo, è quanto abbiamo indicato al- trove per lo meno a coloro che sono in grado di intendere queste cose; qui è sufficiente la semplice citazione storica di questo principio18.

La versione filosofica dell’ordinaria concezione dell’essere quale

substantia considera l’essere come assoluto “in sé”, ossia realtà perfet- tissima, autonomamente sussistente e perciò separata, cioè sussistente

indipendentemente da ogni tipo di rapporto [Verhältnis]19. La substantia

rifiuta nel suo concetto il rapporto20 come determinazione essenziale

per la propria struttura d’essere. Ricondotto il senso dell’autonomia dell’essere al fatto d’esser libero, sciolto [ab-solutus] da ogni rapporto, l’essere è assunto alla stregua d’una materia inerte, ossia d’una realtà non soltanto isolata rispetto a qualunque cosa d’altro (sempre pensato in termini di sostanza) ma anche e soprattutto come opaca a se stessa. Posto che il rapporto non ha alcun valore ontologico, la concezione ordinaria dell’essere conduce all’assurda tesi secondo cui in quanto

18 Cfr. Anweisung, pp. 403-404 (trad. it. cit., p. 247). L’ultimo riferimento di Fichte è alla Wissenschaftslehre del 1804.

19Sulla definizione fenomenologica del senso della sostanza, cfr. supra, Introd., § 2. 20

Per costituirsi come tale, la sostanza non necessita di sapersi. In ciò è da intendersi la sua autonomia, vale a dire l’indipendenza rispetto alla struttura fenomenologica del rapportarsi-a-sé, sì che la “realtà” della sostanza individua una realtà objettiva “opaca” in senso assoluto.

assoluto – e cioè, in ragione dell’assolutezza che è propria della sostanza intesa come realtà priva di relazione a se stessa come ad altro – l’essere non sa se stesso.

Nel passo precedentemente citato, Fichte paragona pertanto l’essere così concepito ad una spoglia “morta”, aggiungendo però la clausola non trascurabile secondo cui: «Non nell’essere in-sé-e-per-sé sta la mor-

te, ma nello sguardo apportatore di morte del morto spettatore»21. La

“morte” dell’essere non è qualcosa di originario, non appartiene all’es- sere in quanto tale, ma è legato unicamente al modo in cui esso è com- preso. Il senso della metafora della “morte” rinvia non all’essere, bensì al pensiero, ovvero al modo in cui l’esistenza si comprende e interpreta la sua stessa costituzione essenziale. Si ha “morte”, sul piano ontologi- co, allorché il pensiero, interpretandosi esso stesso come sostanza (e perciò come separato rispetto all’essere), misconosce il senso del rap- portarsi-a-sé che lo costituisce come esistenza e coscienza. Destituendo

di ogni valore il rapporto come tale, il pensiero finisce cioè col “chiude-

re” l’essere nell’assurdità di un “in sé”, in un silenzio ed un isolamento inoltrepassabili.

Diversamente, al di là delle distorsioni nelle quali il pensiero si la- scia naturalmente coinvolgere, il darsi dell’essere überhaupt è presenta- to da Fichte come vita. E la “vitalità” dell’essere è riconosciuta nel suo costituirsi in quanto rapporto. L’essere, afferma perentoriamente Fichte, non rigetta il pensiero. Religiosamente inteso, il senso della sua autono- mia non è tale da escludere la possibilità di esser saputo nel modo del- l’esistenza, ma anzi include in se stesso siffatta possibilità come ciò che proprio nel costitutivo rapportarsi-a-sé che ne determina la struttura in-

terna può trovare, infine, il fondamento proprio. In questo senso si può

dire, in via del tutto preliminare, che il rapporto fondamentale dell’esi- stenza con l’essere è esso stesso riconosciuto e pensato, dalla coscienza religiosa, come fondato sul rapporto che essenzialmente l’essere intrat- tiene con se medesimo.

La struttura fenomenologica dell’essere non esclude il rapporto, bensì lo integra in un sapersi del rapporto che sa se stesso in quanto tale. La “vitalità” dell’essere è riconosciuta nel suo costituirsi in quanto rap- porto che sa se stesso in sé. In tal modo, ricondotto sia il rapporto sia il

sapere all’interno della struttura fenomenologica dell’essere, ne viene che l’inseità dell’assoluto non ha più nulla a che vedere con la mera “sostanzialità” dell’assolutamente irrelato. Posta la non originarietà del- la sostanza, il senso “vitale” dell’essere in quanto assoluto sta nel fatto che l’in-sé si costituisce come tale solo nella misura in cui esso è posto in rapporto a se medesimo ed è posto in esso in maniera tale per cui sa se stesso come non altro che questo stesso rapporto.

La vitalità, lo strutturarsi dell’essere in quanto rapporto – tutti con- trassegni della originarietà del suo mostrarsi – sono essenzialmente pen- sati dalla coscienza religiosa in riferimento al carattere di unicità del- l’assoluto. Tale unicità si esprime nel fatto che, per rapportarsi a sé, l’es- sere non necessita d’altro, esso cioè non necessita di qualcosa di etero-

geneo rispetto alla sua propria essenza. Piuttosto, al fine di rapportarsi a

sé, è l’essere stesso a farsi altro da sé, in maniera tale per cui, però, se considerata in riferimento alla sua origine, siffatta alterità, nei confronti della quale l’essere realizza il suo proprio mostrarsi, altro non si rivela essere se non pur sempre l’essere medesimo.

Compresa alla luce del rapporto, la tesi dell’unicità dell’essere affer- ma che: l’essere non si rapporta ad altro se non a se medesimo. Il che

significa: si dà in-sé soltanto nella misura in cui questo è strutturato in

quanto per-sé, ovvero in quanto coscienza, rappresentazione di se me- desimo22. Per potersi costituire come assoluto, l’essere-in-sé deve poter essere innanzitutto posto in rapporto a se medesimo, ovvero farsi per- sé, realizzare il suo proprio mostrarsi nel modo del sapersi, del sapere se stessa in quanto tale.

Posto allora che nulla si dà oltre l’essere se non l’essere medesimo, spiega Fichte proseguendo nell’esposizione della dottrina della religio-

ne, solo l’essere esiste23, sì che l’esistenza [Daseyn], sottratta al valore

relativo che essa di volta in volta assume agli occhi del pensiero (finito),

è in tal senso intesa, propriamente, come la struttura del mostrarsi del- l’essere in quanto assoluto (essere-in-sé-e-per-sé). Nel senso dell’unicità dell’essere, l’esistenza si determina come la struttura entro cui, per mez- zo dell’istituzione del per-sé, l’essere realizza il suo mostrarsi in quanto

22 Cfr. Anweisung, p. 440 (trad. it. cit., p. 278). 23 Cfr. Anweisung, p. 405 (trad. it. cit., p. 248).

“sapersi”, cioè in quanto rappresentazione [Vorstellung]24. Ciò, d’al- tronde, è quanto lo stesso Fichte sottintende allorché, nella citazione precedentemente richiamata, egli dichiara: «Soltanto la vita può esistere autonomamente, in se stessa e per se stessa; e di nuovo la vita, nella mi-

sura in cui sia soltanto vita, comporta l’esistenza»25. L’essere si dà in

quanto assoluto ed in quanto vita nella misura in cui sa se stesso in sé.

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