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La documentazione riguarda una serie di campioni delle singole plaghe della regione, sui qua li si possono aprire ulteriori approfondimenti storico-formali; da essa sono stati deliberatamen-

Nel documento Selezioni di alcuni scritti (pagine 79-84)

te esclusi i grandi centri, per la ovvia impossibilità o difficoltà di esaurirne sia la illustrazione,

sia la problematica delle relazioni fra centri storici e sviluppi moderni. Scontato quindi questo

carattere antologico del lavoro, ci sembra tuttavia che possa essere legittimato il tipo di inte-

ressi che, in tutte le sue relazioni, questo campo di indagine ha offerto ed offre.

Sono stati preparati per il volume due saggi, uno dell’arch. Gianfranco Di Pietro ed uno

dell’arch. Giovanni Fanelli, che puntualizzano – al momento attuale – da un lato la metodo-

logia di analisi storica di questi centri, dall’altro il dibattito tenutosi nell’ambito della cultura

urbanistica più recente, riguardo ai problemi insorgenti dallo stato di questi centri.

I due saggi, pur dovendosi considerare aperti, com’è naturale, ad ulteriori integrazioni ed

apporti, hanno fra l’altro il merito di non essere nati da un lavoro di compilazione, anche se

criticamente meditato, ma di essere direttamente scaturiti e maturati dalla ricerca sul vivo, e

cioè sul rilievo e l’analisi degli insediamenti in corso di studio, di cui appunto il libro presenta

una serie di significativi esempi. A questo tipo di esperienza, al quale fu dedicata anche parte

di un corso universitario, collaborano da tempo gruppi di giovani ricercatori.

Questa direzione d’interessi e di studi (che ci fa piacere di avere stimolato) rappresenta per molti giovani studiosi, la quasi necessaria alternativa ad un’attiva partecipa- zione ai progetti di pianificazione, e in special modo a quella dei piani regolatori. Infatti da alcuni anni non è più possibile proseguire con severa consapevolezza e serietà questo tipo di lavoro, che a causa della rinuncia della classe politica ad affrontare risolutamente i gravi problemi della pianificazione, privo com’è di una base scientifica, è divenuto la manifestazione deformata di ambizioni municipalistiche e il compromesso più avvilente con i programmi degli interessi privati.

Per un certo riguardo d’altronde, questo genere di ricer- che ci viene quasi imposto dal fatto che probabilmente noi cogliamo oramai le ultime testimonianze di un sistema di rapporti sociali ed economici e di tipi di comunità che vanno lentamente, ma ineluttabilmente scomparendo. Questo privilegio, che è ancora nostro, è difatti destinato a venir meno in un breve lasso di tempo. Ed è quindi di estrema attualità affrontare oggi questo lavoro che del resto si pone e si traduce più propriamente nell’ambito della problematica urbanistica attuale.

E infatti non sono soltanto gli aspetti interni degli edifici e dei tessuti in trasformazione che pongono una serie di problemi, ma è il rapporto fra i centri e il territorio. Ciò riguarda tanto le aree scoperte interne e di contorno, che vanno via via scomparendo, coperte da incrementi edilizi o abbandonate, quanto la dimensione economica e pro- duttiva del territorio, già essenzialmente agricola, che è travolta da inserimenti improvvisi di attività produttive di tipo industriale, oppure è quasi completamente abban-

donata.

Sugli esempi documentati sono state compilate delle schede, le quali, insieme alla illustrazione fotografica aerea e da terra, e mediante i raffronti planimetrici fra le situazioni del secolo scorso e quelle odierne, indicano appunto criticamente lo stato di sviluppo ed i casi di effrazione edilizia più sconvolgenti ed insensati. Dovendo trattare della situazione generale attuale (e sempre escludendo le città maggiori) è opportuno per comodità fare almeno una classificazione di due catego- rie. La prima è quella dei centri già notevolmente trasfor- mati nei loro tessuti e nella loro consistenza dalle entità delle trasformazioni e dalla agglomerazione, sempre amorfa, degli sviluppi esterni.

L’altra categoria è quella dei centri e degli insediamenti rimasti fuori dal giro delle sollecitazioni e degli interessi economici attuali; essi si trovano in uno stato di pro- gressivo abbandono, che lentamente mina la resistenza degli edifici, in gran parte abbandonati o negletti dagli abitanti.

Specialmente nell’ambito della prima categoria è op- portuno intanto prendere le mosse dalle epoche in cui è avvenuta la rottura espansiva fuori degli anelli murati, e osservare i modi con i quali è avvenuto lo sviluppo esterno. In generale, le afferenze stradali ai centri che immettevano nelle porte di entrata sono stati i luoghi in cui lentamente le necessità si sono date ordine a formare, prevalentemente in due o più direzioni opposte, nuovi borghi. Molte volte, invece, l’esigenza di apertura si è tradotta in atti di pianificazione precisi e responsabili, con la creazione di spazi urbanistici esterni alle mura, di- segnati e talvolta anche regolati nella tipologia edilizia. Sono i casi, per esempio, di Stia nel Casentino, che

dall’altra parte dello Staggia, fuori cioè del nucleo origi- nario, ha dato forma alla piazza del giuoco, rettangola- re con alcuni portici e alberature, dove si trasferiscono le attività di mercato e, appunto, di giuoco.

È il caso di Pratovecchio, con una grande piazza per due lati porticata, sulla parte sud-orientale, ed è il caso di Poppi e Colle VaI d’EIsa, che hanno dato vita nella valle ad una piazza e a un nuovo nucleo basso, ad integrazio- ne di quello antico, configuratosi sullo sprone o sull’acro- coro collinare.

Inoltre a Pescia due piazze, anche se abbastanza mode- ste rispetto all’entità e all’importanza dell’insediamento, si aggiungono verso valle, a istituire fuori della linea della vecchia cerchia, sulla destra del fiume, una sequen- za di spazi di addizione alla lunghissima e bella piazza interna. Lo stesso infine è accaduto a Pietrasanta, dove si sono istituite due piazze consecutive, e quindi il foro boa- rio, all’apice nord-orientale del vecchio insediamento. In qualche altro centro, sempre restando nel novero degli insediamenti illustrati, si sono formati esternamente slarghi con giardini pubblici. Si tratta di imprese ripetute, e an- che di ordine abbastanza modesto, se si vuole, destinate in genere esclusivamente a pubblico decoro, con tanto di monumento a Garibaldi o a Vittorio Emanuele, ma che sono almeno servite a provvedere il vecchio centro di uno spazio pubblico e di servizio per fiere o mercati, nonché a fornire una cerniera di articolazione fra il vecchio e il nuovo, che spesso contribuisce a isolare e a porre in evidenza le antiche opere di fortificazione.

Nella varietà dei casi è difficile cogliere – almeno negli insediamenti di non grande entità – la fase degli interventi che mediano la crescita più recente, fuori dal precedente disegno murato. Spesso la costruzione

della ferrovia, e quindi delle stazioni, ha fornito per gli insediamenti di valle indirizzi ed articolazioni alla crescita successiva, talvolta arginando per un certo tempo e da una banda lo sviluppo (vedi Pietrasanta, S. Giovanni Valdamo, Montevarchi ecc.), talaltra istituendo nuovi assi. Facendo un confronto con oggi, questi tipi di interventi del secolo scorso e dell’inizio di questo (che sono anche più evidenti nelle città maggiori) ci appaiono per le capacità di decisione ed i mezzi impiegati per attuarli (espropri, regolamenti ecc.), addirittura notevoli.

Infatti, salvo queste operazioni che appunto rappresen- tano in qualche modo determinazioni pianificate, anche se solo episodiche, lo sviluppo, specialmente negli ultimi decenni, non ha avuto un disegno, e ciò indipendentemen- te dalla giacitura degli insediamenti. Fanno eccezione in genere i centri dove l’orografia ha determinato una permanente e netta chiusura del vecchio nucleo murato verso l’esterno, impedendo così un completo sviluppo avvolgente.

Come dimostrano molti degli esempi che sono stati illu- strati, la pressione degli interessi privati ha spesso, spe- cialmente negli ultimi anni, rotto anche tali isolamenti con incredibili quanto disastrosi interventi talvolta di nessuna significazione o entità urbanistica, oltremodo offensivi dell’integrità formale del vecchio nucleo.

Il raffronto che si è voluto fare nei casi presi in esame, fra le crescite moderne e le vecchie strutture, mette in evidenza, anche alla prima impressione visiva, una totale incapacità di accordo e di integrazione, quali che siano. Se la rottura di una continuità è un fatto ormai scontato – anche se poi le moltiplicate crescite urbanistiche gravi- tano sugli stessi centri storici – si deve constatare che il contrasto non è solo di natura formale (diremmo architet-

tonica) ma è dovuto alla incapacità attuale di inserire nel processo urbano operazioni d’intervento e d’integrazione che abbiano un carattere di radicalità e cioè operazioni intieramente pianificate e programmate.

Per gli insediamenti in depressione o in abbandono, che sono poi generalmente le «terre alte», si offrono, proprio nei nuovi ritmi spaziotemporali della vita moderna, svariate possibilità di una integrale riutilizzazione che è spesso dimostrata da tendenze in atto; lo significa il recu- pero graduale delle abitazioni, da parte di una popo- lazione urbana o di ritorno, per usi di riposo o di tempo libero. Di fronte alla alternativa di una perdita totale, può non essere spregiudicato considerare tali tendenze, che indicano nuovi ed impensati tessuti sociali, come una possibilità non solo di riattivazione e di conservazione, ma addirittura di precise e specifiche destinazioni di uso. Si sono verificati in qualche parte del paese tentativi di trasformare alcuni di questi centri, situati spesso in am- bienti di altissimo valore paesistico, in una specie di unico grande albergo, in centri per incontri culturali, per stages didattici e scientifici, sistematicamente ordinati, e cioè per destinazioni complementari alle attività e alla vita della città. Esempi di iniziative di questo genere non manca- no: da alcuni centri liguri della valle di Magra, ad altri in alcune isole, a Erice in Sicilia e – all’estero – al caso della Tunisia dove alcuni caravanserragli, vecchi villaggi,

gerflak, vengono interamente adattati in case-albergo

con decise azioni di piano. Ciò dimostra che un inquadra- mento economico e sociale del territorio può fornire non solo indicazioni, ma anche possibilità di intervento per la riabilitazione ed il reinserimento attivo della serie di questi centri.

Sembra dunque opportuno che l’interesse sia portato –

come era del resto al centro del tema della mostra di Lucca – sulla storia attuale degli insediamenti antichi e dei loro manufatti. Questa dimensione implica, in ambedue i casi delle categorie che abbiamo preso in considerazio- ne, lo studio di questi centri sotto ogni rapporto: storico, formale, economico, strutturale, di consistenza ed infine di rapporto con le nuove forme di economia che vanno individuate e pianificate.

A nostro avviso il già lungo dibattito culturale intorno ai centri storici non può non superare i termini di una disqui- sizione problematica e deve tradursi nella individuazione delle più esatte metodologie di lettura e di studio e quin- di in esperienze e valutazioni controllabili e verificabili, come verificabile e controllabile deve essere la dinamica economica e sociale che investe questi centri.

Si tratta in sostanza di operazioni, in qualche caso tentate, nei limiti del rilevamento di qualche settore o di qualche centro urbano, ristretto però all’esame della consistenza del tessuto edilizio e della sua qualificazione (o squalificazione), dei relativi servizi e così via. Non esi- stono viceversa, per quanto ne sappiamo, presso nessuna pubblica amministrazione, servizi che controllino periodi- camente i gradi di mobilità e di trasformazione delle at- tività produttive commerciali, nonché della popolazione. In una parola, o si ha la capacità, con la relativa organiz- zazione, di seguire nei suoi aspetti fenomenici e attuali lo stato dei centri storici, oppure il concorso degli studi non può che limitarsi a un rilievo di strutture destinate a trasformarsi, caso per caso, secondo qualche generico indirizzo di piano regolatore e secondo l’applicazione discrezionale di vincoli, che le nostre vecchie leggi attri- buiscono all’opera delle Soprintendenze ai Monumenti. Il discorso ci trasporta immediatamente al problema del

rapporto fra iniziativa e organizzazione dei pubblici po- teri (Stato, Comuni, Enti speciali, Uffici tecnici) e l’iniziativa privata.

Molti anni fa, considerata anche la impreparazione e inadeguatezza dei pubblici controlli (che tuttavia hanno consentito così gravi alterazioni e deturpazioni in centri grandi e piccoli, fuori e dentro le vecchie cerchie murate e i vari perimetri), emerse la proposta di una specie di figura tecnica attiva, che si definì come 1’«urbanista con- dotto». Doveva essere, questo, una specie di consulente pianificatore, che specie negli ambiti e nelle zone esterni, dove l’organizzazione pubblica è ovviamente meno attrezzata e preparata, provvedesse non solo ai controlli con competenza specifica, ma studiasse e prevedesse le azioni d’intervento attraverso studi dettagliati di piano particolareggiato, di restauro, di ristrutturazione ecc., in- tervenendo ad indicare correttamente l’uso dei materiali, colori, dimensioni ecc., fino alla vegetazione in modo da consentire un’attiva conservazione e trasformazione dei vecchi centri e delle loro adiacenze.

oggi, ovviamente, l’entità e la natura dei problemi portano a considerazioni di carattere politico e di or- ganizzazione dello Stato e delle Amministrazioni locali su basi completamente rinnovate e diverse. Bisogna cioè accedere ad una scientificazione degli apparati tecnici culturali, e far sì che gli enti pubblici si adeguino a nuove basi di piano, come ad esempio il comprensorio, che ve- niva assunto come nuova unità organica per l’organizza- zione tecnica ed operativa per la pianificazione integrale dei territori, nelle recenti – fallite – proposte di riforma urbanistica.

Tale tipo di organizzazione e la formazione di équipes specializzate in cui, con l’apporto di varie discipline

si possono controllare, studiare ed infine regolare le trasformazioni degli insediamenti e dei territori, vanno viste di pari passo con la necessità di trasformare principi costituzionali riguardanti la proprietà, le leggi, gli uffici e gli strumenti di piano ormai superati. Esse vanno inoltre in parallelo con la necessità di recuperare una coscienza urbanistica della città che possa tradursi in una volontà collettiva di pianificare, tradita oggi da strumenti ammini- strativi non solo inadeguati, ma spesso succubi e complici della speculazione privata, che bada ad un profitto immediato, depauperando strutture, valori urbani e lo stesso territorio.

Ne è un esempio eloquente e drammatico la situazione delle fasce costiere, travolte e distrutte nei loro valori e nella loro dimensione di uso, dal più massiccio intervento privato, senza che per contro si sia stati capaci di istituire in tutto il paese un solo nuovo parco nazionale. Ne sono appunto esempio drammatico i territori ed i centri di più profonda ed articolata civilizzazione storica, nei quali, come in molti dei casi citati, si sono concesse generosa- mente licenze edilizie sugli spazi adiacenti e prossimi alle antiche cerchia murate, che vediamo spesso per contro fieramente illuminate nella notte con spettrali e dispen- diosi fasci di luce elettrica.

Concludendo e ragionando in termini di pianificazione si deve dire che la sorte, la conservazione degli antichi cen- tri e dei valori spaziali, architettonici e la storia che essi contengono, non costituiscono in definitiva un problema particolare. La degradazione dalla quale sono segnati in ogni caso dipende non tanto e non soltanto dalla inca- pacità di porre lo sviluppo contemporaneo in termini di coesistenza e non di antitesi, quanto dal non saper volere pianificare, e quindi costruire, la città moderna.

Nel documento Selezioni di alcuni scritti (pagine 79-84)

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