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3. Anatomia del “collaborazionismo” femminile: donne tra guerra totale, guerra civile

3.4. Donne armate: rastrellatrici e torturatrici

Le donne violente e armate sono viste da sempre come minaccia al presunto ordine naturale delle cose, in cui agli uomini spetta il compito di occuparsi della res publica, della politica e della guerra, e alle donne della cura familiare e del domestico. Nonostante ciò le guerre moderne, guerre totali in cui non esiste più distinzione tra fronte e retrovie, tra pubblico e privato, coinvolgono tutti, combattenti e inermi, uomini e donne.

È soprattutto a partire dalla Prima guerra mondiale che le donne escono dalle case, prendendo il posto degli uomini nei luoghi di lavoro, quando la mobilitazione femminile, secondo le autorità degli stati belligeranti, ha però soprattutto una funzione sostitutiva: rappresenta cioè un’esigenza temporanea per liberare gli uomini per le armi, con scadenza col termine della guerra, quando la situazione torna alla normalità. L’altro ambito in cui le donne vengono inserite è quello assistenziale, nei corpi ausiliari e nella Croce rossa, contesti in cui le donne non si “snaturano”, mantenendo i compiti inerenti al lavoro di cura254.

Anche durante la Seconda guerra mondiale, come abbiamo visto nel secondo capitolo, nonostante le autorità fasciste utilizzino termini militaristi per mobilitare le donne a partire già dall’epoca sanzionista, l’attivismo femminile venne conformato dalle autorità della Repubblica sociale alla figura dell’ausiliaria, limitandone così i ruoli a quelli assistenziali, propagandistici e impiegatizi. Tuttavia, come si evince da alcuni casi citati nel paragrafo precedente, le donne debordano da quei confini, andando ad occupare posizioni altre a seconda del contesto. Le donne giungono anche ad armarsi,

253 Asto, Cas Torino, 1946, b. 259, fasc. 161, f. 8. 254

Sulla mobilitazione femminile durante la prima guerra mondiale, cfr. F. Thébaud, La Grande Guerra cit.; sulle donne nella Croce Rossa, cfr. S. Bartoloni, Italiane alla guerra. L‟assistenza ai feriti 1915- 1918, Venezia, Marsilio, 2003.

86 nonostante sia loro vietato ufficialmente dal regolamento del Saf, e a partecipare attivamente ad azioni antipartigiane, rastrellamenti, saccheggi, interrogatori e torture.

Spesso le donne, in qualità di delatrici, prendono parte e guidano rastrellamenti in zone che conoscevano bene, generalmente nei paesi dove abitavano. Bruna F. per esempio nell’estate del 1944 partecipa come guida del reparto germanico ad un’operazione di rastrellamento contro patrioti nel territorio di Rufina (Firenze)255

. Durante l’azione, nelle case ispezionate dai militi, la donna accusava fermamente i sospetti. Un testimone al rastrellamento infatti denunciava a conflitto concluso:

Il mese di agosto 1944 si presentavano vicino a casa mia una ventina di tedeschi che conducevano con loro un certo R[…]. I tedeschi mi domandarono se sapevo dov’erano i partigiani ed io risposi che non lo sapevo. Una donna vestita da uomo e cioè con la divisa da tedesco, bionda, conosciuta da me per la “Burinchia” […] insisteva col dire che nel mio molino praticavano i partigiani e che io dovevo sapere dove essi stavano256.

Uno dei rastrellati inoltre ricordava che la donna si era atteggiata in modo criminale e aveva invitato il comandante a bruciare la casa di un civile poiché vi dovevano essere, o vi erano stati precedentemente, nascosti partigiani257.

Anche Vania V., vestita in divisa militare da uomo, aveva guidato nell’aprile del 1944 un rastrellamento dei tedeschi nella zona di Monte Morello (Firenze), dove viveva insieme al padre e alla madre, fascisti di vecchia data. Il padre infatti era stato squadrista e aveva preso parte a varie spedizioni punitive nei primi anni del fascismo ed era stato segretario politico del fascio di Morello, la madre era sempre stata fascista, e nel paese godeva la fama di spia. Vania era stata educata ed era cresciuta nel mito del duce e del fascismo, aveva militato nelle giovani italiane distinguendosi in ogni dimostrazione fascista per il suo zelo. In occasione del rastrellamento si era data anche a saccheggi e furti di viveri e capi di bestiame258.

Anche Margherita N. era una fascista convinta. Nata a Barletta nel 1911 si era trasferita poi a Milano dove aveva sposato Ariostino I., squadrista e marcia su Roma. Nel febbraio 1943 era sfollata in un paese della provincia di Varese, dove veniva nominata presidente dell’Opera nazionale balilla e, successivamente, segretaria del fascio femminile, cariche che ricoprì anche dopo l’8 settembre. Nel dopoguerra fu celebrato un processo a suo carico presso la Cas di Varese per aver segnalato alla Gnr

255 Asfi, Corte d’assise di Firenze, fascicoli, fasc. 77/45 Bruna F. 256

Ivi, f. 4.

257 Ivi, f. 5 e segg.

87 rifugi di soldati sbandati, renitenti e partigiani, guidando i militi nelle azioni di rastrellamento e in altre azioni antipartigiane. Il Cln di Orino, in una relazione sui crimini commessi dalla donna, ricordava che il fascio locale aveva addirittura proposto una decorazione al valore per Margherita come riconoscimento per l’opera svolta nei rastrellamenti di partigiani259. Nel fascicolo di richiesta di grazia così si esprimeva in suo merito il procuratore del regno, ricordando che un atto di clemenza avrebbe prodotto una cattiva impressione nella zona:

Non si accontentò di essere la segretaria politica del fascio di quel paesello, ma denunziava e faceva arrestare patrioti e si compiaceva di intervenire e di assistere alle perquisizioni e ai rastrellamenti. Ricorse persino ad un inganno per attirare in casa sua un tal G., renitente di leva e farlo arrestare. Un atto di clemenza produrrebbe cattiva impressione260.

Fornire indicazioni e guidare azioni militari non sono però le uniche modalità con le quali le donne partecipano alle violenze fasciste e tedesche, rivolte non solo contro renitenti e partigiani, ma anche contro i civili. Linda D. per esempio, aggregata alla brigata nera di Apuania, svolse attività contro i partigiani e la popolazione civile, in particolare venne giudicata responsabile della partecipazione alla strage di civili di Bergiola Foscalina (Carrara) operata da soldati tedeschi della 16° SS Panzergrenadier- Division il 16 settembre 1944, in cui rimasero uccise 71 persone261.

Anche Giuseppina F. era aggregata a una brigata nera, in particolare al terzo battaglione della 31a brigata nera genovese “Silvio Parodi”, con sede a Chiavari, comandato da Vito Spiotta. Di Spiotta sembra condividesse i modi brutali con i quali svolgeva gli interrogatori dei prigionieri. Secondo le testimonianze delle vittime, il comandante affidava spesso a lei la responsabilità degli interrogatori, che conduceva picchiando e seviziando i perseguitati262.

259 Acs, Ministero di grazia e giustizia, Direzione generale affari penali, Grazie Casellario, Ufficio grazie,

b. 4, fasc. 264 Margherita N.; Acs, Ministero di grazia e giustizia, detenuti politici, fascicoli istituiti presso le singole carceri, b. 65, fasc. 1284 Margherita N. Il caso è citato anche in R. Cairoli, Dalla parte del nemico, cit., pp. 32-36.

260 Parere del procuratore del regno nei riguardi dell’istanza di grazia di Margherita Nagel avverso la

condanna della Cas di Varese del 29 maggio 1945 che l’aveva condannata a undici anni di reclusione, in Acs, Ministero di grazia e giustizia, Direzione generale affari penali, Grazie Casellario, Ufficio grazie, b. 4, fasc. 264 Margherita N.

261

Acs, Ministero di grazia e giustizia, Direzione generale affari penali, Grazie Casellario, Ufficio grazie, b.11, fasc. 0191 Gastone G. e altri, tra cui Linda D. La Corte di assise di appello di Ancona il 19 dicembre 1952 la condannava a 70 anni di reclusione per collaborazionismo politico ai sensi dell’articolo 58 Cpmg e per concorso in delitto di strage e devastazione. Successivamente, il 7 aprile 1953, il Tribunale di Perugia dichiarava inammissibile l’istanza di libertà condizionale.

262 Asge, Cas Chiavari, b. 11, fasc. Giuseppina F. Bisogna ricordare però che la Cas di Chiavari in data 27

88 Per alcune la violenza è metodo della guerra ideologica, che si collega a quella che è stata definita la “prima guerra civile” degli anni ’20. Maria S. infatti rivendica con orgoglio la propria appartenenza alle squadre d’azione dell’imperiese e le proprie azioni violente263. Il 23 marzo 1939 infatti scriveva al segretario federale del Pnf di Imperia per richiedere la qualifica di squadrista:

Io sottoscritta Rag. S. Maria, impiegata di ruolo nel comune di Sanremo, donna fascista iscritta al Pnf dalla fondazione, madre di 5 figli (4 viventi), porge rispettosa istanza a V. S. Ill.ma affinché voglia compiacervi e riconoscere e concedermi la qualifica di squadrista per mio alto onore e ad esempio dei miei quattro figli!

Specifico che negli anni 1920 e seguenti ero studentessa ad Imperia […] fui delle primissime fasciste ed appartenni alla squadra d’azione studentesca […]. Il capitano R[…] Giuseppe potrà confermare che ero con lui nella squadra quando diedero le salde manganellate al professor B[...] sul piazzale delle nostre scuole a Porto Maurizio […]

Io sono quella studentessa fascista che con il capitano R[…], P[…], tenente di vascello R[…], rag. Mario M[…], rag. M[…], capitano C[…], durante gli scioperi ferroviari nella stazione di P. Maurizio, ho attaccati due vagoni merci, ad un vagone viaggiatori il tutto pilotato da studenti[…] sfidando il pericolo minacciato che avrebbero fatto saltare il treno […]264

Aderire al fascismo repubblicano dovette dunque sembrarle una naturale continuazione di quella sua attività ante-regime: collaborava infatti come informatrice con brigate nere e SS tedesche, provocando arresti e rastrellamenti. Dai testimoni al processo venne descritta come donna violenta, che si aggirava armata per il paese alla ricerca di notizie scottanti da riferire ai suoi superiori. Così per esempio la descriveva un suo compaesano:

[…] è risultato che la S. Maria collaborava in tutti i modi con le SS tedesche, tanto che andava armata di pistola, che portava dentro la borsetta, arma che nessun’altra si sarebbe permessa di portare se non fosse stata autorizzata, come era lei, e se non avesse avuto i motivi per portarla265.

Maria S. fu responsabile solo indirettamente dei rastrellamenti, informando le autorità competenti della presenza di partigiani, tuttavia dimostrò sempre un carattere aggressivo. Diverse vittime riportavano alcune sue espressioni, in cui manifestava le sue

263 Asge, Cas Imperia, b. 34, fasc. 36/1945 Maria S. La Cas di Sanremo con sentenza dell’11 gennaio

1946 condanna l’imputata a 11 anni e 6 mesi di reclusione. In data 13 novembre 1946 però la Corte Suprema di Cassazione annulla senza rinvio perché il reato risulta estinto per amnistia. Sulle donne squadriste, cfr. D. Detragiache, Il fascismo femminile da S. Sepolcro all‟affare Matteotti. 1919-1925, «Storia contemporanea», a. XIV, n. 2, aprile 1983, pp. 211-251.

264

Istanza di Maria S. al segretario federale del Pnf di Imperia del 23 marzo 1939 per richiedere la qualifica di squadrista, in Ivi, f. 39.

89 intenzioni di agire in modo violento. Diceva per esempio Assunta G. nel verbale del 4 luglio 1945 nella stazione dei Carabinieri di Sanremo:

[…] Allora la S. aggiunse che [se] le avessero dato il comando a lei per 4 o 5 ore avrebbe distrutto tutti i ribelli e gli avrebbe tagliato gli organi virili e glieli avrebbe fatti mangiare prima di ucciderli266.

In queste dichiarazioni pesano certo alcuni stereotipi e immagini, che approfondiremo nella seconda parte della tesi, con le quali vengono descritte le nemiche politiche e in particolare le donne violente, rinviando ai topoi letterari della donna seduttiva e traditrice, della donna-vampiro ecc… In questa sede invece ci interessa soffermarci a prendere in esame alcuni casi emblematici di donne armate che parteciparono alle azioni violente dei corpi tedeschi e fascisti repubblicani.

Adriana B. fu accusata di aver guidato rastrellamenti, presenziato e partecipato attivamente a sevizie e di aver comandato un plotone di esecuzione267. Nata nel 1924, era cresciuta in un ambiente fascista, essendo il padre squadrista. Nel giugno 1944 era entrata in servizio come ausiliaria nella Gnr di Fabriano, ed era stata assegnata all’Ufficio Comando in qualità di dattilografa. Pare non avesse però le competenze per quest’impiego e ogni sua attività fu invece soprattutto diretta a rastrellamenti di partigiani, sia su ordine dei tedeschi che su quello del comando della locale Gnr, con conseguenti arresti, saccheggi, prelievi di ostaggi e fucilazioni di prigionieri. In particolare il 13 aprile 1944 partecipava ad un rastrellamento durante il quale indicava ai militi le persone sospette, facendole fermare ed arrestare. Durante quest’azione, in seguito alla delazione della donna, veniva arrestato il dott. Engels P., che veniva poi portato alla caserma della Gnr, interrogato, schiaffeggiato e percosso dal tenente Antonio G., comandante di quel reparto e, in seguito, fucilato. Se le Corti che la processarono, quella di Ancona e di Firenze, non riuscirono a provare il suo concorso nell’omicidio di Engels P., risultò invece dalle testimonianze la sua responsabilità nell’uccisione di due partigiani, Ivan S. e Elvio P., avvenuta il 2 maggio 1944, nel cimitero di Fabriano. Secondo la testimonianza di un milite della Gnr catturato e fucilato nel dopoguerra dai partigiani, Adriana avrebbe addirittura, in assenza del capitano G., dato l’ordine di esecuzione, sparando in aria un colpo di pistola268.

266 Verbale di Assunta G.del 4 luglio 1945, in Ivi, f. 27. 267

Asfi, Corte d’assise di Firenze, fascicoli, fasc. n. 10/1954 Adriana B.

268 Si deve tenere conto però del contesto di costrizione in cui spesso venivano rese le testimonianze di ex

90 Il giorno successivo inoltre i militi, comandati ancora dalla donna, catturavano Giuseppe P., soldato sardo sbandato, lo seviziavano e, dopo avergli fatto scavare la fossa, lo fucilavano sul posto269. Sembra che quest’omicidio fosse stato commesso dai militi in modo gratuito e arbitrario, senza una logica e un ordine preventivo.

Durante il processo Adriana negò sempre la sua responsabilità per questi due avvenimenti delittuosi, mentre ammise di aver partecipato a due rastrellamenti, nella zona di Varano e di Collamato, compiuti tra il 9 e l’11 maggio 1944, durante i quali, venivano catturati e prelevati alcuni ostaggi e la donna, armi in pugno, si dava insieme agli altri militi della Gnr, a perquisizioni, ruberie e saccheggi. In particolare in contrada Varano il rastrellamento aveva l’obbiettivo di catturare Franco F., giovane studente della classe 1926, che aveva preso parte a diverse azioni partigiane. La donna si dirigeva nella casa dove sapeva sfollato il patriota ma, non trovandolo, si indirizzava nelle abitazioni vicine e catturava 14 ostaggi, tra i quali sceglieva nove persone, compresi i familiari di Franco F., che venivano portati a Fabriano al comando della Gnr. Qui erano subito interrogati affinché confessassero dove si trovava il ricercato. Il giorno successivo cinque degli ostaggi venivano rilasciati, mentre gli altri quattro venivano minacciati di morte se entro quarantotto ore il partigiano non si fosse presentato. Per risparmiare la vita ai familiari l’11 maggio questi dunque si presentava alla caserma, dove veniva incarcerato tra i detenuti politici fino alla liberazione270.

Lo stesso giorno veniva arrestato, su ordine di Adriana B., anche il partigiano Rolando V., all’epoca appartenente all’aeronautica. In caserma la donna conduceva il suo interrogatorio e di tanto in tanto gli dava qualche ceffone, vista la sua ritrosia a rivelare la dislocazione dei partigiani. Alla fine dell’interrogatorio la donna lo minacciava di morte, dicendogli che se non avesse parlato avrebbe fatto la solita fine di Ivan S. e Elvio P. Il 16 dello stesso mese il partigiano subiva un nuovo interrogatorio, sempre condotto dalla donna, durante il quale veniva “ridotto irriconoscibile”271

.

Adriana B. quindi ben rappresenta quelle ausiliarie che nella realtà non si conformarono al ruolo ufficiale voluto dal regolamento, ma trovarono spazi diversi per

sempre attendibili. Durante i processi inoltre l’accusa ricorre spesso alle trestimonianze di ex fascisti uccisi nel fervore postbellico, che non possono confermare o smentire le dichiarazioni.

269 Asfi, Corte d’assise di Firenze, fascicoli, fasc. n. 10/1954 Adriana B. 270

Denuncia di Franca E., Franca V., Franca S. al Comitato di epurazione di Fabriano del 30 agosto 1946, in ivi, fasc. Corte d’assise di Ancona – Sez. Speciale, Vol. I, f. 165 e segg.

91 esercitare il proprio potere e compiere crimini violenti, adattandosi alle pratiche delittuose e all’universo culturale violento dei corpi armati fascisti repubblicani272

. Un altro caso che deve essere analizzato è quello di Maria Z., detta altrimenti la “donna velata”, per il travestimento che usava portare nelle azioni a cui partecipava273

. Nata nel 1916, originaria di Scido, in provincia di Reggio Calabria, si era trasferita in Francia con la famiglia antifascista, si era sposata nel 1936 con un cittadino francese ad Antibes. Arrivata in Italia, in seguito alla liberazione della Francia perché appartenente al Partito Popolare Francese, si era finta un’antifascista catturata e scappata dalle truppe tedesche, che avrebbe dovuto essere deportata in Germania come lavoratrice coatta. Nell’ottobre del 1944, per intercessione del partigiano Salvatore C., otteneva rifugio presso l’abitazione della signora Lucia I., dove entrava in contatto con una rete di partigiani e veniva a conoscenza della dislocazione di armi e di uomini. Dopo circa un mese Salvatore C. la accompagnava a S. Agata presso l’abitazione di Faustino Z., che aveva l’incarico di affidarla a una persona di fiducia che la conducesse presso le formazioni partigiane di Villa Talla da dove, dopo un certo periodo, avrebbe dovuto passare la frontiera per rientrare in Francia. Durante questo tentativo, il 3 gennaio 1945, a Ventimiglia, veniva fermata e arrestata dalla Gnr locale, insieme a Elisabetta R. Riportava il comandante Salvatore N. nel verbale di fermo della donna:

Si è proceduto al fermo della nominate in oggetto, espatriate volontariamente dalla Francia in seguito allo sbarco Anglo americano, la prima perché appartenente al Fronte Popolare Francese [sic], la seconda perché appartenente alla Milizia Francese. Le suddette si sono presentate a questo Comando dichiarando di voler oltrepassare il fronte di guerra per raggiungere i loro parenti nella Francia occupata. Spontaneamente hanno fatto dichiarazioni sul Comitato di Liberazione di Imperia, sulla banda “Pelletta” come da accluse dichiarazioni scritte.[…]274

272 La vicenda processuale di Adriana B. si trascinò per diversi anni: detenuta dal 20 giugno 1946, fu

processata dalla sezione speciale della Corte di assise di Ancona, che la condannò alla pena capitale il 29 marzo 1947. Dopo aver presentato ricorso, la suprema Corte di Cassazione il 15 marzo 1949 rinviava il giudizio alla corte d’assise di Firenze, che con udienza del 27 ottobre 1949 dichiarava colpevole l’imputata di collaborazionismo (art. 51) e di omicidio continuato e aggravato, condannadola all’ergastolo, che veniva però commutato in trent’anni di reclusione, escludendo le aggravanti della premeditazione e delle sevizie. Veniva allora presentato un secondo ricorso alla Corte di Cassazione che, il 28 maggio 1952, designava per il giudizio di secondo grado la Corte d’assise di appello di Perugia, che con sentenza del 28 aprile 1953, in riforma della sentenza della Corte d’assise di Firenze, assolveva l’imputata dal delitto di collaborazionismo militare per intervenuta amnistia e la assolveva dal delitto di omicidio continuato per insufficienza di prove.

273 Asge, Cas Imperia, b. 36, fasc. 82 Maria Z. Il caso ha una grande risonanza pubblica nell’imperiese,

cfr. anche F. Alberico, La “donna velata”: un caso di collaborazionismo femminile nell‟imperiese, «Storia e memoria», 1, 2008, pp. 49-67.

274 Verbale di fermo di Maria Z. e Lisetta R.del 3 gennaio 1945, inviato dalla Gnr di Ventimmiglia al

92 Da quel momento sembra che Maria fosse stata aggregata alla squadra imperiese della Gnr, comandata dal tenente V. La donna, sempre mascherata, con divisa da uomo e occhiali neri, per nascondere la propria identità di genere e personale, partecipava nel mese di gennaio a numerose operazioni militari, durante le quali venivano arrestati i partigiani e i fiancheggiatori che le avevano dato alloggio dall’ottobre 1944 al gennaio 1945. In particolare l’11 gennaio avveniva un rastrellamento nella zona S. Lucia- Budamà, durante il quale venivano fermati alcuni uomini, poi portati alla caserma della Gnr, interrogati e percossi. In particolare il ricercato principale era Salvatore C., che però riusciva a fuggire e a nascondersi in un rifugio sotterraneo. Maria Z. e gli altri militi della Gnr, arrivati nella sua abitazione, trovavano soltanto la signora Lucia I., la donna che per prima aveva ospitato Maria al suo arrivo in Italia, a letto perché degente dopo aver subito un’operazione chirurgica. La donna veniva trasportata all’ospedale di Oneglia dove veniva sottoposta alle prime torture e, successivamente, nonostante il parere contrario del medico, veniva portata alla caserma della Gnr. Riprendevano così gli interrogatori, durante i quali la “donna velata”, coadiuvata dal tenente V. e da altri militi, percuoteva la vittima e la seviziava con scudisci, bastoni, corde, le bruciava vari parti del corpo, tra cui gli organi genitali e il seno, e le veniva fatto ingoiare un liquido che le provocava problemi viscerali275.

Nella stessa occasione veniva anche fermata e arrestata la moglie di Salvatore C., successivamente rilasciata, e nella sua abitazione venivano requisiti oggetti vari.

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