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3. Anatomia del “collaborazionismo” femminile: donne tra guerra totale, guerra civile

3.3. Violenza partigiana e guerra civile

Le vicende di molte donne si inseriscono appieno all’interno delle dinamiche della guerra civile. Esse infatti entrano in contatto con fascisti, tedeschi e partigiani, e le loro azioni, come abbiamo visto hanno conseguenze rilevanti per le dinamiche belliche. Inoltre in diversi casi la scelta di agire dalla parte del nemico avviene anche dopo aver subito in prima persona, o dopo aver assistito, alle violenze inflitte dai partigiani. Bisogna certamente domandarsi se, anche in questo caso, la giustificazione della violenza inflitta attraverso la violenza subita non sia che una strategia difensiva, tuttavia in ogni caso queste vicende raccontano e svelano alcuni tratti delle relazioni italo- italiane e alcuni caratteri della violenza partigiana.

Nel dicembre 1944 per esempio Giuseppina C. e sua sorella si erano trasferite da Mondovì a Vasia (Torino), per partecipare alla stagionale raccolta di olive. Durante la loro permanenza nel paese, avevano stabilito rapporti di amicizia con un gruppo di partigiani, con i quali si intrattenevano spesso, e in particolare Giuseppina si era fidanzata con uno di loro, Giuseppe S. La loro relazione era trascorsa serenamente, finché il partigiano aveva trovato una lettera scritta dalla donna a un milite della compagnia Ordine Pubblico (OP) di Savona. Dalla deposizione dello stesso partigiano al processo sembra che il contenuto della missiva fosse privato, sembra insomma che la

81 donna avesse anche col milite fascista repubblicano una relazione amorosa. Tuttavia Giuseppina e la sorella furono sospettate e accusate dai partigiani di essere delle spie infiltrate e, dopo otto giorni di reclusione e dopo aver subito un processo da un Tribunale partigiano, furono portate in una località appartata e fucilate. La sorella di Giuseppina moriva sul colpo, mentre lei, riusciva a salvarsi. Ferita a una gamba, si fingeva morta e successivamente riusciva a raggiungere la compagnia OP di Dolcedo e a mettersi quindi in salvo. La mattina seguente si offriva di guidare i soldati nella zona, per rintracciare il corpo della sorella. Veniva quindi avviata un’azione di rastrellamento durante la quale venivano incendiate diverse abitazioni239.

La vicenda, scaturita da motivazioni private, è ben esemplificativa dei meccanismi della guerra civile, e di come la scelta di collaborare con tedeschi e fascisti repubblicani potesse in alcuni casi scaturire in risposta alla violenza partigiana subita in prima persona o da familiari.

Alcune vicende rinviano a rancori che derivavano dalle violenze subite già prima dell’occupazione tedesca, in seguito alla caduta del fascismo. La cinquantenne Rosa Irene F., fascista dal 1921, squadrista e marcia su Roma, iscritta prima al Pnf e poi al Pfr e al Saf, denunciava, dopo l’8 settembre, due antifascisti che in seguito alla caduta del fascismo avevano festeggiato l’accaduto e l’avevano picchiata pubblicamente240

. In questo, come in altri casi, la reazione alla violenza subita si sovrapponeva ed accentuava piuttosto un impegno anteriore derivante dalla convinzione ideologica.

Le persone che subirono azioni violente dopo il 25 luglio erano infatti spesso noti fascisti nelle comunità locali, così come il marito di Giuseppina L. a cui, per l’attività svolta durante il regime, veniva incendiata l’abitazione. Dopo l’8 settembre i coniugi presentavano un esposto alla federazione con l’elenco di coloro che avevano incendiato la loro abitazione e inoltre estorcevano denaro ai responsabili sotto minaccia di denuncia. Nel luglio 1944 poi il marito veniva ucciso dai partigiani e la donna provocava quindi un rastrellamento da parte di forze della Gnr, durante il quale venivano catturati diversi partigiani, poi seviziati e uccisi241.

Le donne investite dalla violenza partigiana provenivano dunque generalmente da un ambiente familiare fascista e talvolta erano fasciste convinte esse stesse, tuttavia,

239 Non si può sapere se effettivamente le due donne fossero o meno informatrici infiltrate, tuttaviala Cas

di Imperia il 1/10/1945 assolve l’imputata perché il fatto non sussiste, accogliendo l’istanza difensiva di Giuseppina Comino che sosteneva di aver guidato i militi fascisti in rastrellamento solo al fine di ritrovare il cadavere della sorella. Cfr. Asge, Cas Imperia, fasc. 54/45.

240 Asto, Cas Torino, 1945, b. 239, fasc. 168 Rosa Irene F., ff. 28 e segg. 241 Asto, Cas Torino, 1945, b. 246, fasc. 281 Giuseppina L.

82 bisogna ricordare anche che il solo aderire ideologicamente al fascismo repubblicano non comportò sempre automaticamente l’adesione a disegni criminosi, e la scelta di agire e di partecipare in modo più attivo alla guerra civile scaturiva, in alcuni casi, in seguito alla violenza subita242.

Angela F. per esempio dall’aprile del 1944 si era iscritta al Pfr e dall’ottobre dello stesso anno nel Saf243. La Cas di Novara nel dopoguerra l’aveva condannata a 5 anni di reclusione, 8 mesi e 20 giorni, per aver partecipato alla cattura e alle percosse contro il partigiano Remo C. Angela stessa, durante il dibattimento, aveva dichiarato di aver denunciato per odio personale il partigiano, perché nel luglio 1944 aveva partecipato ad un’azione durante la quale veniva appiccato il fuoco all’abitazione dell’ausiliaria diciassettenne. Nonostante la motivazione privata, interessanti sono le osservazioni riportate dalla corte, a proposito della sua consapevolezza di compiere un atto politico:

[…] l’azione fu compiuta con ferma volontà e con la consapevolezza che l’arresto del C. era un atto politico, per fini politici da parte di chi lo compiva. La F. ha pertanto partecipato all’intenzione specifica, anzi ne è stata la promotrice, perché l’atto politico è stato in essa coscientemente voluto in quanto in tal modo si sfogava il suo rancore privato. Motivo privato pertanto, fine politico244.

In alcuni casi l’azione criminosa di cui le donne si macchiarono fu compiuta dopo aver subito il taglio dei capelli245. È il caso per esempio di Maria Agnese S. che, accusata di essere una spia, veniva catturata e, per volere del partigiano Vittorio G., veniva sottoposta all’umiliante pratica. Nell’ottobre 1944 quindi la donna, per riscattarsi dall’onta subita, contribuiva all’arresto del partigiano, partecipava al suo interrogatorio incitando i suoi commilitoni a fucilarlo e assisteva alla sua esecuzione246. Così è riassunta la vicenda sulle pagine de «La stampa», che commenta la condanna della donna a 30 anni di reclusione da parte della Cas di Torino:

Ieri mattina alla Corte d’assise straordinaria - pres. Cialente, proc. Gen. Muggia e canc. Quaglia – gabbia vuota! Avrebbe dovuto racchiudere una di quelle donnette già ausiliarie della Repubblica di

242 Certamente però anche nei casi che seguono deve essere tenuto presente che talvolta le imputate

ricorrevano alla motivazione della reazione alla violenza subita come strategia difensiva per attenuare le proprie colpe.

243 Acs, Ministero di Grazia e Giustizia, detenuti politici, fascicoli istituiti presso le singole carceri, b. 62,

fasc. 1211 Angela F. Il caso è citato anche in R. Cairoli, Dalla parte del nemico, cit., pp. 25-26.

244 Sentenza Cas Novara del 16 febbraio 1946, in Ibidem. 245

Pratica alla quale dedicheremo un apposito capitolo. Cfr. Parte II, capitolo 4, paragrafo 4.2, pp. 121 e segg.

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Salò e definite argutamente da un sostituto procuratore Generale come collaborazioniste sessuali, quindi non politiche e perciò amnistiate.

Era imputata tale S[…] Maria Agnese, ora di 27 anni, da Vicenza e già residente a Venaria. Essa è latitante e pare sia tornata nel Veneto. Ma grave fu la sua colpa. A Venaria si riteneva che oltre ai servizi ausiliari facesse la spia, sicché un bel giorno venne prelevata dai partigiani e sottoposta al taglio delle chiome e rimandata in paese. Una sera costei trovandosi al Cine Romano di piazza Castello scorse nella fila davanti uno dei partigiani che l’avevano [sic] tosata. Allora fece vista di nulla e in un intervallo uscì dalla sala recandosi a telefonare alla X Mas perché inviasse sul posto una pattuglia. Questa pochi minuti dopo irrompeva armata fino ai denti nel Cine e arrestava il malcapitato partigiano. Questi era certo G[…] Narciso che, mandato dal suo comando a Torino per una missione, non aveva resistito a passare una serata confortevole al Cine. Il destino volle che fosse veduto dalla S[…] la quale l’indicò decisa a quelli della Mas.

Il G[…] era in possesso di una pistola e perciò fu senz’altro messo al muro, appena fuori dalla Galleria e sommariamente fucilato malgrado un suo tentativo di difesa. Rapida l’esecuzione tre anni fa, rapido il processo ieri mattina contro l’autrice della tragica fine del partigiano. Il procuratore generale chiese la condanna della S[…] in contumacia a 30 anni di reclusione. […]247

Altre volte le donne reagirono invece alla violenza subita dai familiari. Pelagia T. per esempio, venne giudicata colpevole dalla Cas di Cuneo e condannata a 23 anni di reclusione per aver indicato la località in cui si trovava un gruppo di partigiani ai militi della brigata nera, guidandoli nel rastrellamento durante il quale, in uno scontro a fuoco, venivano uccisi sette partigiani, due venivano feriti e altri due catturati. L’imputata non negò la sua partecipazione all’accaduto, ma sostenne di aver agito soltanto per liberare la figlia, catturata e tenuta in ostaggio dai partigiani248.

Anche Rosa C., arrestata nell’aprile del 1945 e condannata dalla Cas di Treviso nel processo alla XX Brigata nera “Cavallin” a sei anni di reclusione per aver denunciato dei partigiani che venivano poi seviziati, aveva sporto denuncia dopo che, legata col fratello ad un palo, aveva dovuto assistere all’uccisione da parte dei partigiani della madre, ritenuta una spia249.

Maria Luisa D. invece aveva dovuto presenziare nell’agosto 1944 all’uccisione del padre, “fascista arrabbiato”, e alla cattura del fratello e della sorella, rispettivamente di dodici e sedici anni. Secondo la sua deposizione dunque fu in seguito a quest’avvenimento, che coadiuvò un gruppo di militi della brigata nera in un

247 Trent‟anni a una delatrice, «La Stampa», 12 ottobre 1945. 248

Cfr. R. Cairoli, Dalla parte del nemico, cit., pp. 45-46.

249 Acs, Ministero di Grazia e Giustizia, Detenuti politici, fascicoli istituiti presso le singole carceri, b. 60,

84 rastrellamento, guidandoli nella cattura di sedici ostaggi, poi rilasciati, e nel saccheggio delle abitazioni della zona, minacciando anche di dare il paese alle fiamme250.

Ginevra T., dopo che il suo amante, il fascista repubblicano Arturo B., era stato ucciso dai partigiani, denunciava all’ufficio politico della Gnr di Genova alcuni componenti del movimento partigiano, sia per vendetta personale, sia per paura in seguito alle minacce che essa stessa e il padre continuavano a subire251.

Ancora, Erminia O. era una fervente fascista ed era sposata con un maresciallo della Gnr che, il 28 agosto 1944, fu prelevato e ucciso dai partigiani. Erminia stessa, precedentemente, era stata catturata e le erano stati tagliati i capelli, ma successivamente era stata rilasciata. Dopo l’uccisione del marito aveva così pronunciato l’intenzione di farla pagare ai resistenti. Secondo le accuse avrebbe quindi indicato i nominativi di sette partigiani della zona di Case di Nava (Imperia), uno dei quali sarebbe poi stato fucilato252.

Infine Romana R. aveva denunciato alcuni partigiani. Romana era cresciuta e viveva in un ambiente familiare fascista, e la sua adesione al fascismo repubblicano fu anche di stampo ideologico ma, stante alle sue dichiarazioni, le sue azioni si inseriscono nelle dinamiche belliche e mettono in evidenza anche la violenza partigiana. Dopo essere stata prelevata da parte di partigiani dichiarava infatti di voler fargliela pagare, come afferma nell’interrogatorio del 20 giugno 1945 presso il tribunale di Torino:

[…] Pur condividendo le idee fasciste di mio fratello e dei miei genitori, ravvisando nel Pfr le forze migliori per l’avvenire della mia Patria, devo dichiarare di non essermi iscritta al Pfr e se ciò risulta deve essere iniziativa di mio fratello Dario. […] Nella mia qualità di impiegata ebbi modo di conoscere diversi elementi della Gnr e di fascisti iscritti al Pfr […] con essi si parlava spesso delle nefandezze commesse dai partigiani fino al punto di spingermi ad odiarli e nutrire sentimenti di vendetta. Questi miei sentimenti, venuta a conoscenza di un comandante partigiano a nome «Mauro», provocarono il mio prelevamento con conseguente minaccia di fucilazione, poi rimessa in libertà dopo una notte che passai alla cantina della mia abitazione in Zimone; tale atto lo reputai essere il metodo di tutti i partigiani, aumentò in me l’odio e la vendetta fino al punto di esasperarmi e costringermi pubblicamente a fare propaganda antipartigiana dichiarando di venire in possesso di arma automatica e prendere parte ad un rastrellamento per uccidere e sterminare tutti quelli che si dichiaravano partigiani; non fu possibile

250 Asto, Cas Torino, 1945, b. 243, fasc. 236 Anna Maria D.

251 Isec, Fondo Fontanella Odoardo, b. 43, fasc. 184. Nel dopoguerra la donna verrà uccisa nell’ondata di

violenza politica. Il 18 luglio 1945 infatti un mattinale della questura segnala al prefetto che era stato rinvenuto il cadavere della donna, uccisa a colpi di arma da fuoco. Cfr. Asge, Prefettura italiana (ex sala 21), b. 145, Rapporti mattinali della Questura e dei carabinieri alla Prefettura (1945-1946).

252 La Cas di Imperia tuttavia con setenza del 28 novembre 1945 la assolveva per insufficienza di prove,

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nonostante la mia volontà decisa di far parte di reparti operanti non essendo stata presa in considerazione presso chi di dovere la richiesta253.

Se Romana non venne presa in considerazione nella sua volontà di armarsi e di prendere parte attiva alle azioni antipartigiane dei corpi militari di Salò, altre riuscirono invece a parteciparvi in modo spesso continuativo.

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