LUCREZIA
Il massimo esempio della matrona è Lucrezia, di cui ci narra Tito Livio nella sua “Ab Urbe Condita libri”.
Lucrezia, figlia di Spurio Lucrezio Tricipitino e moglie di Collatino, è una figura mitica della storia di Roma legata alla cacciata dalla città dell'ultimo re Tarquinio il Superbo.
Secondo la versione riportataci da Tito Livio, l’ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, aveva un figlio di nome Sesto Tarquinio. Costui durante l’assedio della città di Ardea, allora appartenente ai Rutuli e attualmente parte del Lazio, decide con un gruppo di nobili di tornare a Roma al fine di cogliere di sorpresa le mogli di ciascuno di loro e vedere cosa fanno in assenza dei propri mariti. Di questo gruppo faceva parte Collatino, il quale sostiene che nessuna donna potrebbe mai eguagliare la pudicizia, la laboriosità e la fedeltà di Lucrezia, sua moglie. Infatti, mentre le mogli degli altri uomini sono state colte mentre banchettavano e si dedicavano ad atti indegni, Lucrezia viene trovata a tessere con le sue ancelle. A quella vista Sesto Tarquinio fu preso dalla insana smania di averla a tutti i costi. Questi allora, qualche giorno dopo, andò a far visita a Lucrezia la quale, ignara delle sue intime intenzioni, lo accolse. Quella stessa notte l’uomo si recò nella stanza della nobildonna e, puntandole un coltello al petto, le disse che se avesse parlato l’avrebbe uccisa. Egli, dopo aver cercato di piegare con suppliche l’animo della donna, passo alle minacce; Lucrezia, a quel punto, cedette al fine di non essere ingiustamente accusata di azioni che non aveva mai compiuto. Lucrezia, violata e spogliata del suo onore, fece chiamare il padre e il marito e, dopo aver raccontato loro il tragico fatto, gli fa promettere che si sarebbero vendicati. Lucrezia allora pronuncia le parole «E da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l’esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!» e, tirato fuori un pugnale, se lo pianta nel cuore.
PORZIA
Nel 42 a.C. Bruto e Cassio, gli assassini di Cesare, vengono sconfitti a Filippi. Bruto lascia una vedova inconsolabile: Porzia, figlia di Catone Uticense. Venuta a sapere della morte del marito, Porzia tenta di uccidersi in tutti i modi. I suoi parenti e i suoi amici però la ostacolano nel suo volere, ma non per molto.
Porzia, dopo aver visto i carboni ardenti nel camino, se ne riempie le mani, poi la bocca, poi li divora, poi li deglutisce. Muore, finalmente felice, «inghiottendo castissimi carboni ardenti» come dice Valerio
Massimo. Questo episodio, raccontato ed esaltato anche dallo stesso Marziale, rispecchia un costrutto sociale ben preciso: da una moglie perfetta ci si aspettava che non desiderasse sopravvivere al marito, in quanto non poteva né vivere né esistere senza di lui.
ARRIA
Arria, moglie di Cecina Peto, era stata per tutta la vita un esempio e un monito tanto per se stessa quanto per gli altri. Quando infatti uno dei suoi figli si ammalò di un morbo che lo avrebbe condotto alla morte proprio nello stesso periodo in cui Peto giaceva ammalato sul suo letto, Arria nascose al marito l’accaduto al fine di non addolorarlo. Ogni volta che entrava nella stanza del marito asciugava le lacrime che le avevano solcato il viso e si ricomponeva. Questa strepitosa donna diede la prova definitiva di sé quando, nel 42 a.C., il marito venne condannato a morte poiché coinvolto in una congiura contro
l’imperatore Claudio. Per evitare il disonore Peto non poteva fare altro che suicidarsi ma egli, spaventato dalla morte, esitava. A quel punto la moglie lo convinse a fare il suo dovere, promettendogli che l’avrebbe seguito; Arria, afferrata la spada, se la conficcò nel ventre e poi la diede al marito. Marziale, nel suo racconto, dice: «Nel porgere al suo Peto la spada / estratta dalle sue viscere, la casta Arria / disse: -Non mi fa male la ferita che mi sono fatta, / Peto. Mi fa male solo quella che tu ti farai-».
MESSALINA
Sicuramente non serve avere una conoscenza approfondita della storia romana per sapere cos’è una «messalina». È una donna dai costumi riprovevoli, dai molti amanti, dai presunti insaziabili appetiti sessuali. Così è entrata nell’immaginario popolare
Valeria Messalina, moglie dell’imperatore Claudio. Leggendo le fonti, si può sospettare che Messalina fosse diversa dall’immagine che le è stata modellata addosso quando ancora era in vita, e dalla quale non si è mai più liberata.
Ella era figlia di Valerio Messalla Barbato e Domizia Lepida, nipote di Ottavia, sorella di Augusto, e venne data in moglie intorno ai quindici anni a Claudio, che ancora non era imperatore. Quando però lo divenne, Messalina, in quanto imperatrice, iniziò a sentire l’inebriante sensazione di possedere il potere. Molto presto però la fanciulla si rese conto delle difficoltà della vita di corte, poiché tenersi stretto il potere implicava scaltrezza, cinismo, controllo di sé, capacità di destreggiarsi e di difendersi dagli intrighi, tutte caratteristiche che Messalina possedeva relativamente. Avendo molti avversari ed essendo inesperta, dunque, è facile che le storie che circolavano circa gli amanti dell’imperatrice fossero state non poco esagerate o addirittura inventate.
Attenzione però: è comunque probabile che Messalina si sia concessa qualche avventura, ma non sicuramente nelle quantità e modalità che vengono riportate da scrittori e pettegolezzi vari. Giovenale racconta per esempio che ogni sera,
addormentatosi il marito, si prostituisse in un bordello sotto il nome di Licisca. Secondo un’altra storia narrata da Plinio il Vecchio Messalina avrebbe vinto una gara con una nota prostituta; oggetto del contendere, chi sarebbe riuscita ad avere più rapporti sessuali consecutivi.
Quante di queste storie sono vere e quante no, purtroppo, non lo sappiamo con precisione.
LESBIA
Catullo, nato a Verona attorno all'84 a.C., si trasferì nella capitale in giovane età, entrando immediatamente in contatto con l'intellighenzia romana. Di lui rimangono 116 carmi, raccolti nel "Liber Catullianus", in gran parte dedicato alla sua appassionata vicenda d'amore per Lesbia; in altri componimenti si abbandona al gioco letterario, alla celebrazione dell'amicizia e alla satira politica.
Musa ispiratrice delle liriche è Lesbia, pseudonimo scelto per rendere omaggio alla poetessa greca Saffo , vissuta appunto a Lesbo, fra il VII e il VI secolo a. C.
Poco importa sapere chi fosse realmente Lesbia, tuttavia si ritiene che si trattasse di Clodia, moglie di Q. Metello Celere e sorella del tribuno Publio Clodio, donna citata anche da Cicerone in una sua orazione. Ella è una rappresentante di spicco della Roma aristocratica, ma in privato è una donna di liberi costumi e con svariati amanti.
Due sono i punti di vista di Catullo nei confronti di Lesbia:
➢Da una parte ella viene descritta come donna ideale, protagonista di un grande amore, intenso sia fisicamente che mentalmente; dall'altra, nei momenti di crisi fra i due, viene descritta dal poeta in modo molto disincantato, con gli occhi dell'amante deluso.
➢Dal tutto, emerge il ritratto di una donna molto affascinante che attrae in maniera morbosa il giovane ed inesperto Catullo, e che lo tormenta con il suo modo di vivere l'amore.
Catullo è così emblema dell'uomo che entra nella vorticosa spirale di un amore difficile, per di più con una donna come Lesbia, per la quale egli prova una sorta di attrazione fatale.
Sicuramente quella di Lesbia è una figura singolare in un panorama come quello della Roma antica, dove la donna non era per nulla emancipata.
DIDONE
Figlia di Belo, re di Tiro, Didone era regina e fondatrice di Cartagine.
Narra la leggenda che, alla morte di Belo, salirono insieme al trono i suoi due figli,
Pigmalione (Pg.) ed Elisha. Il disaccordo, subito evidente, fra i due fratelli consegnò, di fatto, il potere al marito di Elisha, Sicheo, ricco cittadino di Tiro. Pigmalione per impadronirsi delle ricchezze e del potere fece assassinare il cognato e la frattura con la sorella divenne definitiva.
Con l'appoggio di parte dell'aristocrazia di Tiro, Elisha si risolse ad abbandonare per sempre la patria: con l'inganno riuscì ad impossessarsi delle navi di Pigmalione ed a portare con sé l'oro nascosto dal marito, che Virgilio narra esserle apparso in sogno per avvertirla
dell'inganno del fratello.
Questa vicenda le procurò il nome Didone, la fuggitiva. Dopo anni di peregrinazioni, che li portarono dapprima verso Cipro, i fuoriusciti approdarono sulle coste africane ed iniziarono la ricostruzione di una patria. La prima necessità degli esuli da Tiro fu quella di occupare un territorio ed anche questo episodio fu trasposto in leggenda.
Si narra che il re Iarba avesse concesso a Didone quell'area che era possibile coprire con una pelle di bue. Si trattava, ad evidenza, di un inganno, ma la futura regina di Cartagine seppe risolverlo a suo favore: essa, infatti, tagliò la pelle di bue in strisce sottilissime che legò fra loro riuscendo, così, a circondare interamente l'altura su cui doveva sorgere la città.
Innamorandosi di Enea, giunto sulle coste di Cartagine dopo il lungo peregrinare da Troia distrutta, venne meno al patto di fedeltà giurato al marito defunto Sicheo.
Dopo un lungo periodo di passione forte e ardente che la consuma completamente, Didone viene abbandonata da Enea. Distrutta dal tradimento si toglie la vita, maledicendo l’intera stirpe che poi Enea avrebbe fondato, quella romana.
CAMILLA
La storia della vergine Camilla è raccontata da Diana nell'Eneide (XI, 532 segg.). Suo padre era Metabo, re della volsca Privernum, che, costretto a fuggire dalla città, si prese in collo la figlioletta. Giunto alla sponda dell'Amaseno e temendo di passarlo a nuoto con la bimba, la legò, chiusa in una corteccia di sughero, alla sua grande asta, la consacrò a Diana e la scagliò sopra la corrente. Passò quindi il fiume a nuoto e trovò sull'altra riva Camilla, salva per opera di Diana. Metabo nutrì la figlia di latte di cavalla selvaggia, e appena poté l'armò di giavellotto, d'arco e di frecce; vestita di pelli di tigre, ella cacciava, invano desiderata come nuora dalle madri tirrene. Alleata dei Latini e di Turno contro i Troiani di Enea, l'Amazzone italica compare alla testa d'uno squadrone di cavalieri nella rassegna del libro VIII (v. 803 segg.), compie
prodigi di valore nella grande battaglia del libro XI (v. 648 segg.), finché viene uccisa dall'etrusco Arunte.
LAVINIA
Secondo Virgilio e Tito Livio, Lavinia era figlia di Latino, re eponimo dei Latini, antico popolo dell'Italia Centrale, e di Amata, sua moglie.
Inizialmente Lavinia era stata promessa in sposa a Turno, re dei Rutuli. Dopo lo sbarco di Enea nel Lazio, fuggito da Troia in fiamme col padre Anchise e il figlio Ascanio detto anche Iulo, e la
protezione accordata dal Re Latino a Enea, Lavinia fu data in sposa al capo troiano per suggellare la nuova alleanza[1]. Re Latino, con l'arrivo di Enea, ruppe i patti precedenti, di concedere Lavinia in moglie al giovane re dei Rutuli, anche perché suo padre, il dio italico Fauno, gli aveva preannunciato che l'unione di uno straniero con sua figlia Lavinia avrebbe generato una stirpe eroica e gloriosa. I Troiani fondano una città che chiamano Lavinium, in onore della sposa di Enea.
Come scrive Livio, la rottura della promessa coniugale fece scoppiare il conflitto fra i Troiani-Latini e i Rutuli di Turno. La guerra si concluse con la disfatta di Turno, e la vittoria di Troiani e Latini, i quali però persero in battaglia re Latino. In seguito Turno, alleatosi con gli Etruschi di Mezenzio, re
di Caere, scese di nuovo in guerra contro i Latini, i quali vinsero ancora una volta i nemici.
Secondo Virgilio, invece, Latino fu costretto dai suoi sudditi a schierarsi con Turno contro Enea dopo l'uccisione di un suo cortigiano, il giovane e grintoso Almone; ma non intervenne personalmente nei combattimenti.
Dopo la morte di Enea, Lavinia continuò a regnare su Lavinio e sui Latini. Essendo poi sorti contrasti col figliastro Ascanio, si rifugiò prima in un bosco, poi nella capanna del pastore Tirro (il padre di Almone), dove diede alla luce Silvio, capostipite dei re di Roma. Qualche tempo dopo, Ascanio, che era malvisto dal popolo per l'atteggiamento ostile verso la matrigna, si riconciliò con Lavinia
cedendole la città di Lavinio, e fondò per sé una nuova città, sui Colli Albani, che fu chiamata Alba Longa. Silvio, figlio di Enea e Lavinia, succedette al fratellastro Ascanio come re di Alba Longa.
Da Iulo, figlio di Enea e Creusa, la tradizione romana fa discendere la gens Iulia, che portava il cognomen "Caesar", alla quale apparteneva Gaio Giulio Cesare, considerato uno dei personaggi più importanti e influenti della storia. La ricerca storica moderna sembra riconoscere un qualche
fondamento a questa discendenza. Numerosi storici, fra i quali Massimo Pallottino (in ”Le Origini di Roma!), sostengono, sulla base di studi linguistici, che la gens Iulia sia effettivamente originaria del sito di Alba Longa. I suoi nobili esponenti, da sempre annoverati fra i patrizi, si sarebbero insediati a Roma in periodo monarchico, secondo un'usanza seguita da altre famose gentes patrizie.
OPIMIA
Il 216 a.C. era stato un anno veramente difficile per i Romani. Annibale aveva sconfitto le loro truppe a Canne, il futuro sembrava incerto, i Cartaginesi erano alle porte. In questo contesto si inserisce lo scandalo che coinvolse Opimia, che era una sacerdotessa di Vesta, e Cantilio.
Il loro amore non era solo illecito, ma sacrilego: le sacerdotesse di Vesta, infatti, erano legate ad un voto trentennale di castità. Le conseguenze del venir meno a questo voto erano deleterie per la città, potevano sconvolgerne il
presente e comprometterne l’avvenire.
Gli dei, infatti, offesi ed indignati per il comportamento delle vergini, se queste violavano il voto, minacciavano di punire la città con ogni tipo di sciagura.
Questa non poteva sopportare che il comportamento dei due amanti rompesse la pace con gli dei, a maggior ragione in un momento così difficile per Roma.
Punire i colpevoli era indispensabile per evitare le sciagure che ne sarebbero senza dubbio conseguite¸ quindi la sorte di Opimia e Cantilio fu determinata, in gran parte, dal momento storico.
Ai due amanti spettò la sorte di coloro che già si erano resi colpevoli di tale crimine (Pinaria , all’epoca di
Tarquinio Prisco, Oppia ed Opimia nel 438 a C., Orbinia nel 472 a C., Minuccia nel 337, Sestilia nel 273), secondo un rituale atroce: fatta salire su un carro nero trainato da cavalli neri e coperto da veli neri, la colpevole attraversava la città diretta alla Porta Collina dove era scavata una piccola stanza che si raggiungeva calando una scala.
All’interno solo una lucerna e un po' d’olio per alimentarla. Giunta sul luogo del supplizio, la donna scendeva la scala, che veniva subito ritirata ed il tetto del suo sepolcro si chiudeva su di lei, per sempre.
Il complice della vestale andava incontro ad una morte altrettanto crudele; dopo essere stato scoperto, veniva denudato, condotto al Comizio con una corda al collo, come gli schiavi, e qui fustigato a morte.
I due amanti pagarono il prezzo del loro amore morendo, Opimia sepolta viva, Cantilio sotto le verghe, esposto alla pubblica vergogna.
MARZIA
Nell’antica Roma era uso, o per lo meno non era un’eccezione, che un marito cedesse la propria moglie incinta, dopo averla ripudiata, ad un altro che non aveva figli affinché potesse soddisfare il suo desiderio di paternità.
Come scrive Plutarco “se un marito romano aveva un numero sufficiente di figli, un altro, che non ne aveva, poteva convincerlo a lasciargli sua moglie, a tutti gli effetti, o solo per una stagione”. Cessione temporanea o definitiva, a seconda dei casi, cessione di una moglie fertile e, per maggior sicurezza, addirittura già incinta.
Ecco cosa accadde a Marzia, moglie di Catone detto il Giovane, la quale venne ceduta dal marito ad Ortensio, per il quale partorì un figlio concepito da Catone, quindi naturalmente di quest’ultimo e giuridicamente del secondo marito Ortensio.
Ecco cos’era la comunanza di figli.
La cessione della moglie non veniva considerata una mancanza di riguardo nei confronti della donna, ed era altrettanto plausibile che questa desiderasse tornare con il marito che l’aveva ceduta.
Lucano nella “Pharsalia” racconta la fine della storia: “Il sole scioglieva le gelide ombre quando alla porta di Catone venne a bussare piangendo la nobile Marzia, che aveva appena lasciato il sepolcro di Ortensio. E così parlò mesta: “Fino a che vi era ancora del sangue , in me, fino a che avevo forza di generare, Catone, ho fatto quello che mi hai ordinato. Ho avuto due mariti e ho dato a ciascuno di loro dei figli. Ora torno con il ventre esausto, sfinita dai parti, in condizione da non poter essere più ceduta ad altro uomo. Concedimi di rinnovare i casti legami del primo matrimonio; dammi soltanto il nome di moglie, così che sulla mia tomba di possa scrivere: Marzia, moglie di Catone”.
Alla morte di Ortensio, Catone risposa Marzia.
FULVIA
Per indicare l’emancipazione di Fulvia basta dire che non si occupava della casa e non filava la lana; l’esatto contrario delle matrone del buon tempo antico. Fulvia era una donna molto istruita in letteratura greca e latina, sapeva suonare la lira e danzare meglio di qualunque altra, ed era avvezza a molte attività che sono parte integrante di una vita licenziosa. Ma qualunque altra cosa le era più cara della decenza e della moralità. Tuttavia possedeva capacità mentali da non
disprezzare affatto: l’abilità di scrivere i versi, di raccontare le barzellette, di parlare castamente, teneramente e con vivacità, in una parola aveva molto spirito e un grande fascino.
SULPICIA
La storia d’amore tra Sulpicia e Cerinto offre lo spunto per trattare alcuni aspetti rilevanti della condizione della donna all’epoca romana.
Sulpicia, vissuta nell’età di Augusto, apparteneva ad una nobile famiglia.
Colta e di buone letture, Sulpicia scrisse poesie d’amore per un certo Cerinto, di cui non si conosce l’identità ma certo dovette trattarsi di un amore proibito, verso cui Sulpicia non si vergogna di manifestare i propri sentimenti.
Non si sa come andò a finire la storia, ma dai pochi versi emergono alcuni dati: la disparità sociale tra i due e la determinatezza della volontà di Sulpicia, la sua sfida alle convenzioni, la sua rivendicazione di autonomia.
È la voce di una donna libera e di una storia d’amore vissuta in modo, per quei tempi, del tutto inconsueto, di una donna che ha osato così apertamente sfidare le convenzioni.
I poemi di Suplicia non sono stati tramandati sotto il suo nome, ma tra le opere attribuite a Tibullo.
Le donne non avevano canali per far conoscere le proprie opere e, comunque, non veniva presa neppure in considerazione che un’opera femminile potesse essere tramandata ai posteri.