LA DONNA Dall’antichità ad oggi
DONNA ROMANA
La donna in età romana iniziava ad affrontare molte difficoltà sin dalla nascita. Essendo la società romana incentrata sulla figura maschile, era inevitabile che ciò accadesse anche in ambito famigliare, dove il pater familias non solo gestiva, ma possedeva addirittura la moglie, i figli, gli schiavi, le nuore. Su tutti costoro egli aveva la patria potestas, potere che conservava durante la vita naturale e che comportava amplissime facoltà insieme ad un potere punitivo che si estendeva finanche alla vitae
necisque potestas, al diritto di vita o di morte, come a quello di vendere i membri della propria famiglia come schiavi.
La donna viveva tutta la vita in condizione di inferiorità poiché
inizialmente stava sotto l’autorità paterna o di un altro membro maschio della famiglia, poi sotto quella del marito o addirittura del suocero; se restava vedova veniva nominato un tutore affinché gestisse i suoi beni.
Educata ai valori del pudore, della riservatezza, della modestia, della fedeltà e del sacrificio, la donna si sposava con un uomo che il padre aveva scelto per lei e al quale l’aveva promessa sin da bambina. Ovviamente le nozze non erano il frutto dell’amore, ma di un’alleanza politica o economica. Dopo le nozze (sponsalia) la dote della donna, datale dalla famiglia di origine, entrava a far parte del patrimonio del marito o del suocero, insieme a lei stessa come persona.
La donna, allora, veniva costretta a fare ciò che la società desiderava e si aspettava che lei facesse e veniva relegata nella domus: qui si occupava prevalentemente delle mansioni
domestiche e della formazione dei figli, inculcando loro nella mente i valori del mos maiorum, la morale tradizionale della civiltà romana.
Non le era in alcun modo consentito di ricoprire cariche pubbliche o avviare un'attività politica.
LA DIFFERENZA DEI SESSI IN FILOSOFIA
Nel suo doppio rapporto con il sapere, la donna greca è una figura curiosa. È un oggetto
appassionante e un soggetto molto discreto. Oggetto, la donna sembra in primo luogo questa cosa vivente dalla quale la mitologia deve immaginare la nascita del mondo, prima di diventare un corpo da sezionare per i medici e una figura sociale da collocare per i filosofi. Soggetto, essa appare sporadicamente, ma sicuramente in margine all’esercizio filosofico, medico o letterario, conferma dell’esclusività maschile nel dominio intellettuale. Ma a sua volta diventa un soggetto esemplare di conoscenza laddove la posizione di fronte al sapere è concepita in termini di
ricettività e di ricerca piuttosto che di conquista vittoriosa di una competenza accertata. Prive di accesso reale all’educazione, le donne incarnano nell’immaginario un’accessibilità, una
permeabilità quasi senza resistenza di fronte al vero, coerente con la loro vocazione sessuale ad accogliere dentro di sé.
Solo Platone si stupirà del ruolo in cui la donna viene confinata e in particolare del fatto che il compito di allevare i cittadini sia affidato a esseri che sono, essi stessi, tanto male allevati.
In compenso, virtualmente e metaforicamente, l’intelligenza ricettiva, la sensibilità intellettuale sono femminili se Métis, Eumétis e l’anima del filosofo, che deve farsi fecondare per partorire la parola, ci indicano certe maniere greche di immaginare il sapere.
È soprattutto Platone che mette a frutto l’analogia tra concepimento intellettuale, enunciazione e parto. Nel Simposio, la teoria dell’amore alla quale Socrate dà la sua adesione è quella che ha formulato una donna, una sacerdotessa, Diotima. È una teoria che trasferisce la problematica dell’amore dal piano immediato del desiderio e del godimento erotico a un livello più alto, quello del desiderio di sapere. L’esperienza più corrente e più spontanea dell’amore deriva effettivamente dall’attrattiva estetica ma la visione della bellezza come attributo di un corpo risveglia l’anima. Ma il desiderio così suscitato e che comincia a manifestarsi solo sotto questa forma, invece di rimanere agganciata al corpo, può accostarsi a un oggetto che riporta la molteplicità a una sintesi di ordine superiore: la bellezza in sé. E da qui si può arrivare a concepire l’idea di una bellezza non soltanto astratta in rapporto alla molteplicità delle sue incarnazioni, ma purificata perfino da ogni connotazione corporale. Ormai in grado di apprezzare la bellezza delle anime, il desiderio, pur restando amoroso, può raggiungere allora il suo oggetto ideale: la bellezza in sé per sé, indipendente da ogni rappresentazione estetica sensibile e perfino da ogni attualizzazione spirituale in una persona particolare. Il soggetto sarà finalmente innamorato del principio originale del Bello.
Mentre l’amore eterosessuale mira alla procreazione alla continuità della società, quello omosessuale alla generazione dei discorsi, dei pensieri e dei progetti che concernono la giustizia e la città. L’anima partorisce ciò che ha concepito e nutre il suo frutto: l’idea di bellezza è oggetto di contemplazione, l’anima si unisce con essa e, grazie a questa unione, partorisce.
L’attività intellettuale viene dunque rappresentata in termini di concepimento, parto e allattamento.
Il problema del genere
“La specie sono gruppi di popolazioni naturali all’interno dei quali gli individui sono realmente (o potenzialmente) in grado di incrociarsi; ogni specie è isolata, dal punto di vista della riproduzione, dalle altre specie”. Così almeno dice il biologo, naturalista, genetista e storico della scienza Ernst Mayr. Data per assunta questa definizione, quale rapporto c’è tra le parole “genere” e “specie”? La differenza è grande, molto grande. Il vero problema è che questa differenza è stata interpretata in modi opposti da molti studiosi, fino a portare ad un rovesciamento gerarchico che concerne gli stessi concetti.
Il rapporto tra sesso e specie è uno dei problemi più appassionanti fra quelli che pone la biologia di Aristotele di Stagira. Egli infatti, pur conoscendo più di
quattrocento specie zoologiche, tenta di descriverle e di confrontarle servendosi di due categorie, quella di “genere” (gènos) e quella di “specie” (èidos). Una volta che gènos e èidos siano definiti l’uno in rapporto all’altro sulla base dell’inclusione della specie nel genere, si dispone di un criterio di discriminazione pienamente operativo. E, inutile dirlo, il genere è quello dell’ànthropos (uomo, essere umano) e le specie in esso incluse sono quella dell’anèr (uomo) e della gynè (donna); già l’etimologia delle singole parole può riportare una storia di discriminazione e subordinazione della donna all’uomo.
L’eredità platonica
Platone, al contrario di Aristotele, percepisce le parole gènos e èidos in maniera differente.
Èidon vuol dire infatti forma; le idee stesse di Platone sono èide percepibili dallo sguardo dell’intelligenza, grazie all’esercizio della parola dialettica. Gènos invece vuol dire nascita, stirpe. Le due nozioni si distinguono e si oppongono; Platone dà un esempio
dell’intercambiabilità tra queste due parole proprio riguardo alla differenza sessuale. Tuttavia lo stesso Platone ebbe difficoltà a dare una definizione ai due termini nell’ambito della differenza dei sessi: da un lato, quando egli racconta il mito della fabbricazione del mondo di Timeo, evoca una razza delle donne che sarebbe venuta ad aggiungersi alla razza degli uomini, un gènos di fianco ad un altro gènos preesistente. Dall’altra parte, nella sua opera Politica, presenta la divisione del genere umano in maschi e femmine, in modo che si ottengano due parti che sono nello stesso tempo due specie, èide. Per Platone, quindi, èidos e gènos si confondono effettivamente nella messa in ordine delle differenze.
Prendere un gènos e tagliarlo in due è un’operazione che permette di ottenere due èide, ma anche due gène. Non sappiamo con precisione quale sia il grado di autonomia delle due “parti”
di fronte a tutto ciò che è, esso stesso, tagliato in due. Le donne sono quindi
contemporaneamente un pezzo di genere umano e una forma opposta alla forma maschile.
Parte di un tutto, certamente, ma anche parte contraria a un’altra parte.
La verità è che il genere sessuale è adatto a dividere il genere umano solo sul piano della biologia, laddove partorire si oppone a generare. Si può forse osservare che il genere sessuale determina una buona attitudine ad attività precise o vi si associa? No. Le donne e gli uomini sono dotati per tutto, indistintamente. C’è solo un problema: il genere maschile prevale quasi sempre sull’altro. Perché? Nessuno è riuscito a spiegarlo.
IL MATRIARCATO E IL MONDO ANTICO
Lo scenario generale
Nell’antico Egitto la mitologia era basata su due principi fondamentali: Iside, venerata come la madre suprema, rappresentante la terra fertile e il mondo femminile; la potenza maschile era invece identificata in Osiride,
personificazione del Nilo, quindi in grado di fecondare. Tenendo la terra subordinato il Nilo, in Egitto regnava il matriarcato, in questa società era fondamentale la figura femminile, in quanto aveva la superiorità nell’intero sistema sociale. Veniva inoltre riconosciuta solo l’ascendenza materna e solo le figlie femmine avevano il diritto di successione.
La teoria del matriarcato
Il popolo poteva essere guidato solo da una donna, poiché doveva maturare ed essere curato sullo stesso principio della crescita di un uomo e poiché era la Terra la progenitrice di tutte le cose.
Eterismo di Afrodite
Tuttavia, in seguito si svilupparono due differenti generi di maternità. Il più primitivo, caratterizzato dal disordine e dalla spontaneità, da un diritto naturale puro, portava uno stadio di libertà privo di ogni limite, possesso individuale o diritto privato. Una maternità totalmente gestita dal desiderio afroditeo, accompagnato dalla vita ancora nomade dell’uomo.
La ginecocrazia di Demetra
Il secondo tipo di maternità era caratterizzato dall’ordine, sviluppatosi in un’epoca dominata dalla figura di Demetra e regolata da matrimonio e agricoltura, e quindi dalla sedentarietà, questo nuovo genere conduce verso una moralità più elevata. La Terra, personificata nella dea Gea o Gaia, non era più considerata come una madre assoluta e universale. La donna diventava madre tramite l’unione esclusiva con un uomo, a cui doveva giurare fedeltà durante il matrimonio davanti alla dea Demetra e a sua figlia Core o Persefone. Essendo la Terra in grado di concepire e donare la vita ed essendo la donna sua copia umana, entrambe rivestivano un forte carattere sacrale. Il passaggio tra i due generi di maternità potrebbe essere avvenuto tramite la nascita delle Amazzoni, dovuta alla necessità della donna di opporsi alla violenza dell’uomo.
L’avvento del diritto paterno
In seguito, la divinità principale divenne Dioniso, dio del piacere carnale, alla ricerca della donna per far nascere in essa la vita, paragonato alla posizione del Sole a mezzogiorno;
l’astro rappresentava infatti la vita di un uomo,: all’alba era un bambino, a mezzogiorno un padre vittorioso. La divinità maschile si scioglierà da ogni legame con la donna con lo Stato romano e l’Apollo di Delfi.
LA DIVISIONE DEI SESSI NEL DIRITTO ROMANO
Una norma obbligatoria
Nell’antica Roma l’inferiorità della donna a livello giuridico era dovuta non ad una definizione precisa di essa ma ad una serie di luoghi comuni come la fragilità di spirito (imbecillitas mentis) e la debolezza rispetto agli uomini (infirmitas sexus) che le venivano attribuiti. La divisione dei sessi era netta e il matrimonio era concesso solo tra uomini (mares) e donne (feminae). Essendo la società basata su una forte divisione dei sessi così anche le leggi rispecchiavano questa
differenza culturale e sociale. Secondo i casisti romani questo sistema necessitava non solo di una divisione teorica a livello legislativo, ma anche di una divisione pratica, garantendo una messa in opera fondata e razionale delle leggi. Nel caso dell’androgino, ad esempio, l’unico modo per risolvere questa ambiguità era ridurla all’uno o all’altro genere, come previsto dal diritto. Mentre nel diritto la divisione risulta così netta,
nella tradizione medica antica non c’era necessità di identificare i sessi, ponendo così l’esistenza di un uterque sexus come una mescolanza dei sessi, senza bisogno di fare distinzioni.
Congiunzione dei sessi
Essendo la divisione tra i sessi una questione sia giuridica che pratica, comprende anche l’organizzazione della differenza e della complementarità tra maschile e femminile. Nonostante la marcata differenza fra maschi e femmine, era consentito l’accoppiamento al fine di portare le norme della società, come previsto dal diritto di filiazione. L’unione tra uomo e donna era considerata solenne in quanto il popolo romano e la società dell’epoca derivavano dalla prima congiunzione tra i sessi e inoltre quest’ultima derivava dall’esistenza delle specie viventi.
La condizione di sposi però non necessitava il compimento dell’unione carnale tra questi.
Uomini e donne, una questione di statuto
Nel momento in cui gli sposi diventavano genitori ottenevano i titoli di paterfamilias, per l’uomo, e materfamilias o matrona, per la donna. Tuttavia, solo le donne che davano al marito figli legittimi potevano meritarlo e, grazie a questo statuto, acquistare una dignità. Nonostante ciò le donne venivano chiamate madri sin da quando diventavano spose e venivano già onorate come matrone. A livello giuridico la donna poteva agire per sé stessa, ma non per gli altri, poiché era incapace di rappresentarli. Le incapacità della figura femminile erano la manifestazione della sua condizione d’inferiorità dovuta ad una società dominata dai maschi. Il ruolo sociale attribuito alle femmine era quello di occuparsi dei lavori domestici, mentre gli uomini si occupavano della vita pubblica e politica. La cittadinanza era riservata solo ai maschi, anche nel caso in cui vivessero nella condizione di figli illegittimi.
Dominio paterno e successione continua
Il titolo di paterfamilias veniva acquistato da un uomo nel momento in cui si trovava nella posizione di esercitare sulla propria discendenza il potere di un padre: pertanto poteva essere considerato tale sia un individuo maschile nella cui famiglia moriva il paterfamilias -nel caso in cui ereditava i suoi beni otteneva anche il suo titolo- sia un uomo che possedeva un figlio
legittimo. All’interno del nucleo familiare tutti i figli, sia maschi che femmine, erano soggetti al dominio del paterfamilias.
La mancanza di successione materna non è una questione di parentele
La madre non poteva lasciare un’eredità ai propri figli in quanto non esisteva un “potere” che consentisse ciò e li riconoscesse appartenenti alla madre. Nelle successioni senza testamento le proprietà dell’uomo venivano ereditate dai discendenti di parte maschile, in seconda linea dagli agnati, cioè i collaterali dal lato paterno, da cui venivano escluse le donne.
La madre non ha la “patria potestas”
La donna non possedeva la “patria potestas”, ossia il potere sui figli, pertanto per lasciarli l’eredità doveva obbligatoriamente scrivere un testamento. Dopo il matrimonio le donne diventavano proprietà del marito, entrando nella sua casa come figlie (filiae loco) e gli succedevano proprio come i figli.
La donna, principio e fine della famiglia: potere e successione
Testamento delle donne e diritto successorio pretorio in favore dei discendenti materni Le figure femminili all’interno del nucleo familiare potevano ereditare solo tramite
testamento, fatta eccezione per la dote, che veniva donata dal padre al marito al momento del matrimonio e poteva essere riacquisita dalla donna dopo lo scioglimento del matrimonio.
Nella tarda epoca repubblicana il pretore introdusse l’immissione nel possesso dei beni a vantaggio dei discendenti da parte materna, che ereditavano però solo in terzo luogo, dopo i discendenti da parte paterna e gli agnati.
Parità dei testamenti materno e paterno rispetto ai doveri sociali
Nel caso in cui la donna restasse vedova, ereditava parte del patrimonio del marito ormai morto e poteva fare testamento, solo con l’assistenza o la complicità di un tutore che il marito aveva scelto per lei. Negli scritti del II secolo d. C. i giuristi sottolineano l’eguaglianza dei diritti e dei doveri che erano attribuiti ai rami della madre e del padre.
La successione legittima materna nel II secolo d. C.
Il senatoconsulto Tertulliano era una riforma istituita nel II secolo d. C., che doveva garantire alle madri di tre figli un diritto sull’eredità di figli e figlie morti precedentemente,
dividendone l’eredità con i suoi figli.
Il senatoconsulto Orfiziano, emanato nel 178 d. C., instaurava una successione da madri a figli totalmente legittima tramite testamento.
La “materfamilias”, sposa del “paterfamilias”
Il matrimonium conferiva alla donna la condizione legale di mater, la figura
femminile veniva infatti considerata dagli uomini in base alla sua capacità di essere madre, tanto da ritenere condizione di ripudio la sterilità. Pertanto la donna poteva diventare materfamilias solo se si trovava in una condizione di unione ad un
paterfamilias; l’uomo si univa in matrimonio per ottenere figli dalla moglie, le femmine erano dunque tenute a procurare una discendenza ai cittadini. In seguito all’unione in matrimonio non era necessaria un’unione fisica tra uomo e donna, in quanto contava poco che il marito fosse il padre dei figli di sua moglie o che lui potesse procreare.
Matrimonio, concepimento, parto. La trasmissione degli statuti.
Mancanza di dominio e incapacità di adottare
Essendo le donne private di dominio e non avendo quindi alcun potere sui figli, non possedevano il diritto di adottare. Le donne erano completamente escluse
dall’adozione, operazione che non esigeva la presenza o l’esistenza della moglie dell’adottante e che riconosceva l’adottato come figlio legittimo del paterfamilias che lo adottava. Inoltre, alle donne erano vietate le adozioni testamentarie, e a cui non potevano essere associate dal marito.
Mancanza di dominio e mancanza di tutela
Le madri non potevano tutelare i figli minorenni, pertanto questo incarico si
trasmetteva da uomo a uomo, nel caso della morte del marito, infatti, i figli e le donne passavano al dominio del parente maschio più vicino al defunto. Tuttavia, le vedove si occupavano dei loro figli fino all’età adulta, controllandone l’educazione e la crescita, e spesso le donne divorziate ottenevano del marito la custodia dei figli, lasciando all’uomo parte della dote in base alla quantità di figli. In alcuni casi le donne avevano anche diritto alla gestione dei beni del figlio. Tutto ciò non escludeva però la presenza dei tutori, che esigevano dalle madri una garanzia, una dichiarazione con cui la donna si assumeva i rischi della sua gestione.
Il regime delle incapacità
Breve storia della tutela delle donne fino agli inizi dell’Impero
Le donne adulte potevano gestire in autonomia solo i propri affari e si trovavano in una condizione di tutela che nel I secolo d. C. venne ristretta solo a coloro che erano state emancipate dal padre o affrancate dal padrone. In seguito, se veniva a mancare il padre o il marito delle donne, queste diventavano libere, sfuggivano cioè al
controllo dei propri parenti maschi o in linea maschile. Augusto aveva soppresso ogni controllo sulle donne che avevano portato a termine tre gravidanze, quattro per quelle affrancate. Claudio in seguito aveva fatto lo stesso riguardo al controllo delle donne libere. Nel momento in cui una donna cessava di trovarsi sotto il dominio del padre diventava in grado di amministrare i propri beni e scrivere un testamento senza la figura del garante. Prima, se le donne non avevano parenti e nel testamento del loro pater familias nessuno era stato designato come tutore, veniva scelto per loro un tutore dal pretore urbano. In seguito, ogni donna poteva ricevere l’assistenza di un tutore su richiesta se lo riteneva necessario, la loro presenza confermava la validità dei loro atti. Tessitrici, alcune donne possedevano persino navi o si occupavano del commercio.
Incapacità di rappresentare altri: divisione dei sessi e “doveri civili”
Nonostante ciò le donne romane, non avendo un dominio, non potevano esercitare diritti riguardanti altri individui, come l’adozione o la tutela di figli: i doveri civili restavano ancora una prerogativa maschile, da cui si evince l’incapacità della donna nel poter rappresentare sé stessa negli affari. Alle donne era negato anche vendicare un parente in quanto non potevano rappresentare gli altri. Le cittadine romane erano private della capacità di garantire un servizio non influenzato dai propri interessi.
Tuttavia nel diritto romano più antico alle donne non era permesso redigere
testamenti o testimoniare in tribunale, poiché ancora considerato un dovere maschile.
POLITICA DEI CORPI
Un mondo senza donne
Il mito greco della genesi del mondo descrive l’esistenza di un mondo senza donne, anteriore alla creazione degli esseri umani quali essi sono attualmente.
Senza donne e senza lavoro, tale era l’età dell’oro.
Nel II secolo dell’era cristiana uno scrittore greco d’Asia, Luciano di Samosata, immaginò un mondo senza donne, scoperto sulla Luna, dove vivono i Seleniti.
“Essi non nascono da donna, ma da maschi (…) e il nome stesso di donna è loro totalmente ignoto”.
Ci è conferita con falso candore da Luciano come sia facile far scomparire le donne: privandole del nome: senza nome non vi è esistenza.
Il destino biologico delle donne
“Matrimonio”, dal latino matrimonium, derivante da mater, matris “madre”.
Il matrimonio era perciò il “luogo della riproduzione legittima” e obbligo della donna era procreare.
La libertà di scelta era inesistente; sotto età augustea uscirono leggi che vietavano l’ottenimento dell’eredità se non si fossero messi al mondo almeno tre figli, vissuti più di tre giorni, dato che un grande problema era da sempre la
mortalità infantile.
Ma oltre la mortalità infantile (e il conseguente dolore provocato dalla morte di un figlio il quale era sì un
lasciapassare per la libertà dalla tutela patriarcale almeno a livello economico, ma altresì una creatura a cui si aveva donato la vita) numerose erano soprattutto le morti da parto: un quinto delle partorienti morivano a causa di febbri o infezioni.
E mentre le donne rischiavano la vita per dare all’ impero uomini che avrebbero costretto, secondo la legge, altre donne a rischiare la vita, nessun riconoscimento, possibilità di riscatto o di scelta veniva loro conferito.
Solo la consapevolezza (o inconsapevolezza?) di essere al centro delle manipolazioni sociali della riproduzione: redini alle mani degli uomini.
Vennero addirittura fatti degli studi per comprendere in che modo si potesse anticipare o posticipare la pubertà femminile: mentre Rufo, un medico di fine I secolo, proscriveva esercizio fisico al fine di ritardare la pubertà, Sorano consigliava riposo e attività
passive, in modo di anticipare le prime mestruazioni e mandare in spose donne giovani ma già puberi.
Questi studi che dimostrano da una parte
l’avanguardia degli studi scientifici, ci rendono
chiaro dall’altra come era inevitabile l’essere succubi di un sistema finalizzato all’uso materiale della
donna, come fosse una macchina da sfruttare quanto più possibile.
C’era la possibilità di ribellarsi?
Questa possibilità non sfiorava nemmeno le idee della donna romana, non perché non potesse essere in grado di pensarvi, quanto perché l’assoggettamento e la sottomissione erano la realtà quotidiana.
Età del matrimonio
Ovviamente le donne non erano autorizzate a scegliere l’età in cui venir maritate.
Il consenso della giovane non compariva nei contratti stipulati tra il padre e il futuro marito; il consenso formale era espresso dalla esistenza stessa del contratto o tutt’al più poteva essere esplicitato dal padre.
In ogni caso nell’Impero non esisteva giovane rispettabile donna che avesse più di dodici anni e non fosse sposata, al contrario del mondo greco che attendeva la pubertà fino ai sedici o diciotto anni.
Le donne disponevano di validi mezzi contraccettivi?
Per evitare nascite indesiderate dal padre e non correre il rischio di esposizioni o infanticidi, le donne disponevano di vari mezzi.
Ovviamente pericolosi e potenzialmente mortali.
I romani erano a conoscenza di sterilizzazioni chirurgiche, che venivano praticate su animali femmine, ma non le riportarono mai su essere umano.
Si preferiva ricorrere a pozioni la cui composizione era simile a quella degli abortivi: violenti emetici (assai pericolosi), elleboro (potenzialmente mortale), artemisia (l’unica pozione che era effettivamente sicura, ma che non veniva in alcun modo prediletta)…
L’aborto e i suoi pericoli
Si sapeva perfettamente che gli aborti potevano essere mortali. Ma non era questo il motivo per cui i medici si rifiutavano di assistervi: un aborto poteva celare un adulterio di cui i medici non dovevano farsi complici, sotto pena di sanzioni analoghe a quelle previste dagli amanti.
L’unico fatto a cui poteva conseguire un aborto era l’età della futura madre: se era così giovane da non poter supportare un parto si procedeva, sempre se il medico acconsentiva.
Ciò che fa riflettere è che in molti paesi ancora oggi non si dà a una donna la possibilità di scegliere e di essere padrona del PROPRIO destino: Angola, Egitto, Gabon, Guinea Bissau, Madagascar, Senegal, Iraq, Laos, Isole Marshall, Filippine, Repubblica Dominicana, El Salvador, Haiti, e Nicaragua sono solo alcuni degli stati in cui l’aborto è illegale (anche se la vita della gestante è in pericolo)
Sono perlopiù Paesi arretrati, ma questo non giustifica il fatto che alla donna venga vietata la possibilità di decidere o in alcuni casi di continuare a vivere.
In Italia la legge che rende legale l’interruzione di una gravidanza arriva nel 1978, meno di cinquant’anni fa. Forse siamo più arretrati di quanto sembra.
La continenza delle mogli legittime
I Romani non si curarono mai di porre limiti alle nascite, ma di fissarne il limite inferiore. Perché non si poneva il problema della limitazione? Perché era noto a quale sistema ricorrere: la continenza della sposa legittima nelle classi superiori.
L’età costituiva la principale motivazione di continenza: “La femmina, a causa della sua debolezza costituzionale, raggiunge più presto l’età adulta e la vecchiaia (…) I maschi conservano nel tempo migliori condizioni fisiche, mentre la maggio parte delle donne si sciupa presto a causa delle gravidanze” da Aristotele
Una diversa concezione…forse?
L’emancipazione femminile, seppur parziale, avviene durante l’età più avanzata dell’impero.
Gli esempi da seguire per una buona matrona rimanevano però sempre Lucrezia (suicidatasi a causa della perdita della purezza per uno stupro).
Donne invece ammirate per la loro forza furono; Clelia, salvatrice di donne e giovani romani catturati dagli etruschi (“Clelia è stata quasi trasformata in un uomo” -dice Seneca riguardo alla realizzazione di una statua di Clelia); le donne daciche che avevano partecipato alla guerra,
rappresentate anche nella colonna Traiana; La madre dei Maccabei, che aveva esortato i sette fratelli a morire piuttosto che esporsi al disonore.
Mausonio Rufo è il primo ad avere una concezione della donna più alta e afferma che le donne hanno ricevuto dagli dei un intelletto pari a quello degli uomini e uguale disposizione naturale alla virtù.
Per la prima volta ci si rende conto che potrebbe esserci un’uguaglianza.
Nell’antica Roma non si raggiungerà mai l’uguaglianza vera e propria, la donna verrà sempre considerata come un oggetto e in ogni caso inferiore.
DONNE E RELIGIONE A ROMA
In certi sacra era vietato alle donne, come agli stranieri e ai prigionieri, di assistere ai sacrifici. Infatti secondo Paolo Diacono “La consuetudine richiedeva che un littore gridasse in certe liturgie sacre: ‘Fuori -exesto- lo straniero, il prigioniero incatenato, la donna, la ragazza!’. L’ingiunzione exesto significava che era loro vietato assistere ai sacrifici in questione.” Inoltre, proprio per questo divieto di assistere ai sacrifici, alla donna veniva proibito anche di bere vino puro in quanto parte del sacrificio stesso come offerta che accompagnava la vittima sacrificale o come offerta del sacrificio da solo. In questa società la donna viene quindi considerata incapace, a causa del suo solo sesso, di celebrare i momenti più importanti del culto, in particolare la messa a morte, lo scalco e la spartizione delle carni della vittima sacrificale.
Tuttavia la donna non poteva essere completamente esclusa. Vi erano infatti le così dette eccezioni, una serie di ruoli sacerdotali ricoperti da donne. Le più importanti sono le sei vergini Vestali. Quest’ultime sono chiamate Vestali poiché sacerdotesse della dea Vesta, dea del focolare e della casa, e vergini dato il loro obbligo di rimanere caste durante tutto il periodo di servizio. Le vergini Vestali venivano prese in una fascia d’età che variava dagli otto ai dieci anni, ed una volta selezionate, obbligate a servire la dea per almeno trent’anni.
Venivano scelte solo fra le famiglie aristocratiche e solitamente ricche in modo selettivo dato il ristretto numero di vergini Vestali. Le vergini Vestali erano considerate, a seguito della dea a cui erano legate, incapaci di mentire e non venivano quindi sottoposte a giuramenti. Le vergini Vestali avevano un solo compito: mantenere il fuoco del tempio di vesta acceso, poiché questo simboleggiava sia la longevità e stabilità della potenza della forza e dell’impero romano sul mondo allora conosciuto, sia la persistenza della verginità delle vergini Vestali stesse. Nel momento in cui questo fuoco si spegneva, il che era un alto
disonore, uno dei due era stato compromesso e spesso si speculava fosse la seconda. Quando una vergine Vestale mancava al suo dovere di rimanere casta, poiché il suo sangue era
considerato sacro e di conseguenza non poteva essere uccisa, veniva direttamente murata viva, senza viveri o con un pezzo di pane, in una fossa con solo una candela e abbandonata a morire lentamente di asfissia o per gli stenti. La vita da vergine Vestale era divisa in tre fasi, la prima che durava solitamente fino ai sedici anni circa era quella di studio in cui imparava i fasti e il calendario dei riti sacri. Nella seconda fase invece aveva il compito di controllare il fuoco e osservare la Vestale Massima compiere sacrifici. Nella terza e ultima aveva il
compito di insegnare alle giovani vergini Vestali tutte le conoscenze necessarie per essere ottime vestali. Le vergini Vestali, quando terminavano i trent’anni, potevano scegliere se continuare a ricoprire la carica, che succedeva più spesso, o abbandonare il servizio, e quindi anche l’obbligo di castità; nel secondo, più raro, caso erano solitamente ormai troppo grandi per trovarsi un buon matrimonio e metter su famiglia, quindi venivano concessi loro i diritti di amministrare il proprio denaro e di non dover essere sottomessa al pater familias. Le vergini Vestali ‘in carica’ avevano inoltre il privilegio di sedere su determinati posti d’onore, in realtà istituiti per garantire che le Vestali evitassero i contatti il più possibile; le loro
carrozze erano infatti completamente ‘sigillate’ e non permettevano alla vista di scorgerle e le Vestali aveva il permesso di comunicare solo con il Pontefice Massimo.
Vi era un’altra eccezione per le mogli dei sacerdoti e la regina sacrorum. Queste, infatti, facevano sacrifici, in particolare alle divinità che regolavano il tempo. Non si hanno molte fonti certe se non sulla sposa del flamine di Giove e quella del re dei riti sacri -rex sacrorum- dalle quali si suppone che avessero uguali diritti anche le altre flaminiche. Mentre il flaminio di Giove doveva fare un sacrificio al dio, ogni mese, il giorno delle idi, la flaminica di Giove -Flaminica Dialis- offriva tutti i giorni di mercato un ariete al rispettivo dio. La sposa del re dei riti sacri invece offriva ogni primo giorno del mese, le calende, una scrofa o un agnello alla dea Giunone. Nonostante il compito delle flaminiche venisse acquisito con
l’entrata in carica del marito la figura della donna non era considerata inferiore in questa coppia. Infatti i casi della flaminica Dialis e della regina sacrorum sono gli unici in cui la donna vale e importa tanto quanto l’uomo, questo perché, al
contrario del resto delle cariche, queste venivano considerate cariche di coppia in cui entrambi gli esponenti avevano un proprio valore. Quando una moglie muore per tanto gli esponenti devono lasciare la carica. Proprio per questa ‘singolare’
parità i padroni di casa potevano delegare i propri poteri alle mogli. Vi sarebbero inoltre figure sacerdotali femminili, quasi sempre vergini, di cui le fonti sono così frammentate e rade che ne possiamo solo ricavare la loro esistenza e il nome come, per esempio, le vergini salie.
DONNE AI PRIMI TEMPI DELLA CRISTIANITÀ
Spostandoci invece a Gerusalemme notiamo che al tempo di Gesù era fortemente proibito avere un colloquio o parlare con una donna soprattutto se straniera, come accade in ‘La Samaritana’ riportato da Giovanni l’Evangelista (Gv 4, 1-42); la stessa donna quando racconterà di aver incontrato un profeta non sarà creduta inizialmente proprio per questo radicato divieto di quel tempo. Pensare che, per sottolineare la sottomissione della donna di quel tempo, queste venivano spesso rappresentate con dei veli. Allo stesso tempo però il Cristianesimo, soprattutto con la figura di Maria come madre di Gesù e Dio o anche Eva che nasce dalla costola di Abramo perché sua pari, rappresenta un inizio verso l’emancipazione della donna. Con l'affermazione del cristianesimo non era più lecito divorziare, non solo per la moglie, ma anche per il marito. Questo fatto costituiva certamente un evidente e insperato vantaggio per ogni donna. E' certo vero che nel corso della storia della società cristiana ella è stata spesso subordinata all'uomo, a volte anche pesantemente, ma bisogna considerare che:
soprattutto nei tempi antichi la donna aveva ruoli sociali nettamente diversi da quelli degli uomini, e questo praticamente in ogni parte del mondo; la condizione della donna cristiana era socialmente più elevata rispetto alla condizione delle altre donne nel mondo. La figura di Maria Vergine ha posto la donna nel sentimento comune del popolo in grande rilievo. La persona più santa di ogni altra, la sola persona senza peccato è Maria, una donna e non un uomo. Questo dettaglio può essere importante in una comunità in cui il sesso dell’adulterio e del peccato era considerato quello della donna, in quanto era anche reputato il sesso debole sia fisicamente che mentalmente: la donna non era in grado di controllare i propri istinti e non avevano una forza d’animo. Questo semplice fatto, soprattutto quando la dimensione religiosa era fondamentale per la maggioranza delle persone, rappresentava una fortissima elevazione e nobilitazione della figura femminile e di ogni singola appartenente a tale sesso.
Che la religione cristiana nobilitasse la figura femminile più di ogni altra concezione del mondo antico, lo dimostra il fatto che nei primi secoli del cristianesimo aderivano alla Chiesa (oltre agli uomini liberi) non solo poveri e schiavi, ma anche molte donne, tanto che dai detrattori della nuova religione il cristianesimo veniva chiamato "la religione delle donne”.
Nell’antico testamento il ruolo della donna era soprattutto quello di sposa e di madre. Ruolo che le affidava il grave e onorevole compito della
soprintendenza della casa e dell’educazione dei figli in tenera età. E sebbene fosse considerata “ornamento del marito“, tuttavia le erano
riconosciuti, a differenza dei popoli circonvicini, una certa indipendenza e i diritti della persona. Ed anche se non aveva alcun ruolo sacro nel culto del tempio e della sinagoga, tuttavia emergono nella storia figure gigantesche di donne sia per la statura personale sia per la fede nel Dio di Israele sia per le gesta compiute, come Rut, Debora, Giuditta, Ester, Ulda…
Con l’andare del tempo però specialmente nel tardo giudaismo la figura femminile perse sempre di più di importanza tanto che nella preghiera quotidiana del buon israelita si dice: “Benedetto sii tu, Dio nostro, per non avermi fatto né pagano, né donna, né ignorante” e la donna dice: “Lodato sii tu, o Signore, che mi hai creata secondo la tua volontà”.
Nella prima chiesa le donne occuparono fin da principio un posto
particolare sia perché la prima chiesa si radunava in casa di Maria, madre di Giovanni Marco (Atti 12, 12), e di altre donne che sono discepole di Cristo come i maschi perché segnate dallo stesso battesimo e riempite dello stesso Spirito.
L’apostolo Paolo, nonostante alcune limitazioni che sembrano più
influenzate dalla necessità di non scandalizzare, riconosce alle donne anche il carisma della profezia (1 Cor. 11,5) e nella lettera ai Romani Paolo
raccomanda «Febe, sorella nostra, “diacono” (così nel testo greco) della Chiesa di Cencre» (16,1).
Le missionarie
Nel contesto dell’espansione del cristianesimo primitivo, molte donne hanno cercato di comunicare la “Buona Novella” e hanno creato importanti reti di fratellanza in tutto il Mediterraneo. Portando il Vangelo di villaggio in
villaggio, a queste synergos (collaboratrici) fu riconosciuta una certa autorità, presiedendo le comunità come direttrici. Donne come Evodia, Sintiche o Perside sono state alcune delle molte collaboratrici delle comunità missionarie paoline, ma ci sono state anche delle coppie famose, come Maria e Cleofa, Priscilla e Aquila, o Giunia e Andronico. Tutte queste donne, da sole o in coppia, hanno svolto un ruolo di primo piano nella fondazione delle comunità domestiche e hanno esercitato la predicazione.
Le profetesse
Nel Nuovo Testamento vengono descritte le attività profetiche delle donne. Il carisma profetico fu molto apprezzato nel movimento cristiano, e le donne svolsero un ruolo fondamentale nelle conversioni, insieme agli apostoli.
Partecipavano anche alle assemblee comunitarie e prendevano parte ai discorsi in lingue, alle loro “interpretazioni” e alla recitazione o al canto dei salmi.
Queste profetesse godevano di grande autorità, fino al secolo II. Il caso più noto è quello della figlia di Filippo, missionario ellenico che viveva in Cesarea Marittima.
DONNE DELLA LETTERATURA E
STORIA ROMANA
LUCREZIA
Il massimo esempio della matrona è Lucrezia, di cui ci narra Tito Livio nella sua “Ab Urbe Condita libri”.
Lucrezia, figlia di Spurio Lucrezio Tricipitino e moglie di Collatino, è una figura mitica della storia di Roma legata alla cacciata dalla città dell'ultimo re Tarquinio il Superbo.
Secondo la versione riportataci da Tito Livio, l’ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo, aveva un figlio di nome Sesto Tarquinio. Costui durante l’assedio della città di Ardea, allora appartenente ai Rutuli e attualmente parte del Lazio, decide con un gruppo di nobili di tornare a Roma al fine di cogliere di sorpresa le mogli di ciascuno di loro e vedere cosa fanno in assenza dei propri mariti. Di questo gruppo faceva parte Collatino, il quale sostiene che nessuna donna potrebbe mai eguagliare la pudicizia, la laboriosità e la fedeltà di Lucrezia, sua moglie. Infatti, mentre le mogli degli altri uomini sono state colte mentre banchettavano e si dedicavano ad atti indegni, Lucrezia viene trovata a tessere con le sue ancelle. A quella vista Sesto Tarquinio fu preso dalla insana smania di averla a tutti i costi. Questi allora, qualche giorno dopo, andò a far visita a Lucrezia la quale, ignara delle sue intime intenzioni, lo accolse. Quella stessa notte l’uomo si recò nella stanza della nobildonna e, puntandole un coltello al petto, le disse che se avesse parlato l’avrebbe uccisa. Egli, dopo aver cercato di piegare con suppliche l’animo della donna, passo alle minacce; Lucrezia, a quel punto, cedette al fine di non essere ingiustamente accusata di azioni che non aveva mai compiuto. Lucrezia, violata e spogliata del suo onore, fece chiamare il padre e il marito e, dopo aver raccontato loro il tragico fatto, gli fa promettere che si sarebbero vendicati. Lucrezia allora pronuncia le parole «E da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l’esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!» e, tirato fuori un pugnale, se lo pianta nel cuore.
PORZIA
Nel 42 a.C. Bruto e Cassio, gli assassini di Cesare, vengono sconfitti a Filippi. Bruto lascia una vedova inconsolabile: Porzia, figlia di Catone Uticense. Venuta a sapere della morte del marito, Porzia tenta di uccidersi in tutti i modi. I suoi parenti e i suoi amici però la ostacolano nel suo volere, ma non per molto.
Porzia, dopo aver visto i carboni ardenti nel camino, se ne riempie le mani, poi la bocca, poi li divora, poi li deglutisce. Muore, finalmente felice, «inghiottendo castissimi carboni ardenti» come dice Valerio
Massimo. Questo episodio, raccontato ed esaltato anche dallo stesso Marziale, rispecchia un costrutto sociale ben preciso: da una moglie perfetta ci si aspettava che non desiderasse sopravvivere al marito, in quanto non poteva né vivere né esistere senza di lui.
ARRIA
Arria, moglie di Cecina Peto, era stata per tutta la vita un esempio e un monito tanto per se stessa quanto per gli altri. Quando infatti uno dei suoi figli si ammalò di un morbo che lo avrebbe condotto alla morte proprio nello stesso periodo in cui Peto giaceva ammalato sul suo letto, Arria nascose al marito l’accaduto al fine di non addolorarlo. Ogni volta che entrava nella stanza del marito asciugava le lacrime che le avevano solcato il viso e si ricomponeva. Questa strepitosa donna diede la prova definitiva di sé quando, nel 42 a.C., il marito venne condannato a morte poiché coinvolto in una congiura contro
l’imperatore Claudio. Per evitare il disonore Peto non poteva fare altro che suicidarsi ma egli, spaventato dalla morte, esitava. A quel punto la moglie lo convinse a fare il suo dovere, promettendogli che l’avrebbe seguito; Arria, afferrata la spada, se la conficcò nel ventre e poi la diede al marito. Marziale, nel suo racconto, dice: «Nel porgere al suo Peto la spada / estratta dalle sue viscere, la casta Arria / disse: -Non mi fa male la ferita che mi sono fatta, / Peto. Mi fa male solo quella che tu ti farai-».
MESSALINA
Sicuramente non serve avere una conoscenza approfondita della storia romana per sapere cos’è una «messalina». È una donna dai costumi riprovevoli, dai molti amanti, dai presunti insaziabili appetiti sessuali. Così è entrata nell’immaginario popolare
Valeria Messalina, moglie dell’imperatore Claudio. Leggendo le fonti, si può sospettare che Messalina fosse diversa dall’immagine che le è stata modellata addosso quando ancora era in vita, e dalla quale non si è mai più liberata.
Ella era figlia di Valerio Messalla Barbato e Domizia Lepida, nipote di Ottavia, sorella di Augusto, e venne data in moglie intorno ai quindici anni a Claudio, che ancora non era imperatore. Quando però lo divenne, Messalina, in quanto imperatrice, iniziò a sentire l’inebriante sensazione di possedere il potere. Molto presto però la fanciulla si rese conto delle difficoltà della vita di corte, poiché tenersi stretto il potere implicava scaltrezza, cinismo, controllo di sé, capacità di destreggiarsi e di difendersi dagli intrighi, tutte caratteristiche che Messalina possedeva relativamente. Avendo molti avversari ed essendo inesperta, dunque, è facile che le storie che circolavano circa gli amanti dell’imperatrice fossero state non poco esagerate o addirittura inventate.
Attenzione però: è comunque probabile che Messalina si sia concessa qualche avventura, ma non sicuramente nelle quantità e modalità che vengono riportate da scrittori e pettegolezzi vari. Giovenale racconta per esempio che ogni sera,
addormentatosi il marito, si prostituisse in un bordello sotto il nome di Licisca. Secondo un’altra storia narrata da Plinio il Vecchio Messalina avrebbe vinto una gara con una nota prostituta; oggetto del contendere, chi sarebbe riuscita ad avere più rapporti sessuali consecutivi.
Quante di queste storie sono vere e quante no, purtroppo, non lo sappiamo con precisione.
LESBIA
Catullo, nato a Verona attorno all'84 a.C., si trasferì nella capitale in giovane età, entrando immediatamente in contatto con l'intellighenzia romana. Di lui rimangono 116 carmi, raccolti nel "Liber Catullianus", in gran parte dedicato alla sua appassionata vicenda d'amore per Lesbia; in altri componimenti si abbandona al gioco letterario, alla celebrazione dell'amicizia e alla satira politica.
Musa ispiratrice delle liriche è Lesbia, pseudonimo scelto per rendere omaggio alla poetessa greca Saffo , vissuta appunto a Lesbo, fra il VII e il VI secolo a. C.
Poco importa sapere chi fosse realmente Lesbia, tuttavia si ritiene che si trattasse di Clodia, moglie di Q. Metello Celere e sorella del tribuno Publio Clodio, donna citata anche da Cicerone in una sua orazione. Ella è una rappresentante di spicco della Roma aristocratica, ma in privato è una donna di liberi costumi e con svariati amanti.
Due sono i punti di vista di Catullo nei confronti di Lesbia:
➢Da una parte ella viene descritta come donna ideale, protagonista di un grande amore, intenso sia fisicamente che mentalmente; dall'altra, nei momenti di crisi fra i due, viene descritta dal poeta in modo molto disincantato, con gli occhi dell'amante deluso.
➢Dal tutto, emerge il ritratto di una donna molto affascinante che attrae in maniera morbosa il giovane ed inesperto Catullo, e che lo tormenta con il suo modo di vivere l'amore.
Catullo è così emblema dell'uomo che entra nella vorticosa spirale di un amore difficile, per di più con una donna come Lesbia, per la quale egli prova una sorta di attrazione fatale.
Sicuramente quella di Lesbia è una figura singolare in un panorama come quello della Roma antica, dove la donna non era per nulla emancipata.
DIDONE
Figlia di Belo, re di Tiro, Didone era regina e fondatrice di Cartagine.
Narra la leggenda che, alla morte di Belo, salirono insieme al trono i suoi due figli,
Pigmalione (Pg.) ed Elisha. Il disaccordo, subito evidente, fra i due fratelli consegnò, di fatto, il potere al marito di Elisha, Sicheo, ricco cittadino di Tiro. Pigmalione per impadronirsi delle ricchezze e del potere fece assassinare il cognato e la frattura con la sorella divenne definitiva.
Con l'appoggio di parte dell'aristocrazia di Tiro, Elisha si risolse ad abbandonare per sempre la patria: con l'inganno riuscì ad impossessarsi delle navi di Pigmalione ed a portare con sé l'oro nascosto dal marito, che Virgilio narra esserle apparso in sogno per avvertirla
dell'inganno del fratello.
Questa vicenda le procurò il nome Didone, la fuggitiva. Dopo anni di peregrinazioni, che li portarono dapprima verso Cipro, i fuoriusciti approdarono sulle coste africane ed iniziarono la ricostruzione di una patria. La prima necessità degli esuli da Tiro fu quella di occupare un territorio ed anche questo episodio fu trasposto in leggenda.
Si narra che il re Iarba avesse concesso a Didone quell'area che era possibile coprire con una pelle di bue. Si trattava, ad evidenza, di un inganno, ma la futura regina di Cartagine seppe risolverlo a suo favore: essa, infatti, tagliò la pelle di bue in strisce sottilissime che legò fra loro riuscendo, così, a circondare interamente l'altura su cui doveva sorgere la città.
Innamorandosi di Enea, giunto sulle coste di Cartagine dopo il lungo peregrinare da Troia distrutta, venne meno al patto di fedeltà giurato al marito defunto Sicheo.
Dopo un lungo periodo di passione forte e ardente che la consuma completamente, Didone viene abbandonata da Enea. Distrutta dal tradimento si toglie la vita, maledicendo l’intera stirpe che poi Enea avrebbe fondato, quella romana.
CAMILLA
La storia della vergine Camilla è raccontata da Diana nell'Eneide (XI, 532 segg.). Suo padre era Metabo, re della volsca Privernum, che, costretto a fuggire dalla città, si prese in collo la figlioletta. Giunto alla sponda dell'Amaseno e temendo di passarlo a nuoto con la bimba, la legò, chiusa in una corteccia di sughero, alla sua grande asta, la consacrò a Diana e la scagliò sopra la corrente. Passò quindi il fiume a nuoto e trovò sull'altra riva Camilla, salva per opera di Diana. Metabo nutrì la figlia di latte di cavalla selvaggia, e appena poté l'armò di giavellotto, d'arco e di frecce; vestita di pelli di tigre, ella cacciava, invano desiderata come nuora dalle madri tirrene. Alleata dei Latini e di Turno contro i Troiani di Enea, l'Amazzone italica compare alla testa d'uno squadrone di cavalieri nella rassegna del libro VIII (v. 803 segg.), compie
prodigi di valore nella grande battaglia del libro XI (v. 648 segg.), finché viene uccisa dall'etrusco Arunte.
LAVINIA
Secondo Virgilio e Tito Livio, Lavinia era figlia di Latino, re eponimo dei Latini, antico popolo dell'Italia Centrale, e di Amata, sua moglie.
Inizialmente Lavinia era stata promessa in sposa a Turno, re dei Rutuli. Dopo lo sbarco di Enea nel Lazio, fuggito da Troia in fiamme col padre Anchise e il figlio Ascanio detto anche Iulo, e la
protezione accordata dal Re Latino a Enea, Lavinia fu data in sposa al capo troiano per suggellare la nuova alleanza[1]. Re Latino, con l'arrivo di Enea, ruppe i patti precedenti, di concedere Lavinia in moglie al giovane re dei Rutuli, anche perché suo padre, il dio italico Fauno, gli aveva preannunciato che l'unione di uno straniero con sua figlia Lavinia avrebbe generato una stirpe eroica e gloriosa. I Troiani fondano una città che chiamano Lavinium, in onore della sposa di Enea.
Come scrive Livio, la rottura della promessa coniugale fece scoppiare il conflitto fra i Troiani-Latini e i Rutuli di Turno. La guerra si concluse con la disfatta di Turno, e la vittoria di Troiani e Latini, i quali però persero in battaglia re Latino. In seguito Turno, alleatosi con gli Etruschi di Mezenzio, re
di Caere, scese di nuovo in guerra contro i Latini, i quali vinsero ancora una volta i nemici.
Secondo Virgilio, invece, Latino fu costretto dai suoi sudditi a schierarsi con Turno contro Enea dopo l'uccisione di un suo cortigiano, il giovane e grintoso Almone; ma non intervenne personalmente nei combattimenti.
Dopo la morte di Enea, Lavinia continuò a regnare su Lavinio e sui Latini. Essendo poi sorti contrasti col figliastro Ascanio, si rifugiò prima in un bosco, poi nella capanna del pastore Tirro (il padre di Almone), dove diede alla luce Silvio, capostipite dei re di Roma. Qualche tempo dopo, Ascanio, che era malvisto dal popolo per l'atteggiamento ostile verso la matrigna, si riconciliò con Lavinia
cedendole la città di Lavinio, e fondò per sé una nuova città, sui Colli Albani, che fu chiamata Alba Longa. Silvio, figlio di Enea e Lavinia, succedette al fratellastro Ascanio come re di Alba Longa.
Da Iulo, figlio di Enea e Creusa, la tradizione romana fa discendere la gens Iulia, che portava il cognomen "Caesar", alla quale apparteneva Gaio Giulio Cesare, considerato uno dei personaggi più importanti e influenti della storia. La ricerca storica moderna sembra riconoscere un qualche
fondamento a questa discendenza. Numerosi storici, fra i quali Massimo Pallottino (in ”Le Origini di Roma!), sostengono, sulla base di studi linguistici, che la gens Iulia sia effettivamente originaria del sito di Alba Longa. I suoi nobili esponenti, da sempre annoverati fra i patrizi, si sarebbero insediati a Roma in periodo monarchico, secondo un'usanza seguita da altre famose gentes patrizie.
OPIMIA
Il 216 a.C. era stato un anno veramente difficile per i Romani. Annibale aveva sconfitto le loro truppe a Canne, il futuro sembrava incerto, i Cartaginesi erano alle porte. In questo contesto si inserisce lo scandalo che coinvolse Opimia, che era una sacerdotessa di Vesta, e Cantilio.
Il loro amore non era solo illecito, ma sacrilego: le sacerdotesse di Vesta, infatti, erano legate ad un voto trentennale di castità. Le conseguenze del venir meno a questo voto erano deleterie per la città, potevano sconvolgerne il
presente e comprometterne l’avvenire.
Gli dei, infatti, offesi ed indignati per il comportamento delle vergini, se queste violavano il voto, minacciavano di punire la città con ogni tipo di sciagura.
Questa non poteva sopportare che il comportamento dei due amanti rompesse la pace con gli dei, a maggior ragione in un momento così difficile per Roma.
Punire i colpevoli era indispensabile per evitare le sciagure che ne sarebbero senza dubbio conseguite¸ quindi la sorte di Opimia e Cantilio fu determinata, in gran parte, dal momento storico.
Ai due amanti spettò la sorte di coloro che già si erano resi colpevoli di tale crimine (Pinaria , all’epoca di
Tarquinio Prisco, Oppia ed Opimia nel 438 a C., Orbinia nel 472 a C., Minuccia nel 337, Sestilia nel 273), secondo un rituale atroce: fatta salire su un carro nero trainato da cavalli neri e coperto da veli neri, la colpevole attraversava la città diretta alla Porta Collina dove era scavata una piccola stanza che si raggiungeva calando una scala.
All’interno solo una lucerna e un po' d’olio per alimentarla. Giunta sul luogo del supplizio, la donna scendeva la scala, che veniva subito ritirata ed il tetto del suo sepolcro si chiudeva su di lei, per sempre.
Il complice della vestale andava incontro ad una morte altrettanto crudele; dopo essere stato scoperto, veniva denudato, condotto al Comizio con una corda al collo, come gli schiavi, e qui fustigato a morte.
I due amanti pagarono il prezzo del loro amore morendo, Opimia sepolta viva, Cantilio sotto le verghe, esposto alla pubblica vergogna.
MARZIA
Nell’antica Roma era uso, o per lo meno non era un’eccezione, che un marito cedesse la propria moglie incinta, dopo averla ripudiata, ad un altro che non aveva figli affinché potesse soddisfare il suo desiderio di paternità.
Come scrive Plutarco “se un marito romano aveva un numero sufficiente di figli, un altro, che non ne aveva, poteva convincerlo a lasciargli sua moglie, a tutti gli effetti, o solo per una stagione”. Cessione temporanea o definitiva, a seconda dei casi, cessione di una moglie fertile e, per maggior sicurezza, addirittura già incinta.
Ecco cosa accadde a Marzia, moglie di Catone detto il Giovane, la quale venne ceduta dal marito ad Ortensio, per il quale partorì un figlio concepito da Catone, quindi naturalmente di quest’ultimo e giuridicamente del secondo marito Ortensio.
Ecco cos’era la comunanza di figli.
La cessione della moglie non veniva considerata una mancanza di riguardo nei confronti della donna, ed era altrettanto plausibile che questa desiderasse tornare con il marito che l’aveva ceduta.
Lucano nella “Pharsalia” racconta la fine della storia: “Il sole scioglieva le gelide ombre quando alla porta di Catone venne a bussare piangendo la nobile Marzia, che aveva appena lasciato il sepolcro di Ortensio. E così parlò mesta: “Fino a che vi era ancora del sangue , in me, fino a che avevo forza di generare, Catone, ho fatto quello che mi hai ordinato. Ho avuto due mariti e ho dato a ciascuno di loro dei figli. Ora torno con il ventre esausto, sfinita dai parti, in condizione da non poter essere più ceduta ad altro uomo. Concedimi di rinnovare i casti legami del primo matrimonio; dammi soltanto il nome di moglie, così che sulla mia tomba di possa scrivere: Marzia, moglie di Catone”.
Alla morte di Ortensio, Catone risposa Marzia.
FULVIA
Per indicare l’emancipazione di Fulvia basta dire che non si occupava della casa e non filava la lana; l’esatto contrario delle matrone del buon tempo antico. Fulvia era una donna molto istruita in letteratura greca e latina, sapeva suonare la lira e danzare meglio di qualunque altra, ed era avvezza a molte attività che sono parte integrante di una vita licenziosa. Ma qualunque altra cosa le era più cara della decenza e della moralità. Tuttavia possedeva capacità mentali da non
disprezzare affatto: l’abilità di scrivere i versi, di raccontare le barzellette, di parlare castamente, teneramente e con vivacità, in una parola aveva molto spirito e un grande fascino.
SULPICIA
La storia d’amore tra Sulpicia e Cerinto offre lo spunto per trattare alcuni aspetti rilevanti della condizione della donna all’epoca romana.
Sulpicia, vissuta nell’età di Augusto, apparteneva ad una nobile famiglia.
Colta e di buone letture, Sulpicia scrisse poesie d’amore per un certo Cerinto, di cui non si conosce l’identità ma certo dovette trattarsi di un amore proibito, verso cui Sulpicia non si vergogna di manifestare i propri sentimenti.
Non si sa come andò a finire la storia, ma dai pochi versi emergono alcuni dati: la disparità sociale tra i due e la determinatezza della volontà di Sulpicia, la sua sfida alle convenzioni, la sua rivendicazione di autonomia.
È la voce di una donna libera e di una storia d’amore vissuta in modo, per quei tempi, del tutto inconsueto, di una donna che ha osato così apertamente sfidare le convenzioni.
I poemi di Suplicia non sono stati tramandati sotto il suo nome, ma tra le opere attribuite a Tibullo.
Le donne non avevano canali per far conoscere le proprie opere e, comunque, non veniva presa neppure in considerazione che un’opera femminile potesse essere tramandata ai posteri.
CURIOSITÀ
OSCULUM, SAVIUM, BASIUM
Esistono molti modi di baciarsi. I Romani utilizzavano tre termini diversi per definire lo stesso atto, ma con sfumature differenti: osculum, savium e basium.
Osculum si usa per indicare un bacio nei contesti familiari.
Savium si usa in ambito erotico, spesso riferito a rapporti con prostitute.
Con il passare del tempo i due termini hanno gradualmente perso la propria sfumatura di significato fino ad arrivare a indicare la stessa cosa, con una sola differenza:
osculum è un termine formale usato principalmente nella letteratura e in contesti ufficiali, savium è volgare.
L’ultimo, basium, nasce con Catullo e, conseguentemente, ha un valore erotico Il termine osculum deriva dal latino «os» = «bocca»; i contemporanei potrebbero pensare al bacio d’amore, ma i Romani lo usavano per baci familiari, in particolare quelli che i parenti davano alle matrone quando le incontravano. Questo bacio non era quindi erotico ma quello che permetteva di vigilare sulla virtù della donna stessa: gli uomini, baciando sulla bocca la matrona, potevano controllare se aveva bevuto del vino, bevanda assolutamente vietata alle donne nei primi secoli della civiltà romana; le donne infatti possedevano le chiavi della cantina, dove era conservato il vino. La
donna che infrangeva questa legge andavano incontro alla punizione del marito, il quale era legittimato ad ucciderla. Da qui nasce «Il diritto del bacio».
Ovviamente il termine osculum viene usato anche per rappresentare situazioni diverse rispetto a quelle domestiche: il bacio poteva essere anche semplicemente una forma di saluto e, più specificatamente, di riconoscimento sociale.
DONNA GRECA
Nell’antica Grecia la donna doveva passare la propria vita nelle mura domestiche, vivendo nella parte della casa chiamata gineceo (gynaikeios). Alle donne d’alto rango era permesso controllare gli schiavi svolgere i lavori domestici e chiacchierare con le proprie parenti; esse potevano uscire di casa solo durante le grandi occasioni, come feste religiose o avvenimenti importanti per la propria famiglia. Le donne di condizioni meno agiate dovevano svolgere i lavori domestici, ma non potevano fare spesa (compito che spettava ai servi), a volte uscivano, ma solo se necessario, come per trovarsi un lavoro una volta rimaste vedove. Le donne vivevano quasi in una condizione di reclusione in casa, non era neanche concesso loro di ricevere visite dalle altre donne. Il termine oikos, che significa casa, nell’antica Grecia
comprendeva tutti i possedimenti che appartenevano ad un individuo e la donna faceva parte delle ricchezze poiché era colei che provvedeva alla riproduzione, per questo la casa veniva considerato il luogo più adatto alle donne. La moglie doveva restare fedele al marito e assicurargli una discendenza legittima, doveva rispettare la divisione dei ruoli ed obbedire a lui, doveva rispettarlo ed interessarsi solo a
questioni riguardanti ila nucleo familiare, questo perché era un possedimento
dell’uomo e come tale gli apparteneva. Solo le eteree (etaipai) venivano considerate donne libere, di solito erano straniere o ex schiave; alcune di loro, nate in questa condizione, venivano educate da piccole all’impudicizia. Queste figure femminili danzavano nei banchetti e in spettacoli musicali, offrivano prestazioni sessuali e compagnia, erano autonome, infatti amministravano da sole ai loro beni e potevano uscire di casa senza problemi.
Sparta
Le donne a Sparta ricevevano un’educazione simile a quella degli uomini, basata sul culto della forza: infatti sin da piccole si
dedicavano all’esercizio fisico e potevano partecipare alle gare; inoltre seguivano una dieta basata sui cereali e era vietato loro bere il vino. Questo perché dovevano crescer sane e forti, sperimentando la fatica e la
sofferenza per essere poi pronte ad affrontare il parto ed essere in grado di generare figli altrettanto sani e forti.
Atene
Ad Atene, invece, le condizioni erano molto restrittive per le donne: trascorrevano la loro vita quasi recluse in casa, non era permesso loro allenarsi o partecipare alle gare. Nella città un uomo sposato possedeva amanti, per il piacere, concubine, perché
servissero quotidianamente, e le mogli, per procreare.
DONNA GERMANICA
La donna germanica era nel suo tempo la meno emarginata: infatti possiamo considerare la civiltà germanica come l’unica che si approssima ad un ideale di uguaglianza fra uomo e donna. Infatti, quando due promessi si univano in
matrimonio, l’uomo doveva mettere tanta parte nella dote tanto quanta ne aveva messa la donna. Inoltre, nonostante l’amministrazione fosse principalmente
affidata alla figura maschile e ugualmente i frutti dell’intera somma della dote, alla morte di uno dei due coniugi, quello che sopravviveva ereditava il capitale di entrambi e il frutto degli anni precedenti. In ogni caso, all’eventuale morte di un marito, solitamente i parenti si riunivano per giudicare se tale morte fosse stata o meno accidentale e in caso contrario la donna sarebbe stata arsa viva.
DONNA CELTICA
A differenza delle donne greco-romane sue contemporanee, nel popolo celtico la donna rivestiva un ruolo decisamente più importante,
equivalente a quello dell’uomo.
Libera all’interno della società, indipendente dalla famiglia, partecipava da protagonista in molte occasioni e in ambiti diversi.
Tra i Celti, l’èlite intellettuale religiosa era composta sia da druidi quanto da druidesse dalle molteplici conoscenze.
A parità di diritti con l’uomo, la donna aveva anche l’obbligo di servire la patria come soldato.
Non sempre era impiegata direttamente nell’esercito, ma la sua presenza era di contorno in ogni battaglia, incitando i soldati, curando i feriti, portando vettovaglie e all’occorrenza combattendo.
Durante le battaglie, i carri con le donne e i bambini stavano intorno al campo, dove si combatteva, per far sì che i guerrieri udissero i pianti dei propri figli e le urla delle loro donne e quindi spronati a combattere per essi.
Spesso e volentieri, la donna celtica partecipava attivamente alla battaglia, altezzose e coraggiose quanto gli uomini.
BOUDICCA
La testimonianza più consistente della bellicosità delle regine celtiche, viene dallo
storico romano Dione Cassio, con la descrizione della regina degli Iceni ( I secolo d.C.), la quale guidò i Britanni in una coraggiosa rivolta contro i Romani: “ Boudicca era alta, con uno sguardo che incuteva paura, la voce roca e una massa di capelli rossi lunghi fino alle ginocchia. Portava una collana d’oro dagli anelli intarsiati, una veste variegata e, sopra di questa, un manto chiuso da una fibbia. Stringeva nella mano una lunga lancia che incuteva timore a quanti la osservava.”
Per vendicare la morte del marito, la regina, riuniti la sua tribù e i clan vicini, mosse alla conquista di diverse località occupate dai Romani, radendole al suolo.
Tacito, nelle sue opere storiografiche, racconta di come le donne celtiche incitassero l’esercito che si sfaldava denudandosi il petto, per rammentare ai propri uomini la schiavitù alla quale le avrebbero lasciate rinunciando a combattere.
Anche Plutarco, a proposito dello scontro di Aquae Sextiae (Aix-en-Provence,102 a.C.), narra di presenze di donne guerriere nella mischia, che combattevano con spade e asce, strappando ai Romani gli scudi anche a mani nude, respingendo dai carri tanto i nemici Romani quanto i Celti vigliacchi in fuga.
La perdita del rango di sacerdotesse guerriere a l’acquisizione di quello di streghe sopraggiunse con il passaggio alla religione cristiana.
Le donne druide furono ridotte, nelle storie antiche, alla condizione di figure demoniache simile alle streghe, degradando la loro mitica bellezza e il ruolo
sociale/religioso, le loro grandi virtù e i poteri, oltre agli esempi di coraggio e nobiltà all’interno della società celtica.
CHIOMARA
Della regina Chiomara, moglie di Ortagion della tribù degli Tolistoboii, parla lo storico Polibio, il quale ci dice che la sua tribù era alleata dei Galati contro lo strapotere di Roma nel periodo del 189 a. C. circa.
Chiomara, durante un combattimento, venne catturata dai Romani e successivamente rapita da un centurione il quale chiese un riscatto a Ortagion, avendo scoperto il rango elevato della donna.
Lo scambio si svolse sulla riva di un fiume, ma mentre il centurione si abbassava per prendere l’oro Chiomara lo decapitò e donò la testa al marito sostenendo che fosse una buona cosa che fosse in vita un solo uomo in intimità con lei. Polibio sostiene di aver avuto una conversazione con lei a Sardis e ne sottolinea il buon senso e l’intelligenza.
CAMMA
Sempre Plutarco ci narra la storia di questa giovane. Camma era la giovane moglie
di Sinatos, tetrarca della Galazia, famosa per la sua bellezza e la sua virtù; amava molto il marito e si dedicava completamente a lui. La sua bontà e la sua dolcezza la resero famosa e amata. Ciò che la rendeva ancor più famosa era il fatto che fosse una sacerdotessa di Artemide, divinità molto rispettata e venerata dai Galati. Synoirx, lontano parente di Sinatos e tetrarca lui stesso, la vide e se ne invaghì e per poterla avere senza violenza pensò di ucciderle il marito. Senza lasciar passare troppo tempo chiese la mano di Camma, che però si chiuse nel tempio a pregare e a pensare a come vendicarsi. Dopo molto tempo, molte preghiere e molte pressioni da parte di parenti e amici, Camma acconsentì a sposare Synorix.
Lo fece chiamare per dichiararsi davanti alla Dea, lo accolse gentilmente e lo accompagnò all’altare dove li attendeva una coppa di idromele per suggellare l’unione; l’idromele però era avvelenato, preparato da lei stessa.
Camma ne bevve una lunga sorsata e invitò Synorix a fare lo stesso e dopo che lui ebbe bevuto scoppiò in una risata isterica e si prostrò davanti alla Dea: “Mi sei testimone, è per vedere questo giorno che sono sopravvissuta alla morte di Sinatos, senza trovare nella vita nulla di buono che non fosse la vendetta. Ora che l’ho avuta, torno dal mio sposo.
Per te, più esecrabile degli uomini invece che il talamo nuziale si preparerà la tomba”.
DONNA EGIZIA
La donna egizia godeva della stessa posizione giuridica dell’uomo. Tuttavia, erano gli uomini a ricoprire quasi tutte le cariche pubbliche. La donna esercitava le sue principali attività nella sfera privata, come “signora della casa”.
Questa uguaglianza quasi totale era ovviamente possibile solo nelle classi più alte.
Regine egizie più note
Hatshepsut, Nefertiti e Nefertari furono solo tre delle sei donne che assunsero la reggenza del regno d’Egitto.
Hatshepsut regnò dal 1505 a.C. al 1438 a.C., rendendo florido il regno grazie a un’ottima amministrazione.
Nefertiti e Nefertari ebbero un ruolo fondamentale nell’amministrazione del regno, affiancando i rispettivi mariti.