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in Dopo il fiore

Nel documento Novecento in prosa. Da Pirandello a Busi (pagine 181-193)

1. La «decana» di casa, come amava definirsi? La custode del- le memorie familiari, come finì per diventare? La vestale del re- cinto in cui rischiò di restare intrappolata? La studiosa? L’anto- logista? La chiosatrice? La maestra? La scrittrice? Delle possibi- li facce, quale la più persuasiva? La donna di scuola, la traduttri- ce di cultura e di valori? La memorialista, la conservatrice dei ri- cordi e dei tesori? Poteva esserci di meglio per Virginia Galante Garrone (1906-1998) che rievocare la scuola – la propria scuo- la – in un libro fatto con «ritagli di fantasia»1?Un «arcobaleno di

memorie»2 raccontate così come vengono? «Inezie, momenti fu-

gaci, attimi fuggenti»3 disposti in quello che qualcuno ha chiama-

to il «trepido journal»4?

Vediamo di mettere un po’ d’ordine. I libri narrativi di Virginia Galante Garrone – tra i tanti destinati ad usi più specifici, e per lo più didattici – sono cinque, o se si preferisce quattro più uno. Pri- ma i quattro pubblicati nell’arco di dieci anni: Se mai torni (Gar- zanti, 1981), L’ora del tempo (ivi, 1984), Nel transito del vento

1 V. Galante Garrone, Dopo il fiore, a cura di Giovanna, Alessandra e Mar- gherita piccole editrici in Torino-Maccaretolo di San Pietro in Casale- Venezia il 20 gennaio 1996 [XC], p. 63 (nuova edizione, a cura di G. Te- sio, Interlinea, Novara 2007).

2 Ivi, p. 119. 3 Ivi, p. 125.

4 B. Quaranta, Con la Galante nella selva oscura, in «La Stampa», 28 gennaio 2007.

(Paoline, 19885), Per una selva oscura (Garzanti, 1991), che si

possono diversamente raggruppare, distinguendo i tre pubblicati da Garzanti (quasi una trilogia), in quanto narrazioni memoriali, da quello pubblicato nelle Edizioni Paoline, Nel transito del ven-

to, che – pur scaturendo da una costola di uno dei libri Garzan-

ti, che è L’ora del tempo – sembrerebbe organizzarsi a prima vi- sta in romanzo.

Comunque stiano le cose, a questo filone abbastanza tardi- vo della narrazione (quando esordisce pubblicamente nelle patrie lettere, Virginia Galante Garrone ha settantacinque anni, essendo nata a Vercelli nel 1906) va annesso il quinto e ultimo libro, Do-

po il fiore, pubblicato in famiglia a cura delle nipoti Giovanna,

Alessandra e Margherita «piccole editrici» per festeggiare i no- vant’anni della zia, che morirà due anni dopo.

Titoli tutti danteschi6. Titoli che evocano la durata e l’inten-

sità del classico per eccellenza, a cui si è alimentato l’insegna- mento negli anni: una sorta di sestante e di vademecum che ha caratterizzato il curriculum professionale e nutrito la pagina let- teraria (andrebbe sottolineato che il Dante della Galante Garro- ne non è solo quello della prima cantica, ma anche quello, tutt’al- tro che infrequente, delle due cantiche ascensionali). Titoli lega- ti al sentimento del tempo e alla percezione della sua natura fra- gile e fuggitiva.

5 La pur accurata ricostruzione biografica, Una lunga giovinezza, a cura di C. Bergamaschi (in AA. VV., La sorella maggiore. Omaggio a Virginia

Galante Garrone, in «Rivista dell’Istituto storico della Resistenza e del-

la Società contemporanea in Provincia di Cuneo», n. 71, giugno 2007), indica nel 1990 la data di edizione di Nel transito del vento (p. 25). 6 Su Dante come modello dell’opera memorialistica di Virginia Galante

Garrone si veda G. Baldissone, Gli archivi «danteschi» di Virginia, in I

Galante Garrone: una famiglia vercellese del Novecento [Atti del Con-

vegno di Studi, Vercelli 17 marzo 2004], a cura di E. Tortarolo, Uto- copyVercelli, Vercelli 2004, pp. 29-39. Del resto è la stessa autrice ad autorappresentarsi – con le virgolette – come la «“dantista” di casa» (in V. Galante Garrone,Per una selva oscura, Garzanti, Milano 1991, pp.

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Unica deroga quella «selva oscura» che allude al dolore sof- ferto ma anche al suo riscatto; che rinvia allo smarrimento mora- le ma anche – già – al suo finale presagito. Come del resto è narra- to in Dopo il fiore al capitolo «Le irrepetibili ore»: la Valle d’Ao- sta, la «Silve noire», l’esperienza autobiografica dello smarrimen- to e del ritrovamento, il murmure indistinto che fa «la voce dell’ac- qua» (memoria a sua volta della pagina manzoniana di Renzo al- l’Adda?), il chiarore leggero del sole che indica la via verso il pia- noro, la salvezza della «viandante smarrita e non perduta»7.Cita-

zione del tutto prossima a quella che chiude il capitolo di un fram- mento ancora dantesco in Per una selva oscura. Non sono il cupo e lo sgomento del tragitto a prevalere ma l’altezza dello sguardo e la speranza dell’esito, scandite dall’adozione – dantescamente con- sonante – dell’anafora:

Anche noi ci ritroviamo inUnaselvaoscUra, anche noi cer-

chiamo di guardare in alto, anche per noi balugina la speranza che un giorno qualcuno verrà a salvarci8.

2. Dei libri di memoria che precedono Dopo il fiore, il più riuscito è il primo, Se mai torni. È il libro più equilibrato che – dopo l’ou-

verture di un io che si affaccia sul passato, con l’intenzione di rom-

pere l’«incantesimo di cose impietrite»9 – adotta la terza persona di

una narrazione che procede per quadri, per episodi, per momenti, senza perdere il filo della storia che si snoda – nonostante gli andi- rivieni – in un tempo d’ordine progressivo: le origini del nonno Luï- sin (che diventerà il «papalòn»), i cinque figli di Luïsin e Maria, il trasferimento dalla «parva domus» vercellese di via dei Macelli al- la dimora di via Santa Caterina di fronte al convento delle Claris- se: l’«Isola verde» e il cortile dell’«Omino di ferro», la cosiddetta

7 Id., Dopo il fiore, cit., p. 70. 8 Ibid.

«corte dei professori» (professore di matematica Luïsin, professore di latino il genero Luigino, padre della scrittrice).

Una storia che si conclude col rombo della guerra destinata a scomporre l’armonia della famiglia allargata, le tre (addirittura quat- tro) generazioni compartecipi, la città «dalle molte torri» che respi- ra al di là del «portone arcuato»: le stagioni, i portici, le giostre, gli zingari, i viali alberati, le vie proibite, il ghetto, le piazze, le piaz- zette, le chiese. Altrettanti frammenti di un discorso amoroso che la memoria intrattiene con il tempo felice, con «la dolce stagione».

Tenere insieme azione e commento è il modo che Virginia Ga- lante Garrone adotta per dare profondità alla distanza senza venir meno al pathos della prossimità. La stessa alternanza dei tempi ver- bali – i tempi del passato che s’avvicendano con il presente storico – sottolinea una doppia esigenza: di variatio narrativa, ma soprat- tutto di atteggiamento psicologico, corrispondendo all’esigenza di calare le immagini in un’era favolosa e remota ma insieme di assu- merne la carica di attualità, la doppia natura del loro essere qui e al- trove. Ciò che spinge a fissare, ad esempio, un volto, un gesto, una posa e ad evocarne contemporaneamente l’inafferrabilità, il miste- ro. Felice (e patetica) giuntura che fa pensare, sì, alla Marguerite Yourcenar di Souvenirs pieux, di Archives du Nord, del rimbaudia- no Quoi? L’eternité o al Barthes de La chambre claire (nomi giu- stamente convocati da Giusi Baldissone), ma anche alla coetanea Lalla Romano che, a parte ogni altra considerazione possibile, pro- prio a metà degli anni Settanta con Lettura di un’immagine (Einau- di, 1975) inaugurava – tra fotografia e destino – un percorso prose- guito fino al mediano Romanzo di figure (1986) e poi al terminale

Ritorno a Ponte Stura (2000).

Mentre Se mai torni è il tempo dei nonni e dei padri, L’ora del

tempo è il tempo dei padri e dei figli. Non a caso ad irrompere è

l’io che nel primo libro – ouverture a parte – era stato debitamen- te celato:

A sette anni avevo finalmente una finestra tutta per me in via Cibrario a pianterreno10.

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L’io della bimbetta che guarderà a tutto dal suo punto di vista per tessere che si moltiplicano e disegnano in un caleidoscopio di occasioni. A tenere insieme la ricchezza delle annotazioni più di- verse (scuola, vacanze, villeggiature rustiche, incontri, stagioni) è la crescita di quest’io che narra, attento a dissodare il suo mondo, il suo universo familiare, la sua realtà: i nonni, i genitori, gli zii, i fratelli, gli altri; non senza – nel racconto di una finzione sceni- ca infantile – la consapevolezza di un ruolo registrato con adulta arguzia (sia detto en passant, ma risolutamente, che esiste nei te- sti una Virginia ludica, ironica, capace di humour):

Di solito alla Maria – come sorella maggiore – toccava la par- te della “madre”: a me – si direbbe che da allora il mio destino era segnato – quella della “sorella”; a una cugina un po’ tarda e melensa, sopportata da tutti con più o meno di pazienza, quella della “moglie”: e l’amante era invece la cugina del Sorano, Ada, bellissima tredicenne in boccio11.

A fare la differenza – con l’annuncio della guerra che già ap- pariva sul finire di Se mai torni – è la drammatica irruzione del primo conflitto mondiale, che porta in famiglia il momento tragi- co della perdita e dello strazio: i due fratelli della madre, i due zii di Virginia, Pinotto (Giuseppe) e Eugenio (nel lessico famiglia- re, Toto e Neno) eroicamente caduti. Gli stessi zii su cui Virgi- nia e il fratello Alessandro, dopo gli ampi stralci che già ne ave- va dato Adolfo Omodeo in Momenti della vita di guerra (Einau- di, 1968), cureranno le lettere e i diari12. Diviso in quattro parti, L’ora del tempo si ordina per momenti dolci e amari, lieti e tristi,

che si avvicendano in una carrellata di ricordi e che disegnano il passaggio dell’infanzia. Ma oltre non si va e anche Per una selva

oscura è piuttosto il resoconto di un tempo già maturo – il tem-

po della Seconda guerra mondiale – che obbliga l’ancor giovane

11 Ivi, p. 163.

12 E. e G. Garrone, Lettere e Diari di guerra 1914-1918, a cura di A. e V. Galante Garrone, Garzanti, Milano 1974.

professoressa e la madre anziana, di cui s’è fatta custode, a «sfol- lare» da Torino alla ricerca di alcuni rifugi di fortuna tra Vercelli e il Canavese: prima a Parella, nella casa della zia Teresa Giaco- sa, poi in due vani di un villino solitario, trovato grazie ai buoni uffici di Niccolò Carandini (nel testo, sempre e soltanto, per an- tonomasia, il «Marchese»).

Nessun progetto di unità autobiografica, insomma. Nessuna intenzione che la scrittrice mostri di voler raccontare sistemati- camente se stessa, ma invece sempre l’idea di raccontare il suo mondo di famiglia e in quello – per frammenti incidentali – di in- cludervi la propria educazione mentale e affettiva. Memoria e non autobiografia (o, se proprio si vuole, quel poco o tanto di autobio- grafismo attinente alla sfera di un io che ricorda). Proprio come accade – in modi stilisticamente diversi – nel già citato universo letterario di Lalla Romano. A contare non è mai l’organica rico- struzione di una personalità nella storia, ma, con un po’ meno di perentorietà e dunque di incandescenza, l’«eternità in un istante, ritrovato – raccolto – nel tempo»13.

Dopodiché basti ripetere che dal secondo titolo si generano le figure del “romanzo” Nel transito del vento, scritto da un io che invece dei suoi ricordi fa agire gli epistolari di casa. Un roman- zo costruito sulla base dei carteggi soprattutto scambiati tra non- na Maria e nonno Luisin (non più Luïsin, come in Se mai torni), e tra Maria e Luisin e i due figli che «avevano compiuto volonta-

ri la loro “ascensione eroica”: e, morendo, erano stati circonfusi

di luce»14.Una storia commovente e drammatica che consente a

noi di annotare – in deroga ad una troppo stretta congruenza – la comparsa della futura testimone nel ruolo di neonata:

1906: per la prima volta, Luisin e Maria: nonni. Bianca ora si è fatta la bella barba del papalòn-nonno, dove si divertono a im- pigliarsi i ditini della prima nipotina, Virginia; biondo-cenere la

13 L. Romano, Un sogno del Nord, Einaudi, Torino 1989, p. 48.

14 V. Galante Garrone, Nel transito del vento, Edizioni Paoline, Milano 1988, p. 94.

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chioma della bella nonna ancor florida, che eretta cammina per le vie cittadine con cadenzato passo di gloria, tra le due figliole più giovani, occhieggiate dalla gioventù del loco, e d’oltre la ve- letta a ragnatela le luccicano gli occhi quando la gente la ferma per la strada e la complimenta per quel batuffolino che ha am- mirato poco fa ai giardini pubblici nella carrozzina dalla scocca verde e lei si sente un’altra volta mamma, come se il tempo ver- tiginoso fosse tornato all’indietro15.

3. Ed eccoci finalmente a Dopo il fiore. Titolo che rappresenta il motivo della speranza, l’annuncio della salvezza. Il frutto che viene «dopo il fiore» è costretto ad appassirne la promessa, per- ché solo attraverso la morte del fiore – e dunque attraverso la sua sublimazione – se ne può realizzare il destino. Il verso dantesco («E vero frutto verrà dopo il fiore») è già in Se mai torni, dove Luigino, il papà dell’autrice, lo recita alla giovane moglie Mar- gheritina per sottolineare la promessa dei nati che verranno a in- carnare il giuramento d’amore. Ma qui torna per indicare la pro- messa compiuta, i conti che la memoria può fare di una vocazio- ne corrisposta.

Per Dopo il fiore potremmo parlare più correttamente di “auto- biografia”. Non già – beninteso – l’autorappresentazione di un’in- tera vita, ma certo di una parte significativa di vita, degna di essere tramandata. Nel caso specifico di una vita passata nella scuola. Ma poi anche qui – a ben vedere – il modulo continua ad essere quel- lo memoriale. Vale a dire: non tanto la ricostruzione di un’espe- rienza intera, ma piuttosto – ancora e sempre – ciò che di questa esperienza resiste in forma di «frammentario ricordare»16.

15 Ivi, pp. 40-41.

16 Id., Dopo il fiore, cit., p. 23. Il punto di crisi di un’opera che avrebbe po- tuto costituirsi in autobiografia è qui segnalato in un passaggio che non va sottaciuto: «Dieci giugno 1940: comincia la nostra guerra, sul fronte occidentale. Ma tutte le pagine che la precedono e quelle che la segui- ranno sono d’un tratto (anche per volontà mia) ingoiate nel baratro del nostro doloroso destino. Mi pare di non poter più andare avanti. Il mio

Vero che la progressione cronologica viene sostanzialmente mantenuta e che i passaggi del curriculum vengono ordinatamen- te disposti, ma la natura scheggiata dei ricordi finisce per essere incisa – con verbo prezioso, preso a prestito da Pascoli e Gozza- no – in un vero e proprio principio di poetica:

Perché la vita è come uno specchio in frantumi; e la luce si immilla in ogni frammento17.

È però sintomatico che Virginia Galante Garrone nulla o quasi ci dica dell’adolescenza e dei suoi turbamenti, nulla o quasi del- la giovinezza in fiore e dei suoi sogni d’amore, salvo l’esplicito – e pur pudico – richiamo alla morte prematura di Edoardo Mot- tini (più ampia traccia della presenza di Mottini ha documenta- to Camilla Bergamaschi desumendola dai diari). Siamo alla data del 2 ottobre 1935, alla mobilitazione per la guerra d’Abissinia, alla adunata cui sono convocate anche le scuole:

Mi riassale un ricordo di quel giorno. Con una giovane colle- ga mi affretto verso piazza San Carlo; lei si aggrappa al mio brac- cio, e sta lacrimando perché il suo “lui” è di partenza per l’Afri- ca: «…e Dio solo sa quando tornerà e se tornerà!». Non so dirle parole di conforto e di speranza, perché ne avrei bisogno anche per me, se pure per altra ragione. Lei deve supporre che anch’io soffra; che anch’io abbia qualcuno a cui dire «addio».

D’improvviso il mio cuore – quasi preso alle strette – traboc- ca; e mi viene spontaneo confessare che, due mesi prima, l’addio me lo aveva dato lui: quel “lui” che per me era stato solo un so- gno fanciullesco, alimentato dalla fantasia, fiorito sotto la penna,

modesto desiderio, il mio semplice compito, non era forse quello di trat- teggiare momenti di quella che era stata, per me, la Scuola? Mi domando perché, dopo quel 10 giugno del ’40, non sono più andata avanti nel rie- vocare la mia vita di scuola; quale tremore, quale timore mi ha fermato la mano nel tracciare la storia di quel tempo? Non trovo risposta a questa mia domanda» (ivi, p. 98).

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quando le mie scolare facevano i temi in classe e cercavano di indovinare il mio segreto o quando per loro recitavo con passio- ne i versi carducciani di «Jaufré Rudel»: «…Amore di terra lon- tana / per voi tutto il cuore mi duol…»18.

Non meno sintomatico che dopo aver parlato delle esperienze elementari, ginnasiali, liceali, scavalchi quasi a piè pari l’esperienza universitaria degli anni di cui Giacomo Noventa potè scrivere:

La gloria dell’intelligenza inebriava Torino19.

Anni in cui l’Università torinese era frequentata da giovani co- me Cesare Pavese, Mario Soldati, Arnaldo Momigliano, Franco Antonicelli, Carlo Dionisotti, Lalla Romano.

La Romano le era coetanea. Aveva superato a Cuneo la ma- turità classica che nello stesso anno, il 1924 (primo della rifor- ma Gentile), Virginia Galante Garrone aveva superato a Vercelli. Tanti possibili fili a collegare le due vite: l’origine “provinciale”, gli insegnanti di riferimento (in primis, Lionello Venturi e Ferdi- nando Neri), le aule frequentate, la biblioteca universitaria, i por- tici di via Po (e dopo la laurea, sia pure in tempi incompatibili, anche l’Istituto Magistrale «Regina Margherita»). Ma a separarle di fatto la lontananza dei temperamenti, la diversa malinconia, la differente convinzione. Virginia più perplessa e indecisa («l’In- decisa per antonomasia»20 dice di sé), Lalla più imperativa e con-

sapevole. Questa più audace e orgogliosa, quella più sognante e “incompiuta”; questa più petrosa, quella più pietosa. Un quadro psicologico che è già anche una scelta intellettuale, un’educazio- ne sentimentale, un percorso di vita che per noi ha il puro valore di un esempio da giocare a contrasto.

18 Ivi, pp. 35-36.

19 G. Noventa, I calzoni di Beethoven, Il Saggiatore, Milano 1965, pp. 11- 12: cit. da Franco Manfriani, Introduzione a G. Noventa, Versi e prose, a cura di F. Manfriani, Marsilio, Venezia 1986, p. XVII.

Di fatto, gli anni universitari indurranno Lalla Romano a scri- vere il libro della sua «malinconia», mentre della sua esperienza universitaria Virginia Galante Garrone – al di là del merito di una laurea conseguita con lode e pubblicata a spese dell’Università – non lascerà che qualche traccia persino un po’ imbarazzata, quasi un silenzio che vela un disagio, di cui si può tuttavia ben coglie- re un filo di segreta affinità con il disagio che trapela da certe pa- gine di Una giovinezza inventata:

Quelle universitarie non erano “aule” per me: e neppure tem- pli del sapere: vestiboli grigi, anticamere di un futuro indecifra- bile, soffoco di fiati e spesso di sbadigli, troppi volti intenti o di- stratti, e solo, a sprazzi, squarci azzurri di poesia e di arte. Forse perché all’Università ero approdata orfana di papà, lontana dalla vecchia casa di provincia, quasi smarrita nell’intrico di sentieri, in un isolamento che poteva essere scambiato per superbia ed era invece desiderio di tendere le mani che nessuno mi stringeva21.

A fare la differenza è la vocazione all’insegnamento; il tema della «scuola» come «vita», che legittima un libro come Dopo il

fiore: quello che la scrittrice chiama – appunto – «il mio sempli-

ce assunto di “memorialista”»22. E dunque le sue scuole. Le scuo-

le frequentate come alunna, le scuole frequentate come docente, qualche cenno di metodo, qualche idiosincrasia o mania confes- sa, qualche momento ritrovato alla maniera dell’allegoria cesel- lata in Per una selva oscura dal «Marchese» (quando scrive Do-

po il fiore Virginia è prossima ai novant’anni):

Ma in fondo al pozzo della memoria c’è sempre un secchiel- lo di rame da tirare su. La corda regge ancora, il secchiello sba- tacchia contro le pareti, sale a galla, trabocca d’acqua chiara, ri- flette un occhio di cielo23.

21 Ivi, pp. 23-24. 22 Ivi, p. 67.

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