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Sebastiano Vassalli, un «nulla pieno di storie»

Nel documento Novecento in prosa. Da Pirandello a Busi (pagine 71-99)

1. Un trapassato remoto di militante d’avanguardia, un passato re- moto d’autore di processi esemplari, un passato prossimo di scrit- tore alla ricerca dell’«Italiano», un presente storico che da sempre l’accompagna. Sebastiano Vassalli è uno dei narratori più straor- dinari dei nostri giorni. Un’affermazione che a tanta diffusa timi- dezza accademica e a tanta sofisticata e a volte sofistica militan- za critica potrebbe apparire troppo perentoria, se non fossero mol- te le ragioni per farla. Nessuno, infatti, potrà negare a Sebastiano Vassalli la coerenza di una visione del mondo che non fa sconti. Nessuno gli potrà negare la davvero «latina» intelligenza di spre- mere l’aspro agrume di un’umanità stolida e dissennata1.

Intanto Vassalli ha scritto alcuni dei libri più importanti degli ultimi cinquant’anni, ha attraversato momenti culturali e lettera- ri di forte rilievo, ha interpretato tempi e costumi, ha guardato al- la nostra storia nazionale senza pregiudizi, ha congiunto con lun- ghissimo ponte il più remoto passato al futuro più futuribile, ha rifiutato etichette e capestri, ed è approdato a una consapevolezza

1 Per la bibliografia critica che ho tenuto presentein questo saggio, si veda almeno: «La chimera». Storia e fortuna del romanzo di Sebastiano Vas-

salli, a cura di R. Cicala e G. Tesio, Interlinea, Novara 2003 (con un’im-

portante intervista di R. Cicala su La chimera); A. Kerbaker, Sebastiano

Vassalli, in «Belfagor», LIX (2004), fasc. II, pp. 179-94; C. Nesi, Seba- stiano Vassalli, Cadmo, Fiesole 2005 (con ampia ancorché parziale bi-

bliografia critica, alle pp. 129-46); S. Zanoni, Afasia e sperimentalismo

del primo Vassalli, in «Studi Piemontesi», vol.XXXV (2006), fasc. 2, pp. 349-58; G. Zaccaria, Moralità e sperimentalismo di Sebastiano Vas-

salli: «L’oro del mondo», in Id., Per una letteratura di confine, Interli-

narrativa di solida e forse ineluttabile concezione, che il titolo –

Un nulla pieno di storie – traduce e condensa con efficacia2.

Il nulla e le storie che lo abitano, ma anche il rapporto che passa tra le storie e la storia, tra le storie e le parole dette o – cosa diver- sa – scritte. In questo titolo ci sono tutti i fondamentali del mon- do di Vassalli: aleph (l’intero mondo) e omphalos (il suo centro). E c’è già anche – e subito – il senso della letteratura, il parados- so che ne legittima l’esistenza:

Il bene della letteratura è il male del mondo. La letteratura si nutre di cose orrende: le persecuzioni razziali, i campi di stermi- nio, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, i massacri delle guer- re e le minute prevaricazioni della vita quotidiana sono i suoi bi- gné, il suo terreno ideale di coltura, il suo brodo primordiale. È lì che nascono le Divine commedie e i Faust, i Canzonieri pe- trarcheschi e i Canti leopardiani... Come le rose non crescono ri- gogliose se non sono ben coltivate e concimate, così occorre tut- to il letame del mondo per dare smalto e fragranza ai Fioretti di San Francesco, ai Fiori del male di Baudelaire, ai Canti Orfici di Campana. Occorrono tutta la violenza e la malvagità del mondo per produrre Dostojevski e Kafka, Céline e Stendhal, Ariosto e Gongora. Perciò, magari inconsapevolmente, ogni vero scrittore desidera con tutte le sue forze di essere l’ultimo3.

2 Cfr. S. Vassalli, G. Tesio, Un nulla pieno di storie. Ricordi e considera-

zioni di un viaggiatore nel tempo, Interlinea, Novara 2010. Viene qui ri-

preso, con piccole varianti, il mio saggio che conclude il libro-conversa- zione.

3 S. Vassalli (con A. Lolini), Belle lettere, Einaudi, Torino 1991, p. 51. Trovo importante, per questo, citare l’intervento di George Steiner su Lévi-Strauss (L’ultimo giardino), raccolto nel volumetto La nostalgia

dell’assoluto, a cura di David Bidussa (trad. di Lucia Cornalba), Bruno

Mondadori, Milano 2000. Prima Steiner considera: «L’uomo, nella vi- sione di Lévi-Strauss, è un primate mitopoietico […], un primate capa- ce di fabbricare, di creare miti e che attraverso di essi riesce a sopporta- re l’insolubile contraddittorietà del suo destino. Egli solo può costruire, modulare e dare aderenza emotiva al mito-logico, al mitico e al logico, al logico che sta dentro il mito». Poi osserva ciò che mi sta a cuore sotto-

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Siamo ben distanti da ogni tentazione di salvezza. Ma siamo anche abbastanza prossimi a un’idea se non proprio di riscatto, almeno di un ricupero, di un vantaggio. La letteratura che diven- ta una forma estrema di simbiosi, vivendo abbarbicata al male di cui vive, e che alimenta la vitalità del suo simbionte. Per un verso il gran nulla (quello che precede e che segue emblematicamente la vicenda del romanzo La chimera), per altro verso il laicissimo credo che consacra la dipendenza di un rapporto irrecusabile: una forma, in fondo (pro bono malum), di eterogenesi dei fini.

Tanto più valevole – in una sorta di potenziata “letterarietà” – per la poesia, per l’imprevedibile e misteriosa rarità della sua ap- parizione, come testimoniano, prima La notte della cometa (1984), la biografia di Dino Campana, e poi Amore lontano, le sette bio- grafie di altrettanti poeti, capaci di strappare a Vassalli (che non esita a parlare di «miracolo») la più ardita Conclusione:

L’unico miracolo che si compie dai tempi di Omero e da pri- ma ancora, e che non può essere dimenticato o messo in dubbio perché chiunque può farlo rivivere con la lettura, è quello delle parole che trattengono la vita. È la poesia.

La poesia è vita che rimane impigliata in una trama di paro- le. Vita che vive al di fuori di un corpo, e quindi anche al di fuo- ri del tempo. Vita che si paga con la vita: le storie che ho raccon- tato in questo libro stanno a dimostrarlo.

La poesia è ciò che sopravvive, nel presente, della parola di cui parlano i testi antichi, che «viene prima di tutto e che dà vita a tutto». È l’unico miracolo possibile e reale, in un mondo domi- nato dal frastuono e dall’insensatezza. È la voce di Dio.

Io dico: «Quando vedo l’allodola battere / di gioia le ali con- tro il sole» (Bernart de Ventadorn). E in qualunque epoca io viva e in qualunque stagione, intorno a me si accende la primavera: con gli uccelli che ritornano dai paesi lontani e con la sua luce

lineare dietro la sua orma: «Una parabola chassidica narra che Dio creò l’uomo in modo che egli potesse narrare delle storie. Questo raccontare storie è, secondo Lévi-Strauss, la vera condizione del nostro essere» (le due citazioni a p. 34).

inconfondibile, che è la luce della Provenza nella poesia dei trovatori.

Io dico: «Il tacito, infinito andar del tempo» (Leopardi). E, dovunque io mi trovi, vedo l’universo con le sue galassie, e per- cepisco il silenzio degli spazi infiniti come una sensazione fisi- ca. Mi sembra che tutto scivoli via, e di scivolare via insieme al tutto...4.

Ma tutto questo parte da più lontano. Nella sua biografia di Campana, e nei suoi interventi successivi, Vassalli ha sempre la- vorato a restituire il poeta di Marradi alla sua «verità», sottraendo- lo alle tante leggende inventate (viaggi impossibili, prigioni mil- lantate, mestieri usurpati, malattie di copertura che provengono da un quadro di evidente perbenismo, come nel caso della sifilide negata). Il Campana di Vassalli è un poeta irriducibile. Irriducibi- le all’incomprensione della famiglia, allo scherno dei compaesa- ni, all’indifferenza dei letterati di successo, alla sfortuna che spes- so lo perseguita, all’insipienza della «vita non romanzata» dello psichiatra Carlo Pariani.

Visionario o visivo? Pazzo o perseguitato? Poeta sperimenta- le o poeta puro? Poeta-vate o poeta maudit? Poeta grande o poe- ta mediocre? Per Vassalli di certo un poeta raro come un appari- re di cometa (di Halley), uno dei più grandi – ancorché discussi – del nostro Novecento. Nei Canti Orfici le stigmate dei tanti con- flitti: da un lato le nascenti avanguardie; dall’altro la società let- teraria, le cricche, le combriccole, le conventicole, le congreghe, i gruppi solidali, i rituali di una gregarietà che la societas lettera- ria coltiva con la pretesa di dettare i canoni inderogabili, o le clas- sifiche del valore. Le stesse considerazioni che risultano raccol- te nel libretto epistolare, Belle lettere, messo insieme da Vassalli con l’amico e sodale Attilio Lolini:

Dunque io penso che la poesia non è mai “contemporanea” di qualcuno o di qualcosa (A) per il semplice motivo che la poesia

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non esiste (B). La poesia è fatta della sostanza stessa di cui sono fatti i miracoli: ci sono perché non possono non esserci5.

Tutto ciò non è che la premessa di certe affermazioni sul rap- porto con la «parola» che la nostra conversazione registra e che nella rarità della poesia trova la sua più alta conferma, giustappun- to ribadita in Amore lontano, uno dei libri che Vassalli deve aver sentito urgere come una necessità. Certo Omero, Qohèlet, Virgi- lio, Jaufré Rudel (nell’esatto centro di sette, sottolineato anche dal titolo). Certo Villon, Leopardi e Rimbaud. Ma attraverso le loro vite «inventate», gli argomenti cruciali di una consuetudine anti- ca: il rapporto tra parola e silenzio, tra storia e destino, l’idea del- la cecità come una forma di silenzio, l’idea che le parole aumen- tino il vuoto, l’interrogazione se mai le parole possano modifica- re la realtà, la convinzione (non meno di Virgilio che di Vassal- li) che «gli uomini non cambiano, [...] che i buoni sentimenti e le buone intenzioni, in poesia, producono soltanto personaggi me- diocri»6, eventualmente «scrittori di poesia», ma non «poeti». O,

ancora, il linguaggio delle cose reali e nello stesso tempo il senti- mento della cenere e della polvere che è la parola stessa a tratte- nere dentro di noi: almeno quanto trattiene quella «scintilla di di- vino» di cui Vassalli parla nella nostra conversazione.

2. La conversazione tocca altri temi di fondo, e non rincorre aned- doti e pettegolezzi. Affronta argomenti radicali, ma non s’inol- tra nelle tante possibili disseminazioni di cui è fatta una vita (e un’opera). Svolge alcuni fili essenziali di riflessione, ma non sosta su troppi particolari biografici o su specifici passaggi intellettua- li che si possono in altro modo reperire, anche attraverso le inter- viste che l’autore ha nel tempo rilasciato; anche attraverso gli ar- ticoli che nel corso degli anni ha scritto sui giornali («Il Corriere

5 Id., Belle lettere, cit., p. 35. 6 Id., Amore lontano, cit., p. 61.

della Sera», «La Repubblica», «La Stampa») a cui ha collabora- to (e qualcosa ne ha pure raccolto nel libro che s’intitola Gli ita-

liani sono gli altri).

A contare nella nostra conversazione sono alcuni nodi cruciali, potremmo quasi dire le costanti di un pensiero che si offre a qual- che confessione di franchezza scabrosa (la madre assente, il pa- dre mai nominato se non con l’epiteto di «Merda», la prima mo- glie sempre indicata con la sola iniziale del nome), qualche altra persino commovente, ma sempre capace di andare – con il giusto sprezzo delle idées reçues, degli idola tribus, della chiacchiera – all’osso delle questioni. Sempre la chiarezza esemplare di chi non si fa illusioni e non si perde in facili consolazioni.

Non mi pare che ci siano in essa omissioni strategiche, ma se mai reticenze dovute a motivi di opportunità e di pudore, e anche a qualche idiosincrasia, che non ho mai cercato di forzare. Così come ho rinunciato a scavare nei recessi e negli abissi, perché mi ostino a pensare che essi continuino soprattutto a emergere dal- la vitale obliquità della letteratura. Se mai ho dovuto un po’ lotta- re – e non sempre vittoriosamente – con l’invariabile desiderio di non derogare da una linea di sobrietà e di misura, a cui avrei vo- lentieri ceduto per amore di sempre possibili sorprese.

D’altra parte, quante volte Vassalli si è posto nei suoi romanzi le domande che ho cercato di riproporgli per una considerazione meno mediata? Dietro ogni domanda (e per ogni risposta) si pos- sono ben individuare titoli di suoi libri a sostegno. Proprio perché il suo mondo – pur nella varietà delle occasioni – è molto compat- to, unitario, corrispondente alla costante necessità di toccare il fon- do delle cose, la loro natura ultima. E vorrei fare in proposito una riflessione che parte, pour cause, dalla vicenda più cronologica- mente antica a cui Vassalli sia risalito, narrandola nel romanzo Un

infinito numero. La vicenda del liberto Timodemo, che racconta

la sua fortunosa vita, prima nella greca Nauplia e poi a Napoli al fianco del poeta Virgilio, da cui viene acquistato e in seguito li- berato. Una storia che non si limita a raccontare i giorni uguali di una consuetudine molto affiatata, ma che si alimenta di fatti diver- si e soprattutto di uno, centrale: un viaggio allestito da Mecenate, il grande protettore delle lettere e delle arti, verso la terra d’Etru- ria e verso l’origine dei Rasna, antenati di Roma.

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È qui che Virgilio, Mecenate e Timodemo, grazie alla magia di una divinazione, scoprono la vera e truce storia dell’arrivo dei Li- di dalla Troade e del nuovo popolo voluto da Velthune, «dio del- la vita e delle trasformazioni», che scaturisce dalle congiunzio- ni coatte dei guerrieri lidi e delle donne indigene, a cui sono sta- ti trucidati in un’orrenda carneficina i mariti e i figli. Un viaggio di ricognizione e di conoscenza compiuto alle radici del mito che dovrebbe alimentare l’Eneide, il poema atteso da Ottaviano Au- gusto come la consacrazione di una nuova età dell’oro.

Ma la discesa nei misteri meticci di una storia così lontana non è poi se non la rivelazione di una violenza e di un «orrore» che contaminano ogni attesa di verità. Ed è proprio questo il punto. At- traverso i suoi personaggi, narrati con mano sicura, Vassalli rife- risce per bocca altrui i suoi assilli di sempre. Qual è la natura del tempo? Quale del tempo in cui viviamo? Quale la perdita che ci tocca? Quale il rapporto tra menzogna e scrittura? Quale tra scrit- tura e verità? Quale il valore per la poesia? Quale il senso del du- rare? Quale, insomma, il corso della storia, teatro degli uomini, e la metamorfosi degli evi? Quale futuro dopo il futuro? Quale (leo- pardianamente) il senso del nostro destino di polvere?

Tutte domande a cui l’opera di Vassalli – la sua letteratura «di profondità» – impegna in risposte di natura complessa. Che è poi anche la ragione di quel suo andare su e giù per secoli ed evi, per passati e per futuri. Il progresso diventa chimera, il mondo stra- nezza, il destino insensatezza, l’universo sperpero, il tutto sogno e vanitas vanitatum, la vita uno spettacolo tragicomico, la natura indifferenza, il tempo ripetizione infinita, la storia follia e persi- no la parola un niente, «anche se riesce a darci un’illusione di im- mortalità che contrasta con tutto ciò che vediamo e conosciamo, e con la nostra stessa ragione»7.Ecco perché, di sogno in sogno, di

insensatezza in insensatezza, di follia in follia, si può approdare, come nell’universo da fantascienza del romanzo 3012, a un futu- ribile che continua a riproporre a modo suo la replica della nostra

ferita di sempre. Ecco perché nella circolarità di un tempo, che finge il mutamento, le tracce sommerse di Yoshua Ha-Nozri (Ge- sù Lo Straniero) – come nel romanzo La notte del lupo – possono tornare ad affiorare nel rovescio perturbante di Giuda di Quériot, che con metamorfosi continua vaga come l’Ebreo Errante «da un’epoca all’altra, da una stella all’altra, […] perché così voleva la sua sorte fino dall’origine del tempo»8.

3. Se la storia non vince il tempo, ne registra però le azioni e ne verbalizza i movimenti di scena. Stabilito che il tempo non è che l’illusione suprema di un’impossibile eternità, la storia non ha al- tro compito che quello di annotare le chimere, di chiosare l’assur- do, di rammentare le apparenze sfilacciate di una condizione che non conosce riscatto (c’è in Vassalli un pessimismo della ragione che trova il suo compenso nella narrabilità delle storie, unica ri- sorsa di una possibile e umana sopravvivenza).

Non è nemmeno un caso che Vassalli abbia un così forte «sen- so del teatro» (quante epigrafi e quanti prologhi nella sua opera rinviano al teatro!). Io credo perché teatro e caducità si connet- tono saldamente in un’unica costellazione dell’immaginario. Co- me ha osservato Mariolina Bertini per altra vicenda, anche i per- sonaggi di una pièce «vivono una vita provvisoria, una vita di cui esiste soltanto il frammento che viene esibito sul palcoscenico», ma «il carattere effimero dei nostri sentimenti e dei nostri deside- ri ci mette nella stessa situazione»9.

Lo dimostra – tra gli altri, ma forse più didatticamente di al- tri – il romanzo Stella avvelenata, la storia del chierico Leonardo Sacco, che nel pieno autunno del Medioevo piemontese (1441) parte da Casale Monferrato per andare a studiare teologia a Pari- gi, finendo per aggregarsi – in seguito a una serie di disavventure

8 Id., La notte del lupo, Baldini&Castoldi, Milano 1998, p. 121.

9 M. Bongiovanni Bertini, Proust e la teoria del romanzo, Bollati Borin- ghieri, Torino 1996, p. 21.

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– a un gruppo di «eretici» in cerca del mondo perfetto in cui vive- re felici: la mitica Atlantide, il luogo dell’utopia, di quella felicità che «gli uomini di ogni epoca hanno sempre inseguito nel corso delle loro vite, senza mai riuscire a raggiungerla»10.

La storia della traversata euforica su una nave che si chiama

Stella Maris e la storia dello sparuto ritorno (il titolo è già un bel-

l’indizio di ciò che accadrà) dipendono dalla solita finzione del libro ritrovato: nella fattispecie un libro pubblicato nel 1768, che contiene la narrazione di un viaggio a sua volta raccontato in un diario (Viaggio anacronismico nell’isola di Atlantide, compiuto

dal chierico Leonardo Sacco nuovamente raccontato dal di lui di- scendente sac. Isacco Sacco). Ma a contare – ai nostri fini – sono

le vere e proprie dichiarazioni che vengono attribuite dal sacerdo- te Isacco al suo antenato Leonardo e che sono perfettamente con- sone al sentire dell’autore. Una sola fra tutte, ma risolutiva:

Così finirono, nella polvere e nel vomito, le illusioni che si era fatto il reverendo d’Ulbach [il teorico e teologo della spedi- zione], di poter convertire gli abitanti dell’Atlantide alla religione del Libero Spirito, dopo averli fatti diventare civili; e io non ebbi più dubbi sulla malvagità della natura umana, che in nessun luo- go può essere diversa perché è uguale per tutti ed è uguale ovun- que, secondo quanto c’insegnano le Sacre Scritture11.

È lo stesso senso che convocano i destini di ben altri tempi e personaggi: il destino di Antonia (ne La chimera), quello di Mat- tio (in Marco e Mattio), quello di Raffaele Palizzolo (in Il cigno), quello di un’intera casa del tempo (in Cuore di pietra), quello di un intero paese nel corso di un secolo (in Le due chiese), quel- lo di tanti altri personaggi che continuano ad andare incontro al «màssacro», ad abitare il «vento» (titolo proveniente dal biblico

Libro dei proverbi: «Chi distrugge la sua casa abiterà il vento»);

a vivere – insomma – pur nella diversità delle circostanze, degli

10 S. Vassalli, Stella avvelenata, Einaudi, Torino 2003, p. 67. 11 Ivi, p. 178.

ambienti (e della scrittura), nell’antica dismisura dello sguardo, nell’ansia di cogliere la tragicommedia del mondo.

Del resto la disposizione teatrale (del tutto evidente nell’incipit di Cuore di pietra, parzialmente ispirato a un dettaglio del Gatto-

pardo di Tomasi di Lampedusa) si mostra nel sorriso beffardo de-

gli dei che assistono alle umane evoluzioni come a uno spettacolo farsesco. E rivela una consonanza curiosa e certo diversa con un romanziere aperto alla storia come Riccardo Bacchelli (ne L’oro

del mondo compare il ricordo dello sceneggiato televisivo che San-

dro Bolchi trasse dalla sua trilogia, Il mulino del Po).

Detrattane a ogni buon conto l’eccedenza di parola – l’impe-

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