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tra gli uomini e gli de

Nel documento Novecento in prosa. Da Pirandello a Busi (pagine 99-119)

1. Nella narrativa di Sebastiano Vassalli si distingue un filone spe- cialmente dedicato alla riflessione sulla storia e sul carattere del- l’Italia e degli italiani, che impegna lo scrittore fin dai tempi di

Sangue e suolo (1985). In questa direzione il romanzo più siste-

matico è senza dubbio Cuore di pietra (1996) che ripercorre con ritmo sempre più accelerato gli anni dall’Unità fino all’oggi.

La partenza del romanzo è relativamente lenta (pochi i fat- ti, pochi i personaggi); ma poi aumenta via via, per chiudere con moto sempre più frettoloso fino a sbrigare gli ultimi eventi – an- che dolorosi – come una merce in liquidazione. A ben vedere, pe- rò, la velocità impressa al racconto non è che la soluzione narrati- va di un carattere fondamentale della modernità, che già Vassal- li coglie in Marco e Mattio (1992), nel passaggio delle truppe na- poleoniche, e che qui porta alle conseguenze estreme: la veloci- tà, appunto, dei mutamenti che fanno ingorgo e che nessuna espe- rienza ha più tempo per assimilare.

Basterebbe questa considerazione a suggerire una lettura non ingenua di un romanzo come Cuore di pietra che, dietro l’appa- rente semplicità di sviluppo, rivela invece una stratificata com- plessità di piani (e dunque di lettura). Ad un primo livello agisce la storia dell’Italia diventata Stato di diritto ma non di fatto e, in- trecciata ad essa, opera l’idea controversa di una nazione che non ha identità. Un ruvido dibattito sulla cancrena del “volersi bene”, sulle parole preparate, sulle mode, sui conformismi, sui nodi di una convivenza, com’è stato detto, «in perenne debito di statua- lità»1, cioè priva della coscienza diffusa di essere uno Stato come

quello, ad esempio, a cui Vassalli pensa nell’altrove del suo viag- gio alto-atesino:

Cammino in mezzo a ragazzi che parlano una lingua italiana priva di inflessioni regionali; che si chiamano Facchin, Esposito, Piras o Parodi e penso che quassù tra queste montagne, in que- sta terra di frontiera è nato forse quell’italiano unitario di cui fa- voleggiava il conte di Cavour e che altrove, purtroppo, non esi- ste. Un italiano adulto, che non ripone la sua identità nazionale nei sogni dell’Impero o nella Nazionale di calcio2.

Ma in Cuore di pietra agiscono anche altri livelli, a loro volta intrecciati a quello di superficie. C’è il livello della meditazione “negativa” sulla storia come tale: sul suo statuto arbitrario, sulla sua mancanza di senso e di direzione, sulla sua impossibilità di comprensione e di conciliazione dialettica, sulla sua ingiustizia, sulla sua presunzione di totalità. E c’è il livello della vita come teatro: come uno spettacolo tragicomico di cui gli uomini sono protagonisti fragili e inconsapevoli, in balia del capriccio e dello sghignazzo degli dei (ma gli dei, a loro volta, non sono che la ver- sione più animata del “nulla” entro cui si incardinano sia La chi-

mera [1990] sia Marco e Mattio: semplici quinte di una comme-

dia di folli). Vero è che Cuore di pietra viene a completare come una trilogia – rispetto al Cinque-Seicento de La chimera e al Sei- Settecento di Marco e Mattio – l’intero tragitto della modernità italiana, che ha alle sue spalle il Leopardi più feroce.

Ma la presenza degli dei sghignazzanti sulle teste degli uomi- ni – a dimostrazione che i vari livelli non vanno letti uno di segui- to all’altro ma nella loro circolarità – si può forse anche spiega- re come un richiamo alla polemica di Nietzsche (il filosofo tede- sco che fu assai presente a Campana) nei confronti dello storici- smo moderno inteso come «teologia camuffata»: e cioè, liquidata ogni divina provvidenza, come un modo di procurarsene una ver- sionepiù povera e mondana ma sempre fortemente consolatoria.

103 Cuore di pietra di Sebastiano Vassalli tra gli uomini e gli dei

Gli dei di Vassalli stanno in definitiva ad escludere che nessuna consolazione possa mai venire dalla storia, e che non c’è neces- sità razionale nella vita degli uomini, non c’è nessuna giustifica- zione, religiosa o laica che sia, che ne possa consacrare o quanto meno legittimare le azioni e i sentimenti.

Ciò è già detto con amara ironia – e a testimonianza di una lunga riflessione – nel terzo capitolo di Sangue e suolo, intitola- to «L’antiveggenza di Esopo»:

In fondo [...] aveva già previsto tutto il vecchio Esopo, due- milacinquecento anni fa. È sempre la solita storia del lupo che essendo forte è anche giusto e della pecora che essendo debole è anche prepotente e iniqua. È sempre la solita commedia3.

2. Come già è accaduto per La chimera e per Marco e Mattio, an- che Cuore di pietra si incardina tra una premessa e un congedo, tra un prologo e un epilogo. Nel caso della Chimera, premessa e congedo vanno all’insegna di un titolo simmetrico e identico che è Il nulla. Nel caso di Cuore di pietra, il titolo è Gli Dei. Gli dei diventano gli spettatori di un teatro naturale dove gli uomini in- terpretano il ruolo di se stessi in un dramma esilarante e insensa- to (tragedia e farsa insieme), che il tempo – autore e artista tanto inarrivabile quanto indifferente – incessantemente scrive. Sono loro i puri spettatori, ilari o beffardi, di una scena che tocca agli uomini interpretare secondo una regia altrui.

E che gli dei siano proprio quelli di Omero (e proprio quelli dell’Iliade, della guerra di Troia) non deve stupire. Non soltanto perché ad essi è legato tutto il più antico immaginario della mito- logia e della poesia d’Occidente, ma anche perché ad essi appar- tiene tutto un universo di sentimenti e di passioni che affondano le loro radici nelle prime letture scolastiche. L’ortografia non deve stupire, perché il maiuscolo sta ad indicare – contro le regole abi-

tuali che nel nostro sistema concettuale e ortografico pretendereb- bero il minuscolo – un fatto non secondario: non tanto un’indica- zione di reverenza e di rispetto, che il testo non legittima affatto, ma piuttosto il riconoscimento di una distanza cosmica, siderale, che ne sancisce il carattere di esseri inarrivabili e alieni.

Può venire se mai in aiuto – confermando la consistenza di una memoria congeniale – una suggestione intertestuale che attinge alla lettura del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: sia quando a villa Salina le divinità dell’Olimpo affrescate sul soffit- to si risvegliano dopo il rosario quotidiano per riprendere «la si- gnoria della villa»4 (mentre sulle pareti dipinte le scimmiette ri-

cominciano a loro volta «a far sberleffi» ai pappagalli), sia quan- do dal soffitto di palazzo Ponteleone vengono sorprese a guarda- re in giù «sorridenti e inesorabili come il cielo d’estate»5.

Sono «gli Dei» a far sì che il clima produca sulla scena gli ef- fetti comici o grotteschi adatti agli spettacoli che vi si svolgono («[...] i geloni, la nebbia, le zanzare, i calori, i raffreddori...» [p. 78]6); sono loro che si divertono a buttare all’aria «la famiglia, la

carriera politica», la stessa «rispettabilità» del maturo avvocato Costanzo [p. 136], innamorato cotto di una giovane cantante; op- pure a combinare il matrimonio della cugina Maria Maddalena Pi- gnatelli con il deputato progressista Antonio Annovazzi [p. 137]; o a far arrivare da Agrigento la nipote Laura Muscarà [p. 138] con conseguenze imbarazzanti. E così via, di personaggio in personag- gio, di generazione in generazione, perché sempre

gli Dei che stanno sopra le nostre teste vogliono che lo spettacolo continui, in ogni caso e qualunque cosa ci accada! [p. 257].

4 G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli (Universale Econo- mica), Milano 1963, p. 10.

5 Ivi, p. 151.

6 S. Vassalli, Cuore di pietra, Einaudi, Torino 1996: tutte le citazioni con l’indicazione di pagina in parentesi quadre s’intendono riferite a questa prima edizione.

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Anche – e soprattutto – quando ciò che accade illumina esem- plarmente le tenebre negli squarci pirotecnici di un bombardamen- to distruttivo a cui corrisponde, in alto, il tifo più indemoniato:

La pianura, vista in quelle notti, era un golfo di ombre su cui planavano le luci dorate dei bengala ed era anche un palcosce- nico di teatro, immenso e apparentemente vuoto, per gli Dei che stavano appollaiati lassù da qualche parte nel buio, e ridevano e applaudivano i nostri nemici [p. 232].

Sono sempre loro, infine, ad accendere tutte le illusioni uma- ne per poterle spegnere in un continuo sberleffo, come accade – per citarne un solo ma fondamentale richiamo – nel sogno osti- nato degli uomini che pretendono di cambiare il mondo «facen- dolo diventare più giusto»:

Questo sogno, che rimbalza da un’epoca all’altra e produce benessere e disgrazie, progresso e infelicità, è una delle cose che più fanno ridere gli Dei sopra le nostre teste. È un’illusione sem- pre uguale e sempre diversa, una commedia che si replica dalla notte dei tempi e che tornerà a replicarsi chissà quante altre volte ancora, finché nella pianura ci saranno degli uomini... [p. 271].

3. Il riso degli dei che aleggia sulle vicende degli uomini intro- duce subito il motivo dell’ironia che domina il mondo, escluden- do fin da principio che si possa interpretare Cuore di pietra co- me una fuga nell’assoluto. Non ci sono né Provvidenza né Ra- gione a governare le azioni degli uomini: né fiducia religiosa nel disegno di un Dio che scriva i suoi percorsi di salvezza, né fidu- cia laica nei disegni di un intelletto che illumini e che dia orienta- mento alle scelte. La vita umana è «sogno» e «illusione», due pa- role che nel mondo di Vassalli compaiono spesso con valore sin- tomatico. Le azioni umane non progrediscono veramente mai, né tanto meno possono mutare radicalmente per una qualche rivolu- zione («progresso» e «rivoluzione» sono altre due parole specifi- che a carattere di costante ironica), intrise come sono di contrad- dizioni, di assurdo, di follia. Anche la parola «destino» non è mai

– diversamente da come accade in chi sia disposto a riconoscere alla vita dell’uomo la solennità di un frammento d’assoluto – se non un sinonimo di caso e di capriccio.

In altre parole in Cuore di pietra accade l’esatto contrario di quanto accade, ad esempio, in un altro romanzo storico contem- poraneo come Le strade di polvere di Rosetta Loy. Mentre nella Loy la sfida è quella di arrestare e di eternare l’istante prima che la sua «grande notte» ne disperda irrimediabilmente le tracce, os- sia di tentare di eludere il flusso inarrestabile del tempo, racchiu- dendo nell’istante (in istantanea) il destino unico ed esclusivo di vite che mantengono la loro individualità; a prevalere in Vassal- li è l’idea di un macinìo inesorabile di vite indifferenti e congua- gliate, di una corsa vorticosa verso la fine comune, di un precipi- toso viaggio nel nulla di tutti gli umani.

I mutamenti storici non comportano, come pure sembrerebbe a tutta prima, un vero e proprio sviluppo, ma incidono appena la superficie restando – nel profondo – costantemente uguali. La sto- ria non è né lineare né armonica, ma molto discontinua; registra strappi e ristagni, brusche accelerazioni e lente derive. Ma, guar- data dall’alto, essanon è che una modalità effimera e transitoria di una danza d’illusioni, come nella riflessione dell’avvocato Al- fonso Pignatelli (anch’essa ricalcata sulle riflessioni del principe Salina al ballo di palazzo Ponteleone):

Le generazioni si incalzano nel mondo [...] come si incalzano i piedi dei ballerini seguendo le note del valzer; e ogni generazio- ne riempie il suo presente con quei sogni, che le appartengono di diritto e che lei sola è destinata a sognare [pp. 102-3].

Un movimento illusorio che continuamente richiama gli uo- mini alla loro esistenza definitivamente mortale, secondo l’avvi- so dell’epilogo:

I personaggi di questa storia che è finita, e gli altri delle infi- nite storie che ancora devono incominciare, le loro futili impre- se, le loro tragicomiche morti non sono altro che alcune inven- zioni tra le tante di quell’eterno, meraviglioso, inarrivabile arti- sta che è il tempo [p. 286].

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Contro la formidabile forza del tempo-inghiottitoio, la vita non è se non scorrimento, come sostiene la saggezza dello zio Alvaro nel romanzo L’oro del mondo:

Puoi darle forma? Progettarla? Costringerla a rappresenta- re qualcosa? Tanti credono di sì, ma sbagliano. Lasciare un se- gno nel tempo, dar forma al tempo... Che illusione! Se ti affacci sul lago e ti ci specchi, la tua immagine resta là finché tu resti là. Quando vai via, l’immagine sparisce. Così fa il tempo, Sebastia- no! Finché vivi, esisti; poi, torni ad essere zero7.

4. Fermo restando che gli «Dei» beffardi abitano le nuvole, e che il tempo scrive il copione della tragicommedia che gli uomini-at- tori rappresentano sul palcoscenico della vita, la storia non si può certo definire – nonostante il richiamo baroccheggiante delle im- magini – «una guerra illustre contro il Tempo», come invece suc- cede nel manoscritto anonimo dei Promessi Sposi. Ma se in Vas- salli la storia non vince il tempo, conservando la memoria dei fat- ti trascorsi, ciò non significa che lo scrittore si sottragga all’idea di scriverne ricorrendo alla stessa finzione manzoniana (già del resto presente ne La chimera in forma di alcune carte venute al- la luce per caso). Una finzione che in Cuore di pietra prende la veste abbastanza decentrata del manoscritto dai fogli «un po’ in- gialliti» che il professor Alessandro Annovazzi lascia al figlio At- tilio [p. 271].

Ma di veramente significativo in questo c’è soprattutto che il professor Alessandro Annovazzi è uno dei personaggi più psico- logicamente sviluppati di Cuore di pietra, uno dei più avvertiti (con il già citato avvocato Alfonso Pignatelli) in fatto di consape- volezza storico-esistenziale. È dato a lui, infatti, riflettere sul suo passato avvertendo l’impressione

di essere una di quelle statuine dei vecchi carillons, che gi- rano e girano e alla fine tornano sempre a fermarsi nello stesso punto [p. 222].

Appunto a lui tocca ridere di se stesso nell’atto di interpreta- re la figura archetipica dell’uroboro (cioè dell’emblema circola- re di vita e di morte):

«Sono come il serpente che si morde la coda! Sono sempre fermo!» [p. 222].

Ma tocca poi anche al narratore, subito dopo, attenuare la pe- rentorietà della riflessione, iniziando il capoverso successivo con un avviso non trascurabile:

Qualcosa di nuovo, però, era accaduto anche al professor An- novazzi [...] [p. 222].

In altre parole, se la storia non vince il tempo, ne registra pe- rò le azioni e ne verbalizza i movimenti di scena. Stabilito che il tempo non è che l’illusione suprema di un’impossibile eternità, la storia non ha altro compito che quello di annotare le chimere, di chiosare l’assurdo, di rammentare (e di rammendare) le apparen- ze sfilacciate di una condizione, quella umana, che non può co- noscere riscatto. Ma entro questi limiti trova, se non proprio una legittimità di diritto, almeno una sua possibilità d’uso e di fatto. Entro questi limiti, Cuore di pietra può dunque presentarsi come un «“romanzo degli italiani”», nel senso che ripassa più di cen- to anni di storia (dall’Unità ad un’«epoca ormaicosì vicino alla nostra, da confondersi quasi con la cronaca di oggi» [p. 283]) in un’interrogazione continua su ciò che sia il processo dell’identi- tà nazionale.

Attraverso le vicende dei suoi personaggi Vassalli narra il ca- rattere di una nazione che manca di coscienza civica e costituzio- nale. Un insieme di caratteri negativi (e di denunce polemiche) che rappresentano la sintesi di un incontro-scontro, di cui v’è trac- cia via via nei libri scritti, da La notte della cometa (1984) in poi, e che sembrano fondamentalmente corrispondere, specialmente

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per Cuore di pietra, alla meditazione condotta sui testi dell’ami- co Giulio Bollati e alimentata dalle molte conversazioni intrec- ciate con lui8.

5. Lo spazio entro cui si situano le vicende di Cuore di pietra è un’“entità globale” che comprende tutto. Un universo che man- ca assolutamente di indicazioni toponomastiche (con l’unica ec- cezione di Torino, non c’è nessun nome specifico di luogo), co- me accade invece nelle pagine de La chimera e di Marco e Mat-

tio. Intanto perché il mondo di Cuore di pietra ha valore emble-

matico, cioè viene a rappresentare tutti i mondi analoghi o affi- ni, una piccola patria che evoca le tante piccole patrie sparse sul territorio nazionale: quella in cui avvengono press’a poco le stes- se cose delle altre, quella in cui si muovono press’a poco gli stes- si uomini e accadono gli stessi episodi. Poi perché rappresenta il palcoscenico del teatro degli dei, lo spettacolo – qui come altro- ve – che gli dei si divertono a frequentare, assistendo ad una re- cita di universale necessità, in cui solo gli accidenti possono va- riare. Infine perché, via via che il presente si avvicina, a prevale- re sono la velocità e il rumore, l’anonimato che omologa le co- se e le persone.

La città «di fronte alle montagne» non è dunque che una dida- scalia scenica: diventa la perifrasi che designa una geografia es- senziale, quasi astratta, anche se si alterna con l’altra perifrasi più negativamente connotativa («il paese della muffa»), presa a pre- stito dal «Poeta» che dirige per poco la «Gazzetta» cittadina. Ma dentro la città passa una linea di divisione (tra la città bassa dei quartieri operai e la città alta delle abitazioni signorili, tra la par- rocchia della basilica del Santo e quella del quartiere «dei ladri e degli assassini» [p. 112]), che è un po’ a sua volta l’emblema di tutte le altre divisioni, di tutte le altre biforcazioni (almeno ap-

8 Su tutto questo, vedasi qui il saggio Sebastiano Vassalli, un «nulla pieno

parenti) entro cui si muovono i rapporti dei personaggi in gioco: tra Raffaele e Alfonso Pignatelli, tra Costanzo e Giacomo Pigna- telli, tra Ettore Pignatelli e «il Poeta», tra Allegra Perrone e suo marito Costanzo, tra Giuliano Pignatelli e Alessandro Annovaz- zi, tra Alessandro Annovazzi e Ercole Pignatelli, tra rivoluzione e borghesia, tra partiti contrapposti e tra gli stessi «scienziati del- la rivoluzione», addirittura tra due automobili diversamente co- lorate e così via.

Mera appendice della città, in Cuore di pietra, è non a caso la pianura che fa tuttavia di tanto in tanto la sua comparsa: na- turalmente nel prologo, affacciata sull’orizzonte delle montagne lontane, come quinta di un palcoscenico millenario perduto nel- la notte degli evi; ma specialmente nelle pagine esplicite del so- dalizio tra il professor Annovazzi e lo «Scrittore», dove il pae- saggio di acque e stagioni appare in tutta l’intensità di un fascino narrativo che appartiene solo a certi abbandoni de L’oro del mon-

do e de La chimera:

Il professore lo aveva seguito, all’inizio senza troppo entusia- smo e poi, a mano a mano che si allontanavano dalla città, con l’esatta sensazione di avere ritrovato qualcosa che già gli era ap- partenuta prima della nascita: il piacere di sentir pulsare la propria vita dentro una vita più grande, e di essere una parte piccolissima di un insieme, di cui non conosceva i confini [p. 223].

Il paesaggio della pianura viene qui ad assumere la stessa fun- zione che svolgono le stelle in un altro passo già citato di Marco e

Mattio e di un altro ancora che andrebbe citato per intero dal libro,

sempre fondamentale, La notte della cometa; quello che inizia:

M’alzo per chiudere la finestra e m’incanto a guardare le stel- le [...]9.

Vassalli attribuisce all’immersione prenatale nei luoghi del- la pianura, come accade per le stelle e per la vera poesia, la fun-

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