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Dostoevskij, Gogol’ e la follia: «Il treno ha fischiato…»

Per quanto la celebre formula «veniamo tutti dal Cappotto di Gogol’» sia con ogni probabilità apocrifa, è indubbio che la contaminazione di comico e tragedia in Dostoevskij prenda le mosse dal modello gogoliano: è nota, del resto, la definizione ottocentesca dell’arte di Gogol’ come «riso attraverso le lacrime».13 Risulta altrettanto chiara, però, la volontà di affrancarsi dal modello, in particolare per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi: mentre in Gogol’ la dominante grottesca impedisce ogni scavo psicologico, Dostoevskij assegna dignità e pathos anche a figure in apparenza ridicole (Marmeladov, ad esempio).14 Certo, in Gogol’ l’istanza patetica non manca del tutto; si tratta però di una drammaticità affettata, volutamente poco credibile, e funzionale al parossismo del grottesco. Nella figura di Marmeladov, il grottesco serve da paradossale appoggio per il tragico; nei caratteri di Gogol’, invece, la lettura non può fermarsi all’elemento larmoyant, che anzi viene costantemente turbato da un senso di farsa trascendentale. Lo scarto emerge con chiarezza dal paragone fra due novelle centrate su un tema simile, Il cappotto di Gogol’ e Cuore debole di Dostoevskij: nel secondo testo, la statura drammatica dell’impiegato impazzito non è compromessa dalle sfumature ridicole; al termine della lettura, a prevalere è senza dubbio la nota lacrimevole.15 Diversa è la funzione del patetico nel Cappotto, come attestano le pagine sulle angherie subìte da Akakij:

I giovani impiegati ridacchiavano e facevano dello spirito su di lui, il solito spirito da ufficio;

13 A proporre la formula fu Puskin, in una recensione del 1836. Cfr. Gippius 2004: 203.

14 Per una sintesi del dibattito critico sui rapporti fra Gogol’ e Dostoevskij, cfr. Tynjanov 1968 (in

particolare 135-36) e Fanger 1998: 152-66. Allo studio di Tynjanov (146-49) rimando anche per un primo confronto tra i «caratteri» (o «tipi») gogoliani e quelli di Dostoevskij.

15 Il protagonista, il copista Vasja, è un essere «tanto buono, dolce, ma imperdonabilmente debole»,

come lo definisce l’amico Arkadij [Cuore debole, RA, 216]. Folle d’amore per Lizan’ka, la gioia delle nozze imminenti lo induce a trascurare il lavoro: tuttavia, la notizia (falsa) che un ritardo nella consegna di alcune copie potrebbe causare la sua partenza per il servizio militare, e quindi la separazione dall’amata, lo getta in preda allo sconforto; il tentativo disperato di rispettare la scadenza lo condurrà prima al delirio, poi alla morte.

[…] pur in mezzo a tutti questi tormenti egli non faceva il minimo errore nello scrivere. Solamente, quando lo scherno era troppo insopportabile, quando gli urtavano il braccio, impedendogli di lavorare, diceva: «Lasciatemi in pace, perché mi offendete?». E in queste parole, nella voce con cui le pronunciava, c’era qualcosa di strano. Si avvertiva in esse qualcosa di così degno di pietà, che un giovane, da poco assunto, […] si fermò ad un tratto, come trafitto. […] E quel povero giovanotto si copriva gli occhi con la mano, e molte volte in seguito tremò, nella sua vita, vedendo quanta disumanità vi sia nell’uomo, e quanta feroce rozzezza era nascosta nella colta, raffinata mondanità e, Dio!, persino in un uomo che la società riconosce nobile e onesto. [Il cappotto, 101-03]

L’enfasi patetica è evidente nel candore di Akakij («perché mi offendete?»), così come nella reazione del «povero giovanotto», riecheggiata dall’indiretto libero («quanta disumanità vi sia nell’uomo»); il dispendio emotivo del lettore è però ostacolato, se non impedito, da almeno due fattori. In primo luogo, l’esagerazione grottesca tende a spogliare la vicenda dei suoi connotati umani: in Gogol’, come sostiene Calvino, «la carica dell’accanimento derisorio è portata alle estreme conseguenze, e supera la soglia del particolare per mettere in questione l’intero genere umano» [Saggi, I 198]; l’assidua ricerca dell’eccesso, confermata peraltro dal finale fantastico del racconto, blocca l’adesione di solito implicita nei moduli del realismo. In secondo luogo, la figura di Akakij non può commuovere fino in fondo perché a separarlo dai colleghi è «una differenza squallida, imbecille» [Fiorentino 1998: 79]: come accadrà anche in Flaubert – basta pensare a un’altra coppia di impiegati patetici, Bouvard e Pécuchet – la norma e l’abnorme sembrano equivalersi sul piano della bêtise.

Rispetto all’antinomia tra Gogol’ e Dostoevskij, la posizione di Pirandello è complessa: da un lato Dostoevskij viene evocato esplicitamente nell’Umorismo, e – come vedremo anche in seguito – è più presente sul piano intertestuale; dall’altro, anche in Pirandello il pathos è in ultima analisi smorzato, sebbene per vie diverse rispetto al modello gogoliano. Un’ideale base di confronto è offerta dalla storia di un altro impiegato ammattito, il Belluca di Il treno ha fischiato…. Le analogie con il

Cappotto sono evidenti, a cominciare dall’indugio sul sadismo dei colleghi: Circoscritto... sí, chi l'aveva definito cosí? Uno dei suoi compagni d'ufficio. Circoscritto,

povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz'altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni; note, librimastri, partitarii, stracciafogli e via

dicendo. Casellario ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d'un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi. Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, cosí per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po', a fargli almeno almeno drizzare un po' le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S'era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse piú, avvezzo com'era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte. [Il treno ha fischiato…, NPA, I, 589]

La dedizione e la mansuetudine del protagonista ricordano senz’altro quelle di Akakij, per il quale «oltre a questo lavoro sembrava che non esistesse nulla» [Il

cappotto, 105]; come il copista gogoliano, Belluca «seguitava a ricopiare fino a

tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé» [Il treno ha fischiato…, NPA, I 592]. Tuttavia, il turbamento del

pathos è qui più sottile:16 l’oltranza mostruosa del grottesco viene sostituita dall’epoché umoristica, e dalla fuga euforica del personaggio.

In Gogol’ come in Flaubert, il dissidio tra norma e abnorme si apre sul nulla: il mondo pervaso dalla bêtise è irredimibile, l’unica via di fuga consiste nell’assurdo (Gogol’) o nel rigore della forma (Flaubert). In Pirandello, invece, il nichilismo è meno scoperto: tanto il personaggio irregolare quanto la legge sociale sono cose da ridere, ma la dimensione umoristica o vitalistica dell’oltre può offrire un paradossale rifugio al mito dell’autenticità. Alla fine della vicenda, Belluca – con il suo «sorriso d’impudenza» – ha riscattato il suo statuto di irregolare, senza per questo integrarsi nella norma: con una svolta psicologica banale ma impensabile in Gogol’ o Flaubert, l’impiegato trova una via di fuga nella semplice idea che «il mondo esisteva». La proiezione del dramma nell’oltre è del resto onnipresente nelle novelle pirandelliane, pur assumendo forme eterogenee: a volte è lo stesso personaggio a evadere dal proprio dramma (Belluca, il protagonista di Fuoco alla

16 Non a caso, Pirandello si preoccupa – ben più di Gogol’ – di motivare almeno in parte il dramma

del personaggio, spiegandone la maniacale dedizione al lavoro con un’inflazione di sventure domestiche: «Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; l'altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate. Tutt'e tre volevano esser servite. […] Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt'e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa» [Il treno ha fischiato…, NPA, I 592]. In Gogol’, al contrario, tanto lo zelo disumano di Akakij, quanto il suo patologico attaccamento all’idea del cappotto, restano volutamente immotivati.

paglia, quello di Pallottoline!, e molti altri ancora); altrove la tendenza si manifesta

come epoché, affidata a un portavoce dell’autore (Perazzetti in Zuccarello distinto

melodista) o più spesso all’intesa tra autore e lettore impliciti (un’intesa fondata,

anzitutto, sulle sottili modulazioni della voce narrante).17 Per la tendenza a inquinare il pathos, l’umorismo di Pirandello potrà allora avvicinarsi al grottesco gogoliano, o al comique qui ne fait pas rire di Flaubert: tuttavia, mentre in Gogol’ e Flaubert il punto di arrivo è un nichilismo conclamato, in Pirandello la filosofia del lontano mantiene un fondo consolatorio – e, ciò che più importa sottolineare, sembra contemplare una possibilità di riscatto per il personaggio deriso. Restano comunque da chiarire i motivi profondi di questa asimmetria rispetto al ridicolo- patetico ottocentesco: dovremo inoltre chiederci, più in generale, perché l’immaginario pirandelliano torni tanto spesso sull’esclusione dell’individuo anomalo, e sulle paradossali vie di fuga dalla violenza comunitaria. Cercare una risposta a simili domande significherà, tra l’altro, indagare ulteriormente il nesso – ineludibile in Pirandello – tra riso e follia: il confronto con Dostoevskij, in questo senso, si rivelerà ancora una volta di particolare importanza.