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Ridere di tutto: Flaubert, Svevo e il modernismo

II. Violenza, malafede, ipocrisia: verità e menzogne del riso in Svevo

5. Ridere di tutto: Flaubert, Svevo e il modernismo

È utile a questo punto citare di nuovo, in forma più estesa, una pagina già ricordata del Diario per Livia Veneziani:

La mia indifferenza per la vita sussiste sempre: anche quando godo della vita a te da canto, mi resta nell’anima qualche cosa che non gode con me e che m’avverte: bada, non è tutto come a te sembra e tutto resta comedia perché calerà poi il sipario. Di più l’indifferenza per la vita è l’essenza della mia vita intellettuale. In quanto è spirito o forza, la mia parola non è altro che ironia ed io ho paura che il giorno in cui a te riuscisse di farmi credere nella vita (è cosa impossibile) io mi troverei grandemente sminuito. […] Ho un grande timore che essendo felice diverrei stupido. [Diario per la fidanzata, RSA, 681; 12 gennaio 1896]

Come si è accennato, la rivendicazione di un’ironia assoluta – sintomo di una radicale indifferenza alla «comedia» della vita – avvicina l’autore a un tipo di personaggio ben rappresentato nei suoi testi: appunto l’individuo che, muovendosi sul sottile confine tra saggezza superiore e malafede, si ritiene capace di «ridere di tutto». Ma Svevo non è certo l’unico autore dell’epoca a tenere un simile atteggiamento, e a esperirlo nei concreti esiti testuali: in generale, le forme estreme dell’«ironia» giocano un ruolo decisivo negli sviluppi del realismo europeo fra Otto e Novecento. Senza dubbio, per tracciare una storia esauriente di questo riso assoluto, sarebbe necessario uscire dal dominio della narrativa: per tenersi al diciannovesimo secolo, l’idea che la vita umana nel suo complesso sia riducibile a farsa trova una sua prima codificazione nell’ironia romantica; ma il concetto gode di ampia fortuna anche in altri ambiti dell’estetica e della filosofia

ottocentesca, dalle pagine di Baudelaire sul comique absolu (De l’essence du rire, 1855) all’incipit parodia che apre l’edizione 1886 della Gaia scienza. A interessarci, tuttavia, è la diffusione di simili idee nei generi letterari votati alla mimesi del quotidiano: da questo punto di vista, è facile individuare una svolta epocale nelle opere di Flaubert. Per i grandi narratori del primo Ottocento, la vita è una cosa seria, durante la quale possono avvicendarsi eventi ridicoli, tragici o grotteschi: compito del romanzo è rendere giustizia a questo «mélange du grave et du burlesque», o «alternation of tragic and comic scenes»,51 arginando l’istanza del riso entro limiti precisi. È appunto il confine tra serio e comico-grottesco a venire messo in discussione da Flaubert: l’autore esibisce il proprio distacco da una realtà ormai pervasa dalla bêtise, sulla quale viene esercitata un’ironia nichilista e distruttiva. Esemplari, in questo senso, alcune dichiarazioni programmatiche contenute nell’epistolario:

Ce qui m’empêche de me prendre au sérieux, quoique j’aie l’esprit assez grave, c’est que je me trouve très ridicule, non pas de ce ridicule relatif qui est le comique théâtral, mais de ce ridicule intrinsèque à la vie humaine elle-même, et qui ressort de l’action la plus simple ou du geste le plus ordinaire. [Correspondance, I 307; lettera a Louise Colet, 21 agosto 1846] Autrefois je saisissais assez nettement dans la vie les choses bouffonnes des sérieuses; j’ai perdu cette faculté! L’élément pathétique est venu pour moi se placer sous toutes les surfaces gaies, et l’ironie plane sur tous les ensembles sérieux. Ainsi donc le sens dans lequel tu dis que je me plais aux farces n’est pas vrai; car, ou en trouve-t-on, de la farce, du moment que tout l’est?

[Correspondance, I 348-49; a Louise Colet, 18 settembre 1846]

Non siamo lontani dal senso di «comedia» trascendentale descritto, cinquant’anni dopo, da Svevo. Ma non sarebbe difficile ritrovare accenti analoghi, malgrado le significative peculiarità dei singoli casi, in altri grandi narratori tra fine Ottocento e inizio Novecento: basta pensare alla Neue Ironie musiliana, marcata da un’«assoluta (religiosa) mancanza di rispetto» per le «forme sociali» e «morali» della vita;52 oppure – in ambito italiano – al clima di «enorme pupazzata» che pervade il realismo di Pirandello, al dilagare del ridicolo celebrato da Palazzeschi nel Controdolore, all’irredimibile «scemenza del mondo» denunciata dalla satira

51 Le due citazioni provengono rispettivamente da Manzoni [Lettera a Chauvet, 177] e da Dickens

[Oliver Twist, 127].

gaddiana. Il fenomeno varia in modo cospicuo da un autore all’altro, ma mi sembra indubbia anche l’analogia di fondo: la tendenza a ridurre il mondo intero a farsa – tramite la satira, l’umorismo, l’ironia – contribuisce a definire una linea tutt’altro che secondaria nel realismo modernista.53

La pervasività raggiunta dalle forme del riso va collegata, almeno in parte, a quel dissidio fra individuo e società che sta alla base dell’ideologia romantica, o almeno della sua componente ironica: la distanza rivendicata dall’Io nei confronti del mondo, in Flaubert come in Svevo o Pirandello, è avvicinabile a quella «soggettività assolutizzata» che Hegel attribuiva all’ironia schlegeliana; a segnare il discrimine è appunto la felice estraneità di quest’ultima all’orizzonte del realismo, entro cui si muovono invece gli autori elencati nella nostra breve rassegna. Se il divario tra «anima» e prosa del mondo, tra aspirazione alla libertà e necessaria uguaglianza, è all’origine della moderna coscienza borghese e delle sue aporie,54 il romanzo del primo Ottocento inscenava un compromesso – pacifico o meno – tra i due poli: Balzac o Stendhal possono denunciare l’arbitrarietà e la violenza del nomos, ma il rapporto fra individuo e società resta per loro una cosa seria; tale serietà emerge anzitutto dall’importanza assegnata ai fatti narrati, e al loro valore drammatico. Flaubert e Pirandello, Musil e Svevo, arrivano invece a insinuare che le schermaglie della vita associata siano, nel loro complesso, del tutto irrilevanti: a determinare una simile metamorfosi avrà contribuito, possiamo qui solo accennarlo, il graduale appiattimento politico e sociologico solitamente identificato (malgrado le variabili locali) nella cesura simbolica del 1848.55 Il riso modernista sviluppa insomma alcune istanze radicali dell’ironia romantica, servendosene per fare implodere i paradigmi tradizionali del realismo: la stessa categoria del tragico non è più pensabile, ormai, fuori da questa diffusa impressione di pagliacciata.56 Da qui l’abbondanza, in molti degli autori citati, di personaggi che si distanziano ridendo dalla compagine dell’esistenza civile: il loro

53 Ho cercato di esaminare il problema, rifacendomi anche ai casi di Joyce e Kafka, in Godioli 2011:

175-89.

54 È la tesi sviluppata, a partire da Hegel e Lukács, in Moretti 1999; da assunti analoghi muove,

inoltre, l’impianto storico e teorico di Mazzoni 2011.

55 In merito alla svolta epocale rappresentata dal 1848, è d’obbligo il rinvio a Lukács 1964 (in

particolare 275-331 e 332-87). Sulla riduzione della storia «a congerie farsesca o tragicomica», accentuatasi appunto dopo il 1848, cfr. inoltre Luperini 2007: 3-30.

56 Per quanto riguarda la contaminazione di tragico e grottesco nella narrativa modernista, rinvio

riso – euforico o amaro – riecheggia quello del narratore verso le miserie del mondo narrato.

All’interno di questa parabola, l’atteggiamento di Svevo si distingue per lucidità e disposizione all’autocritica. Una spia era già presente nel Diario: «la mia parola non è altro che ironia, ed io ho paura che il giorno in cui a te riuscisse di farmi credere nella vita (è cosa impossibile) io mi troverei grandemente sminuito»; simili inquietudini affioreranno, sporadicamente, nei monologhi dei personaggi («Mi spavento quando talvolta penso che la gente possa essere migliore di quanto io abbia sempre pensato o la vita più seria di quanto mi sia sempre apparsa»).57 Ridere di tutto è davvero un segno di superiorità sulle miserie del mondo, e sulla sua legge omologante? La trascendenza postulata da questo tipo di «ironia» è reale? Non sarà piuttosto uno strumento della malafede e dell’accidia, anche quando il riso assume le forme – a prima vista nobili – dell’autoironia? Svevo affronta simili domande in modo più deciso rispetto a molti altri modernisti, pur senza uscire da una strategica ambiguità: il distacco garantito dall’ironia è una menzogna, ma al tempo stesso è un «ordigno» indispensabile alla sopravvivenza. Cercare di risolvere un simile dilemma, fissandolo in un giudizio morale o in una rivendicazione orgogliosa, sarebbe impoverire la realtà: il riso infatti – in ogni sua forma – non è mai un fenomeno completamente decifrabile, e non può quindi essere oggetto di analisi univoche. Di particolare interesse mi sembra, da questa prospettiva, la pagina iniziale di Soggiorno londinese (1926):

Guardatevi in uno specchio ed avrete un’occasione unica di poter studiare come una fisonomia umana s’atteggi per date idee o impressioni […]. Guarda, guarda, quei grossi mustacchi! Darwin ne attribuiva la nascita al bisogno di certi roditori e molti altri mammiferi di essere avvisati quando i buchi in cui si muovono per celarsi o per aggredire si restringono. […] Io rido all’idea di vedermi munito di un ordigno che m’addobba e non mi serve a niente e rido ancora allo scoprirmi un rudere di bestia che impomata l’ordigno oramai tanto inutile. Sono un museo ambulante. Ride subito anche la mia immagine. Ridiamo insieme. E il riso è un’espressione che cela invece che rivelare il pensiero. Quando si studia non bisogna ridere perché il riso cela troppe cose. [TS, 893]

Guardandosi allo specchio, nell’atto di «impomatarsi» i baffi, Svevo coglie la pervasiva ridicolaggine dell’essere umano. Non sorprende trovare un’immagine

quasi identica in una lettera (già citata) di Flaubert: «Ce qui m’empêche de me prendre au sérieux, quoique j’aie l’esprit assez grave, c’est que je me trouve très ridicule, non pas de ce ridicule relatif qui est le comique théâtral, mais de ce ridicule intrinsèque à la vie humaine elle-même, et qui ressort de l’action la plus simple ou du geste le plus ordinaire. Jamais par exemple je ne me fais la barbe sans

rire, tant cela me paraît bête» [Correspondance, I, 307, corsivo mio]. Ad ogni modo,

mentre Flaubert non dubita che il «ridere di tutto» sia un’estrema rivincita sull’idiozia universale,58 Svevo – come abbiamo visto – è molto più diffidente. Anche al vaglio dell’analisi più lucida, sarà tuttavia impossibile ricondurre a unità le ambivalenze del riso: «il riso è un’espressione che cela invece che rivelare il pensiero», «quando si studia non bisogna ridere perché il riso cela troppe cose»; ne consegue, e non potrebbe essere altrimenti, un perpetuo moto circolare. Denunciando la malafede implicita nel riso dei personaggi (o dell’autore allo specchio), l’ironia sveviana arriva a corrodere se stessa: ma un simile corto circuito è senza uscita, se proprio l’ironia è la condizione di sopravvivenza del soggetto («la mia parola non è altro che ironia»). L’esito sarà, come nel classico paradosso di Epimenide, una verità instabile e sempre differita.

58 «Et vous voulez que je ne remarque pas la sottise humaine, et que je me prive du plaisir de la

peindre! Mais le comique est la seule consolation de la vertu. Il y a, d'ailleurs, une manière de la prendre qui est haute; c'est ce que je vais tâcher de l'aire dans mes deux bonshommes. Ne craignez pas que ce soit trop réaliste! J'ai peur, au contraire, que ça ne paraisse impossible, tant je pousserai l'idée à outrance» [Correspondance, IV 788-89; lettera a George Sand, 8 aprile 1874].