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E DUCAZIONE , CIVILE CONVERSAZIONE E FIDES NELLE OPERE VOLGARI : IL PENSIERO PEDAGOGICO DI B RUNO DALLA C ENA ALLA C ABALA

La definizione della natura e del ruolo della fides nella filosofia bruniana prende corpo, si è visto, gradualmente, è oggetto di progressive riprese e rimeditazioni. A questo processo di definizione contribuiscono anche luoghi dell’opera di Bruno in cui non si tratta direttamente della fede: ne è esempio la riflessione sull’educazione e sulle possibili conseguenze che le buone o cattive pratiche educative hanno sulla vita civile. Nei dialoghi italiani pubblicati a Londra, Bruno ridefinisce in modo originale le nozioni di educazione e di civile conversazione, riprendendo temi già presenti in nuce nel Cantus circaeus e offrendo di questi, soprattutto nello Spaccio, una più compiuta trattazione. La critica ha giustamente insistito sul nesso organico che sussiste in Bruno tra autobiografia e filosofia. È stato osservato che Bruno si è dedicato per tutta la vita all’insegnamento, che il suo obiettivo è sempre stato istruire, trovare degli allievi e un pubblico.246 Sembra inoltre che Bruno sia stato un insegnante spesso impopolare,

apprezzato da pochissimi. Fin dal periodo trascorso a Parigi egli si è trovato più volte a essere frainteso, mal giudicato anche da coloro che inizialmente avevano espresso interesse per le sue teorie. Come attesta già il Dialogo prelibatorio del De umbris idearum, la sua mnemotecnica fu oggetto di immediata curiosità, ma fu presto squalificata come incomprensibile.247 Questa cattiva accoglienza era destinata a ripetersi, in forme più

drammatiche, anche in terra inglese, a Oxford e forse anche a Londra, dove Bruno pubblicò un’opera di rottura come la Cabala. Insegnante appassionato e instancabile, costretto puntualmente, con rinnovata amarezza, a far fronte a continue ostilità, anche col mutare di luoghi e contesti, Bruno deve essersi interrogato a più riprese, con crescente

246 Cfr. M. CILIBERTO, Giordano Bruno. Il teatro della vita, Milano 2007, p. 109: «Quella di insegnare,

prima di essere una scelta, era una necessità, per una persona nelle condizioni di Bruno. Ma nel suo caso, l’insegnamento fu sempre, e prima di tutto, un’autentica, profonda vocazione: come risulta chiaro dall’assillante ricerca di una cattedra, e anche dal fatto che i suoi anni più felici, quelli trascorsi a Wittenberg, la città dell’Università di Lutero – coincisero con il suo periodo di insegnamento più fervido e fecondo».

247 OMN I, p. 25: « LOGIFERO: Farfacone, dottore in entrambi i diritti e filosofo grammatico, è

dell’avviso che quest’arte sia più un peso che un aiuto: se chi procedeva senz’arte doveva ricordare solo cose, chi se ne serve deve adesso tenere a mente cose, luoghi e immagini innumerevoli: e non c’è dubbio che questo comporti maggiori ostacoli e confusione per la memoria. FILOTIMO: Il suo acume fa invidia a Crisippo, e l’opinione merita di essere strigliata con un gran pettine di ferro».

preoccupazione, sulle ragioni della disapprovazione suscitata nei suoi interlocutori, nonché sulle strategie cui ricorrere per riuscire ad attrarli. Per questo nelle proprie opere egli non solo denuncia con violenza la pedanteria e la decadenza che ha personalmente sperimentato, ma si chiede anche se (e se sì come) le relazioni tra docente e discente e quelle tra dotti possano svolgersi in maniera non polemica.

Nella Cena e nel De la causa, mentre espone una cosmologia e un’ontologia rivoluzionarie, Bruno si interroga anche su come debbano svolgersi le relazioni tra gli uomini, affinché quella cosmologia e quell’ontologia siano recepite in modo corretto e profondo. Alcune considerazioni presenti in queste opere sembrano gettare i fondamenti del progetto di educazione civile poi sviluppato nello Spaccio, all’interno del quale il tema della fede trova spazio di approfondimento.

Nelle pagine che seguono intendo ricostruire il pensiero pedagogico messo a punto da Bruno nelle opere volgari, determinandone per quanto possibile le fonti e i caratteri fondamentali, per mostrare in particolare come l’importanza assunta dall’ascolto nell’educazione prefiguri l’elogio della fede esposto nello Spaccio.

1. Una concezione pedagogica elitaria: la difficile ‘terapia’ dell’ascolto nella ‘Cena’.

Il primo dialogo della Cena, nel quale Bruno insiste sul carattere innovativo della propria cosmologia differenziandola da quella copernicana, si conclude con una lunga e concettualmente assai densa riflessione sull’educazione, nella quale è messa in luce per la prima volta l’importanza dell’ascolto.

Consapevole di proporre una cosmologia del tutto nuova, destabilizzante per le sue implicazioni fisiche e metafisiche, nella Cena Bruno afferma che spesso la verità è destinata a suscitare scandalo e ostilità in chi la recepisce. Egli non si mostra disposto a venire incontro ai pregiudizi dei suoi interlocutori, a comunicare mediando tra le proprie e le loro convinzioni: è certo di aver compreso la verità, di essere stato il solo a farlo e di doverla diffondere senza addolcirla o mascherarla. Bruno sembra ritenere che, se eccessivamente abbassata al livello di chi non la comprende, la verità perda la sua natura, smetta insomma di essere verità. Di conseguenza la sua missione di insegnamento assume i connotati eroici di una battaglia, e non a caso il personaggio di Teofilo afferma che «un

solo, benché solo, può e potrà vincere, e al fine avrà vinto, e trionferà contro l’ignoranza generale».248 Questi toni perentori richiamano le pagine del De umbris dedicate alla

figura del Mercurio, un uomo che gli dèi scelgono come loro messaggero, destinandolo a comunicare la verità ai propri simili, così da portare un’intera epoca fuori dalle tenebre.249

Per Bruno la verità non è materia di mediazione; non stupisce, in questo senso, che sia proprio il pedante Prudenzio (citando i Disticha Catonis) a ricordare, di contro, che non è opportuno disprezzare l’opinione del volgo, poiché chi si comporta in questo modo finisce per divenire a sua volta oggetto di disprezzo. A giudizio del Nolano infatti ritenere che la verità debba essere comunicata solo accordandosi alle credenze e alla sensibilità di chi deve recepirla, e che si debba quasi rispettare l’ignoranza altrui per paura d’incorrere nell’odio dei molti, è cosa da pedanti.

In risposta a Prudenzio, Teofilo illustra una concezione profondamente elitaria del sapere, osservando che il peso, «la soma» della verità – si parla naturalmente, in queste pagine, della verità astronomica: l’infinità dell’universo, la molteplicità dei mondi, la perdita di centralità della Terra e dello stesso Sole – non può essere sostenuta da tutti. Proprio nella capacità di portare il fardello di una verità tanto pesante, nella forza e nel coraggio di farla propria, risiede la differenza tra i ‘Mercuri’ Copernico e il Nolano da un lato e i loro contemporanei dall’altro.

A ben vedere però, prosegue Teofilo, le due figure non stanno sullo stesso piano: mentre il Nolano ha saputo cogliere la verità ed esprimerla in forma compiuta e chiara, Copernico ne ha portato il peso solo per un tratto, non l’ha condotta al suo compimento, non traendo dai propri calcoli le adeguate conseguenze cosmologiche. Il fatto che nemmeno Copernico sia stato un Mercurio nel senso pieno del termine induce a rilevare con maggior forza che solo pochi uomini sono adatti a conoscere il vero. L’insegnamento del Nolano si rivolge allora a pochissimi: se non si vuole perdere tempo a «lavar, come si dice, il capo all’asino» o a «vendere quel che san far i porci a le perle», occorre riconoscere che «di que’ dumque dotti possiamo esser maestri, e di quei ciechi illuminatori, che non per inabilità di naturale potenza, o per privazione d’ingegno e disciplina, son chiamati orbi: il che avviene per la privazion de l’atto solo, e non de la

248 DFI, p. 30.

249 OMN I, p. 23: «La provvidenza degli dèi – dissero i sacerdoti egizi – non cessa d’inviare agli uomini,

facultà ancora».250 Con queste parole Bruno inaugura una classificazione degli ingegni

umani secondo le capacità naturali e le disposizioni psicologiche che nel corso della vita si innestano su di esse. Naturalmente si può insegnare solo a chi ignora qualcosa, e ogni allievo è, almeno rispetto a ciò che apprende, ignorante. Non tutti gli ignoranti però sono interlocutori possibili: apprenderanno solo coloro che possiedono la capacità di intendere in una forma potenziale, ma che non l’hanno ancora portata all’atto. A questo ristretto novero si devono poi sottrarre quelli che, pur avendo una natura adatta a comprendere la verità, sono ostacolati nel raggiungerla da disposizioni psicologiche avverse. L’arroganza ad esempio spesso soffoca le capacità naturali: alcuni, rileva Teofilo, «sono tanto maligni e scelerati, che per una certa neghittosa invidia si adirano et inorgogliano contra colui che par loro voglia insegnare – essendo, come son creduti e (quel ch’è peggio) si credeno, dotti e dottori». Questi presunti dotti, in realtà ignoranti, non sopportano che un altro, e non loro, sia giunto alla verità, tanto da rifiutare gli argomenti altrui anche quando la loro fondatezza è evidente. Tra costoro si annoverano i personaggi Torquato e Nundinio, coi quali il Nolano disputa nei successivi dialoghi della Cena, i cui «propositi», ricorda il personaggio di Frulla, sono «degni d’essergli decisi a dosso con quelle verghe doppie (chiamate bastoni) co le quale i facchini soglion prender la misura per far i gipponi a gli asini»; si tratta di uomini, insomma, meritevoli di punizioni corporali alla stregua delle bestie.

Il pubblico degli ignoranti comprende un’ulteriore specie: Teofilo polemizza infatti con «alcuni altri che per qualche credula pazzìa, temendo che per vedere non se guastino, vogliono ostinatamente perseverare ne le tenebre di quello ch’hanno una volta malamente appreso». Si rintracciano in questa descrizione termini destinati a tornare all’interno di un ragionamento più compiuto e ancora più amaro, nella Cabala, per connotare l’asinità: anziché all’invidia, alcuni uomini si abbandonano a una credulità che è insieme pazzia e pigrizia, poiché non vogliono affatto conoscere e si ostinano a credere cose false per timore di guardare direttamente il vero.

250 «PRUDENZIO: Rebus, et in sensu, si non est quod fuit ante, Fac vivas contentus eo quod tempora

praebent. Iudicium populi nunquam contempseris unus, Ne nulli placeas dum vis contemnere multos.

TEOFILO: Questo è prudentissimamente detto in proposito del convitto et regimento comone, et prattica de la civile conversazione: ma non già in proposito de la cognizione de la verità, et regola di contemplazione, per cui disse il medesmo saggio: Disce, sed a doctis, indoctos ipse doceto.» Queste citazioni e le seguenti sono tratte da DFI, pp. 30-39.

«In che modo», chiede il personaggio di Smitho, «si potran correggere questi?»: le diverse specie di ignoranza possono essere emendate? È possibile ‘convertire’ alla verità chi le si oppone? Frulla, esasperato, sostiene che nulla possa essere fatto: con i pedanti è impossibile comunicare, e occorrerebbe piuttosto «togliergli via quel capo, e piantargliene un altro». La posizione di Teofilo, portavoce del pensiero di Bruno, si dimostra invece più articolata, anche se tutt’altro che ottimista: è necessario togliere agli ignoranti la presunzione, «l’estimazion di sapere»; ciò può forse essere fatto con «qualche modo d’argumentazione» e «con argute persuasioni», ricorrendo insomma alle giuste strategie di comunicazione.

Poiché le capacità naturali appaiono immodificabili, è sulle cattive disposizioni che l’educazione sembra poter intervenire. Se queste saranno corrette e sostituite da disposizioni buone, coloro che hanno una natura adatta potranno dedicarsi al sapere sfruttando appieno le proprie facoltà. Sebbene sia destinata solo agli «ingegni capaci e abili», l’educazione assume la massima importanza, perché può consentire ad alcuni di recuperare un rapporto con la verità che altrimenti sarebbe loro precluso.

Per riuscire in questo intento, spiega Teofilo, occorre «rendere uditori» gli ignoranti, porli cioè nella condizione di dover ascoltare la verità con la massima attenzione:

Questi (secondo l’uso de la scuola pitagorica e nostra) non voglio ch’abbino facultà di esercitar atti de interrogatore o disputante, prima ch’abbino udito tutto il corso de la filosofia: per che all’ora se la dottrina è perfetta in sé, e da quelli è stata perfettamente intesa, purga tutti i dubii, e toglie via tutte le contraddizzioni.

Nello specifico, Bruno prescrive ai discepoli della propria scuola la regola del silenzio che vigeva già nella scuola pitagorica, dove gli allievi non erano autorizzati a proferire parola durante i primi anni di insegnamento: loro dovere era interiorizzare profondamente la dottrina, cercando di risolvere in primo luogo da soli i problemi teorici che questa poneva, anziché comunicare subito i propri dubbi.

Per poter combattere efficacemente l’ignoranza, insomma, il rapporto tra docente e discente deve essere innanzitutto frontale, non può configurarsi sin dal principio come uno scambio. Prosegue Teofilo: «[L’allievo] Non potrà mai essere buono inquisitore e giodice […], se prima non s’è informato del negocio»; riesce a ‘informarsi’ davvero chi prende il tempo di capire cosa gli si sta dicendo, accettando che questo lavoro richieda tanto più tempo e pazienza quanto più i contenuti da recepire sono complessi e rilevanti.

Pertanto «l’auditore deve essere taciturno, e prima d’aver tutto udito et inteso, credere che con il progresso de la dottrina cessarranno tutte difficultadi». La solitudine, cui l’ascolto costringe l’ignorante a impegnarsi per affrontare le difficoltà concettuali che incontra, lo esorta dunque al lavoro. Essa inoltre impedisce di arrestarsi alle opinioni delle auctoritates, di per sé non risolutive, per andare in maniera autonoma al cuore delle questioni affrontate.

La ‘terapia’ bruniana contro l’ignoranza dunque riguarda in primo luogo i doveri di chi ascolta e recepisce. Per Bruno infatti l’ascolto non è un atto neutro: è suscettibile di eccessi e difetti, ed è indispensabile compierlo nel modo corretto. Solo chi accetta di immergersi completamente nei contenuti e allo stesso tempo cerca di comprenderli davvero, anziché crederli passivamente, può progredire.

Se l’ignorante riesce a purificarsi dai propri cattivi atteggiamenti e dalle false opinioni, «se aviene che ritrove un più polito ingegno», allora – secondo l’uso della scuola pitagorica – egli può prendere a guardare a ciò che ha appreso in maniera critica, esprimendo opinioni, e proponendo soluzioni quando ritiene che nella dottrina vi siano errori. Solo allora, se questo momento arriva, gli è concesso di intervenire nella discussione, di «consentire o dissentire, interrogare e rispondere»: a quel punto infatti l’ignorante non è più ignorante e può arrecare un vero contributo alla materia.

I bersagli polemici di Bruno, coloro che per definizione non praticano l’ascolto in maniera proficua e che pertanto si oppongono diametralmente ai pitagorici, sono «gli Efettici e Pirroni», i pensatori scettici. Questi, rileva Teofilo, «sempre vanno dimandando e cercando, per non ritrovar giamai», e nel far ciò si dedicano a un uso indiscriminato e sterile della parola. La sospensione del giudizio che connota il pensiero scettico, anziché tradursi in attento silenzio, dà vita a un cicaleggio vano, poiché per questi falsi filosofi la verità è sempre irraggiungibile. Teofilo si scaglia inoltre contro «quei che di cose chiarissime vogliono disputare», gli uditori che si arrestano a interrogarsi sugli elementi semplici del ragionamento per non arrivare a capire ciò che è importante e difficile, e ancora contro quelli che disputano solo per distinguersi, per «contendere e oppugnare il vero».

Smitho approfondisce la critica di Teofilo rilevando che simili forme di ottusità sono nocive non solo per gli uomini che le praticano, ma anche per molti altri, dal momento che gli ignoranti, credendosi dottori, insegnano e tramandano i loro errori. L’ignoranza

dei maestri corrompe e aggrava l’ignoranza innocente dei giovani, facendola diventare, da ignoranza neutra «di semplice privazione», un’ignoranza malvagia «di mala disposizione», trasformando insomma il semplice non sapere in pregiudizio. Smitho introduce così una questione importante: l’insegnamento, se veicola errori quanto ai contenuti e gli atteggiamenti, affligge l’anima come una malattia, la infetta e può arrivare a comprometterla irreversibilmente: «or chi me farà sicuro, […] che in luogo d’aver comprata la dottrina, non m’abbi infettata la mente di perniziose pazzìe?». Attraverso un’immagine che viene dal Commento alla Fisica di Averroè, la consuetudine, l’acquisizione di credenze, è paragonata a un veleno che può modificare irreversibilmente la natura dell’anima:

Non sai quanta forza abbia la consuetudine di credere, et esser nodrito da fanciullezza in certe persuasioni, ad impedirne da l’intelligenza de cose manifestissime? Non altrimente ch’accader suole a quei che sono avvezzati a mangiar veleno, la complession de quali al fine non solamente non ne sente oltraggio, ma ancora se l’ha convertito in nutrimento naturale: di sorte che l’antidoto stesso gli è dovenuto mortifero.251

Chi interiorizza gli errori si assuefà ad essi al punto di renderli una seconda natura, capace di compromettere la salute dell’anima in modo irrecuperabile. Riprendendo una riflessione sulla consuetudine che Bruno poteva rintracciare, oltre che in Averroè, in La Boétie e in Montaigne,252 il personaggio di Smitho ricorda quante e quanto varie siano le

occasioni di costruirsi dei pregiudizi che si offrono durante la vita, sin dalla culla. L’interazione con ogni figura educativa, a partire dalla nutrice, l’appartenenza a un certo popolo e a una certa cultura, l’adesione a certi riti e tradizioni, insomma le persuasioni «di

251 DFI, p. 37. Cfr. inoltre Averrois Destructio destructionum philosophiae Algazelis, in Aristotelis

Opera omnia, cum Averrois commentariis, Venetiis, apud Iunctas, 1562-1574, vol. IX, ff. 90M-91B:

«Sermo autem de his rebus vulgo est, sicut qui dat potum venenorum multis corporibus animalium, quibus sunt venena. Nam venena sunt res apropriate: quia aliquod erit venenum proprium alicui animali, quod erit nutrimentum in alio animali. Et sic est dispositio in opinionibus cum hominibus, scilicet quod aliquando hominibus et nutrimentum in aliis [...].Et qui dat venenum ei, cui est conveniens ab eo, cui est nutrimentum, ita quod moritur, debet etiam ei inculpari [...]».

252 É. DE LA BOÉTIE, Discorso sulla servitù volontaria, trad. a cura di F. CIARAMELLI, Milano 2012, p.

22: «È proprio l’abitudine, come si dice di Mitridate il quale finì con l’abituarsi al veleno, che c’insegna a ingurgitare, senza trovarlo amaro, il veleno della servitù». Cfr. anche il saggio di Montaigne I, XXIII: «Infatti la consuetudine è in verità una maestra di scuola prepotente e traditrice. Ci mette addosso a poco a poco, senza parere, il piede della sua autorità; ma da questo dolce e umile inizio, rafforzato e ben piantato che l’ha con l’aiuto del tempo, ci rivela in breve un volto furioso e tirannico»; M. DE MONTAIGNE, Saggi, a cura di F. GARAVINI e A. TOURNON, cit., p. 191.

scienze» e quelle «di religione» influenzano profondamente l’individuo, determinando le sue convinzioni e la sua psicologia.253

Per Bruno, dunque, l’educazione agisce nell’ambito della consuetudine, manifestando in rapporto a essa le proprie possibilità e i propri limiti: può fornire strumenti per vincere i pregiudizi consolidati e cogliere il vero; può invece, se è una cattiva educazione, limitare le capacità naturali e generare cattive credenze.

Poiché il potere della consuetudine è così forte, per poter mettere al riparo un individuo dall’ignoranza «di mala disposizione» occorrerebbe poterlo educare integralmente, controllare ogni momento della sua formazione e forse della sua vita; si tratta di un’impresa educativa impossibile. L’identità individuale è il risultato di molteplici incontri e di molteplici relazioni, che si innestano su un nucleo ‘innato’ di capacità e incapacità, su un’intelligenza specifica che varia da individuo a individuo. Imparare equivale sempre a modificare le proprie disposizioni; tale processo è tanto inevitabile quanto rischioso, perché si offrono continue occasioni di peggioramento. Il processo educativo, nella sua interezza, è dunque incontrollabile.

Emerge qui una differenza importante del pensiero bruniano rispetto al progetto presentato da Quintiliano nell’Institutio oratoria, alla tradizione pedagogica umanista e alle riforme di Vives e di Ramo: preso atto del potere che la consuetudine esercita sin dall’infanzia, Bruno non definisce un programma pedagogico incentrato sull’educazione del bambino. Il compito dell’insegnante diviene, a suo giudizio, correggere le cattive disposizioni dei suoi allievi – a prescindere dalla loro età – per quanto è possibile, sempre nella consapevolezza che solo pochi potranno trarre beneficio da questo trattamento. L’incontro con un buon insegnante, la possibilità dunque di avere un’educazione che fortifichi l’intelligenza anziché le false credenze, è tutt’altro che scontato, dipende dalla

253 DFI, p. 37: «Vedo bene che tutti nascemo ignoranti, credemo facilmente d'essere ignoranti, crescemo

et siamo allevati co la disciplina et consuetudine di nostra casa, et non meno noi udiamo biasimare le leggi, gli riti, le fede, et gli costumi de nostri adversarii, et alieni da noi: che quelli de noi, et di cose nostre. Non

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