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L A FIDES NELLE PRIME OPERE MNEMOTECNICHE

Nei capitoli precedenti ho cercato di illustrare come la denuncia della decadenza espressa da Bruno nella Cabala si traduca un un’accusa a quanti mancano di fede nelle proprie facoltà e si dedicano al fideismo religioso: il Nolano ritiene che un’eccessiva fede nell’autorità altrui trovi la sua ragione in primo luogo in una carenza di fede in sé. Nelle pagine della Cabala, si è visto, Bruno concentra la propria attenzione sulle conseguenze negative che derivano da un modo sbagliato di accordare la fede; anche da quelle considerazione emerge che la fede non in sé nociva, bensì strumento passibile di usi differenti.

L’importanza della fede è affermata a cominciare dal De umbris idearum e non pare legata a un preciso momento della produzione filosofica del Nolano, è piuttosto tematica costante, sottoposta nel tempo a diverse formulazioni e considerata facendo riferimento a molteplici autori e testi.

A questo proposito, nella vasta letteratura sull’argomento ho cercato di individuare alcuni passi che appaiono testualmente vicini alle parole di Bruno e che potrebbero pertanto costituirne le fonti, ben consapevole che tale compito può essere svolto qui solo parzialmente. Data l’importanza assunta dalla nozione di fede sin dall’antichità, nelle considerazioni bruniane confluiscono infatti motivi concettuali che possono provenire da più opere, contemporanee o molto precedenti alle sue. A partire da una cultura filosofica e teologica ben solida, nel ripensare la nozione di fides, Bruno sa prendere posizione di fronte a una tradizione lunga e autorevole, confrontandosi con le posizioni di pensatori come Aristotele, Agostino, Tommaso. Mantenendo sempre questi ed altri autori sullo sfondo della ricerca, ho cercato di mostrare, per quanto possibile, come l’evoluzione del modo di concepire la fides si leghi al progressivo strutturarsi della teoria bruniana della conoscenza e dell’azione.

1. ‘Fides’ e conoscenza nel ‘De umbris idearum’.

La prima riflessione articolata sulla fides compare nel De umbris, la prima opera pubblicata da Bruno a Parigi, che come si è già visto inaugura a tutti gli effetti la sua

produzione filosofica, presentando per la prima volta temi e immagini destinati a tornare in forme nuove nei testi successivi. Alla fides è dedicata l’Intentio XVI, un breve paragrafo di grande densità concettuale:

Nel proprio linguaggio, il Teologo disse: «Se non crederete, non intenderete», e nel loro linguaggio i filosofi confermano che le scienze necessariamente si acquistano muovendo da assiomi concessi e stabiliti, e nei quali si dice di aver fede – una fede che i pitagorici riservavano agli enunciati non dimostrati, i peripatetici ai non dimostrabili, i platonici ad entrambi; e che secondo un itinerario naturale e razionale dobbiamo procedere all’esplicazione delle forme muovendo dalle realtà nelle quali esse sono contenute come virtù, radice e, per così dire, come contenuto implicito. Prima di manifestare figure perfettamente esplicate, la natura ne presenta certe oscure prefigurazioni; in modo simile opera Dio, e in modo simile operano le arti che ripercorrono, ciascuna secondo il proprio valore, l’ordine divino e naturale.

Chi crede che operare sulle ombre sia un compito arduo e forse inutile – se simili ombre non dischiudono l’accesso alla luce – sappia che un tale difetto non discende dalle ombre. E sappia che è già molto poter custodire sotto il velo dell’ombra quel che non potresti mai afferrare nella sua nuda essenza.133

Anche in queste righe Bruno recupera, come fatto con la metafora della Sulamita e il peccato originale, un luogo biblico tratto dall’Antico Testamento – il versetto di Isaia 7, 9: «Nisi credideritis, non intelligetis» – per renderlo motto e simbolo di una riflessione non cristiana. Il versetto biblico, che chiama in causa i rapporti tra fede e intelligenza umana affermando che la seconda dipende dalla prima, era divenuto riferimento costante per una lunga tradizione teologica, che si era interrogata sui rapporti tra fede e ragione e che aveva coniugato istanze religiose e gnoseologiche.

Nell’Intentio, subito dopo aver richiamato le parole di Isaia, Bruno insiste su come in materia di fede si dia una convergenza profonda della tradizione teologica e del pensiero filosofico. Si tratta della ripresa di un tema diffuso, che ricorre ad esempio anche nelle pagine conclusive del De christiana religione di Ficino. Prima di Bruno, infatti, già Ficino aveva sottolineato la convergenza delle posizioni pitagorica, platonica e aristotelica sui princìpi delle scienze, traendo da questi riferimenti un elogio della fides

133 OMN I, p. 67. Si riporta anche il testo latino: «In suo genere dixit Theologus: «Nisi credideritis, non

intelligetis », et in suo genere confirmant philosophi ex concessis positisque iis, quorum fides esse dicitur – quae fides apud Pythagoricos erat de non demonstratis, apud Peripateticos de non demonstrabilibus, apud Platonicos de utrisque –, aucupandas esse scientias; et ex / iis, quae in virtute et radice et implicatione quadam continent, ad formarum explicationem et per naturalem et rationalem cursum nobis est progrediendum. Natura dat involutas species, antequam tradat easdem explicatas. Similiter Deus, similiter et artes, quae divinum et naturalem ordinem pro dignitate persequntur. Si quibus vero arduum videtur in umbris exerceri et vanitatis suspectum, si per eas ad lucem non pateat accessus, norint talem defectum non esse ab umbris. Norint etiam sat expedire vel involutum tenere, quod nudum non capias».

come componente della conoscenza.

Trattando delle Scritture e dell’assoluta verità degli insegnamenti di Cristo, in polemica contro chi volesse metterli in dubbio rendendoli oggetti del proprio scetticismo, Ficino invita a confidare nella dottrina cristiana e ricorda che anche i grandi filosofi precedenti avevano fondato la loro filosofia sulla fede:

Nihil autem opus est, ut onga disputatione confirmem, quae Christus eiusque discipuli credenda, speranda, agenda proposuerunt. Satis enim veritatis, authoritatisque habent, cum a divina veritate procedere iam probaverimus. Maximam igitur Christianorum institutionum promissionumque rationem assignaverimus, cum Pythagoricorum ritu dixerimus, ille dixit. Meminerimus autem turbari non oportere, si horum minus capaces possimus esse, maximum enim divinitatis eorum signum hoc esse censeo. Nempe si ea mens nostra penitus comprehendit, minora sunt mente; si talia sunt, divina esse non possunt, si enim divina sunt, capacitatem omnem humanae mentis excedunt. Fides, ut vult Aristoteles, est scientiae fundamentum, fide sola, ut Platonici probant, ad Deum accedimus. Credidi inquit David, et propterea sum locutus. Credentes igitur, propinquantesque veritatis, bonitatisque fonti, sapientem beatamque vitam hauriemus.134

Le maggiori scuole filosofiche antiche, osserva Ficino, hanno tutte riservato una fede incondizionata a qualcosa, per esempio all’autorità di un uomo, come i pitagorici a Pitagora, oppure a princìpi conoscitivi universali, come nel caso degli aristotelici, oppure ancora a Dio, come hanno fatto i platonici, intesi naturalmente quali precursori della religiosità cristiana. In analogia con questi filosofi, anzi in virtù di ragioni ancora più forti, il cristiano deve sempre tenere a mente che la verità divina oltrepassa le possibilità di comprensione umane: per avvicinarsi ad essa serve dunque la fede, e le forze della ragione non bastano. Pur richiamandosi a stesse tradizioni, Bruno sviluppa una riflessione ben diversa da quella ficiniana: anziché inserire questo ragionamento in una prospettiva chiaramente cristiana e giustificare in questa chiave il bisogno di affidarsi alle Scritture, il Nolano si arresta a considerare che tutti i sapienti hanno convenuto nel credere ad alcuni princìpi primi che fondano la conoscenza. La sua riflessione, in altre parole, mantiene un taglio gnoseologico rigoroso e fa della fede un momento fondamentale della conoscenza anziché una forma di resa al divino.

Nel mettere a punto questa impostazione teorica, Bruno si richiama alla nozione filosofica di pistis, divenuta fides nel mondo latino, che aveva assunto un ruolo di primo

134 Marsilii Ficini Florentini… Opera, et quae hactenus extitere, et quae in lucem nunc primum

piano già nel pensiero antico e con la quale si era confrontata profondamente la tradizione patristica. Per meglio comprendere la riflessione del Nolano può essere utile fare riferimento ad alcuni testi che egli senza dubbio conosceva; è opportuno, in questo senso, concentrarsi su alcune pagine del Contra Celsum di Origene, autore cui, come si è già visto, Bruno si richiama nelle pagine del De umbris e nell’elaborare la propria concezione dell’ombra. Il filosofo pagano Celso, l’interlocutore polemico di cui Origene riporta le posizioni, condannava la tendenza dei cristiani ad accettare incondizionatamente autorità e princìpi, e paragonava il rapporto tra le autorità cristiane e i fedeli a quello tra gli indovini ingannatori e i loro clienti, i primi intenzionati a mentire, i secondi invece scioccamente inclini a lasciarsi persuadere di qualsiasi assurdità; contro simili aberrazioni, Celso difendeva la ragione e i suoi criteri, sostenendo che essa fosse per l’uomo l’unica fonte affidabile di certezza. La strategia origeniana per contrastare questi argomenti consiste nel rilevare che il pensiero umano ricorre stabilmente alla fede, che essa è ineludibile nella conoscenza e nell’attività dell’insegnamento persino presso i filosofi pagani:

[…] noi accogliamo come utile alla maggior parte degli uomini, e che accettiamo d’insegnare, a quanti non possono abbandonare tutto per applicarsi allo studio della dottrina, ad avere fede senza indagarne gli argomenti; e in realtà anche se essi [i filosofi] non lo ammettono, in realtà fanno proprio così. Chi è mai infatti che rivoltosi allo studio della filosofia ed entrato in qualche scuola di filosofi, o per caso, oppure per essersi imbattuto in un maestro speciale, giunge a questo, senza avere la convinzione che la sua scelta è senz’altro la migliore? Non è certo dopo avere indugiato ad ascoltare gli argomenti di tutti i filosofi e delle diverse dottrine, e le repliche degli uni e la difesa degli altri, che egli in tal modo sceglie di diventare uno stoico, oppure un platonico, oppure un epicureo, o un seguace di qualche scuola filosofica; invece, anche se egli non vuole ammetterlo, è proprio per un impulso fuori della ragione che egli viene spinto ad abbracciare, per fare un esempio, la dottrina stoica, lasciando da parte tutte le altre; oppure quella platonica, disprezzando le altre come più volgari; oppure quella peripatetica, in quanto essa corrisponde meglio alle esigenze umane, e più degli altri sistemi filosofici riconosce il valore dei beni umani. […] Se dunque bisogna avere fede, come il nostro ragionamento ha provato, in qualcuno di quegli uomini che hanno fondato una scuola filosofica in mezzo ai Greci o ai barbari, perché non dobbiamo avere ancor fede maggiore nel Dio che è sommo, ed in colui che ci insegna a venerare Lui solo, a non prestare attenzione alle altre cose, considerandole o non esistenti oppure esistenti e degne di onore, ma non certo degne di adorazione? Riguardo a queste cose, l’uomo che non soltanto ha fede, ma usa altresì la ragione nel suo esame degli argomenti, cercherà di indagare le prove che si presentano spontaneamente a lui e quelle che si trovano in seguito a una ricerca accurata. Come allora non risulta più logico, dal momento che tutte le cose

umane son legate alla fede, che noi prestiamo più fede a Dio che a loro?135

Nell’aderire a una certa scuola filosofica, nell’adottare una particolare prospettiva sul reale, osserva Origene, ogni uomo segue un impulso irrazionale, a partire dal quale la ragione costruisce i propri argomenti; è insomma dalla fede e non dalla ragione che prendono corpo le convinzioni. Chi, ad esempio, non abbia tempo per dedicarsi esclusivamente allo studio, accetta di apprendere certe discipline solo in parte, dandone per scontate intere sezioni, o addirittura i fondamenti. La conoscenza di ogni singolo uomo dunque si fonda dunque sull’incompletezza, e la ragione non si contrappone, ma si innesta sulla credenza. Se la fede è ineludibile, la fede in Dio ne appare la forma più ragionevole, da preferire a ogni altro entusiasmo filosofico. La prospettiva della salvezza eterna, che Celso condannava come irragionevole e arbitraria, a giudizio di Origene contribuisce a rendere la fede cristiana più plausibile di ogni altra:

E difatti chi mai salpa sul mare o si sposa o mette al mondo dei figli, o semina la terra, e non pensa a far questo perché la sua condizione diventi migliore, quantunque possa accadere il contrario, come qualche volta del resto capita in realtà? Pur tuttavia la fede, per cui si pensa che le cose riusciranno secondo il proprio desiderio, fa tentare a tutti gli uomini delle imprese che sono incerte e che potrebbero avere anche un esito diverso da quello voluto. Se dunque la speranza e la fede nella futura buona riuscita delle imprese governa tutte le azioni della vita il cui esito appare incerto, perché non dovrebbe più logicamente, e meglio di quello che pensa a navigare e a seminare la terra, a prendere moglie e a tutte le altre faccende umane, accettar questa fede colui il quale crede in Dio, che ha creato tutte queste cose, e in colui che per mostrare a tutti quelli che sono in ogni parte della terra questa dottrina, con eccelsa elevatezza di mente e con divina grandezza d’animo ha affrontato grandi pericoli e una morte ritenuta ignominiosa, per il bene degli uomini, insegnando così a quelli che in principio persuase a divenire apostoli della sua dottrina, di avere coraggio, in mezzo ai pericoli e alle morti imminenti, di recarsi in ogni parte del mondo, per la salvezza degli uomini?136

Nel Contra Celsum Origene esplora un ulteriore aspetto della nozione corrente di pistis, rilevando che essa non indica soltanto l’adesione arbitraria a convinzioni teoriche: intrecciata alla speranza, la fiducia nelle buone conseguenze del proprio operare spinge infatti l’uomo all’azione, portandolo a mettere a repentaglio ciò che ha, in cerca di un miglioramento. I mutamenti cui gli uomini sottopongono la propria condizione, dunque,

135 ORIGENE, Contro Celso. Opere scelte, a cura di A. COLONNA, Torino 2000, I, §10.

136 Ivi, I, §11. Sulla nozione di fides in Origene, cfr. L. PERRONE, Fede/Ragione, in Origene. Dizionario:

avvengono sempre sulla scorta di qualche forma di fede. In questa prospettiva, osserva Origene, la fede cristiana nella salvezza eterna si mostra la più preziosa e la più ragionevole delle ambizioni umane; la sua credibilità appare garantita dal sacrificio di Cristo e dalle sofferenze degli apostoli, che hanno rischiato e compromesso la propria vita per invitare gli uomini a credere ciò che è massimamente vero.

Se si considera la polemica di Origene contro Celso si può curiosamente rilevare come, in testi diversi, Bruno assuma posizioni vicine a entrambe le parti in causa: nella Cabala, alla maniera di Celso, i bersagli della sua critica sono infatti l’atteggiamento ferino ‘attivo’ dei presunti uomini divini che si fanno portavoce della rivelazione cristiana e quello ‘passivo’ dei fedeli che si prestano a recepire insegnamenti immorali e degradanti; nel De umbris invece, alla maniera di Origene, l’accento batte sul ruolo positivo della fede. Questo slittamento non corrisponde, si è detto, a un cambiamento di posizione, bensì all’insistenza, in diversi luoghi, sull’uso, talvolta nocivo, talvolta costruttivo, della fede.

Si riconferma, in ogni caso, lo scarto profondo tra la concezione del Nolano e quella di Origene: se quest’ultimo si confronta con l’accezione non religiosa della fede, con la nozione di pistis già presente nel lessico filosofico greco, a fini apologetici, per mostrare che il pieno compimento di tale nozione è soltanto la fede cristiana, Bruno riconduce la fede a una riflessione sulla conoscenza.

Una strategia argomentativa simile a quella di Origene era stata adottata anche da Agostino, che era giunto a esaltare la fede cristiana prendendo le mosse dalla necessità in primo luogo filosofica di dare credito a certi contenuti. Dal momento che la riflessione agostiniana si configura come termine di riferimento fondamentale di qualsiasi considerazione sui rapporti tra fede e intelletto, è opportuno richiamarne alcuni passaggi. Consapevole dell’impossibilità di esaurire i riferimenti e la complessità di tale riflessione, mi limito qui a rimandare innanzitutto al De utilitate credendi, dove Agostino insiste con forza sulla mai completa indipendenza delle facoltà superiori umane dalla fede. Egli prende le mosse dallo stesso versetto di Isaia richiamato da Bruno; il monito a premettere la fede alla comprensione è applicato, ben diversamente da quanto farà poi il Nolano,

all’esegesi biblica, e impiegato per confutare i manichei.137

Agostino si preoccupa di affrancare l’atto del credere da qualsiasi reputazione di vizio o imperfezione: sottomettersi a un’auctoritas, abdicando per certi aspetti alla propria capacità di giudizio, non è un atto di debolezza o un demerito. Per contestare la tesi manicheista che si debba credere solo a ciò di cui si ha percezione diretta, egli distingue gli atti conoscitivi in atti propri della conoscenza, della credenza e dell'opinione, e mostra come l'uomo giunga alla verità dando l'assenso a cose che stanno fuori dalla sua portata.

Il testo prende le mosse da questioni esegetiche: i manichei, poiché leggono le Scritture, e l'Antico Testamento attenendosi alla sola lettera del testo, non colgono in esso alcuna traccia di sacralità o verità.138 Di contro, Agostino afferma che non credere annulla

le capacità di interpretare: «Nam vero religio, nisi credantur ea quae quisque postea, si se bene gesserit dignusque fuerit, assequatur atque percipiat, et omnino sine quodam gravi auctoritatis imperio inire recte nullo pacto potest».139 La fede è momento cruciale,

ineludibile del percorso di avvicinamento alle verità religiose, e la sua assenza preclude qualsiasi risultato positivo.

A questo proposito, Agostino invita a distinguere tra credulo e credente: è credulo, dunque biasimevole, chi accorda il proprio assenso arbitrariamente, senza una progettualità o un obiettivo nobile; è invece credente, e degno di lode, chi con pertinacia presta fede a verità profonde. In questa seconda accezione, la fede non è un vizio, anzi ha un ruolo fondativo ed è capace di regolare la vita umana anche al di fuori della religione.140

137 AGOSTINO D’IPPONA, De utilitate credendi, CSEL, XXV, (ed. J. ZYCHA, 1891), pp. 3-48, 1.2: «Quid

enim me aliud cogebat, annos fere novem, spreta religione quae mihi puerulo a parentibus insita erat, homines illos sequi ac diligenter audire; nisi quod nos superstitione terreri, et fidem nobis ante rationem imperari dicerent, se autem nullum premere ad fidem, nisi prius discussa et enodata veritate? […] Sed quae rursum ratio revocabat, ne apud eos penitus haererem, ut me in illo gradu quem vocant Auditorum tenerem, ut huius mundi spem atque negotia non dimitterem; nisi quod ipsos quoque animadvertebam plus in refellendis aliis disertos et copiosos esse, quam in suis probandis firmos et certos manere?». Agostino ammette di aver aderito al manicheismo in gioventù perché attratto dalle polemiche rivolte alla nozione di fede; già allora, non era però stato del tutto persuaso dalle idee della setta, trovandola più capace di criticare che di costruire.

138 Ivi, 2.4: «Nam bene nosti quod reprehendentes Manichaei catholicam fidem, et maxime Vetus

Testamentum discerpentes et dilaniantes, commovent imperitos: qui profecto nesciunt quatenus sint accipienda illa, et quemadmodum hausta utiliter in venas quasi vagientium adhuc animarum medullasque descendant. Et quia sunt ibi quaedam quae suboffendant animos ignaros et negligentes sui, quae maxima turba est, populariter accusari possunt: defendi autem populariter, propter mysteria quae his continentur, non a multis admodum possunt».

139 Ivi, 9.21. Come è noto, contro i manichei Agostino ritiene che ci siano quattro modi di leggere la

Scrittura, lo storico, eziologico, analogico e allegorico; cfr. ivi, 3.6-9.

Per Agostino la fede positiva riguarda due tipi di contenuto, ciò che ancora non si sa e ciò che in assoluto non si può sapere, perché trascende la possibilità umana di conoscere: in questo senso, Paolo ha giustamente rilevato che la fede riguarda ciò di cui non si ha diretta conoscenza.141 Nel primo senso, la fede apre le porte alle comprensione, si

configura come una conoscenza intuitiva che consente all’uomo di maturare una consapevolezza fondata, un sicuro possesso del vero: a questo riguardo, afferma

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