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Gli editti arcivescovili: un quadro generale sulle pratiche devozionali cittadine.

Una delle migliori fonti per cercare di capire l’insieme delle devozioni e per provare a cogliere le idee che stavano dietro di esse è costituita dagli editti promulgati dagli Arcivescovi di Lucca. Come già ricordato in precedenza, essi erano soltanto il punto di arrivo del processo di organizzazione dei culti, ma, d’altra parte, contengono numerose informazioni in più rispetto alle scarne relazioni e delibere delle magistrature civili. Prenderemo in esame, in prima istanza, alcuni bandi emanati dall’Arcivescovo Fabio di Colloredo (1672 – 1742), discendente della nobile casata friulana e appartenente alla Confederazione dell’oratorio di San Filippo Neri1.

È ovvio che i pericoli più ricorrenti per il sostentamento dei cittadini e degli abitanti delle vicarie fossero costituiti dalle avversità atmosferiche. Per le città il rischio era doppio, in quanto non solo incombeva la minaccia diretta di una carestia, ma anche di tutte le conseguenze che essa si portava dietro, quali il rischio di un afflusso in massa di diseredati provenienti dalle campagne e il pericolo di diffusione delle epidemie. Ne consegue che la maggior parte degli editti arcivescovili sia dedicato alle devozioni messe in atto per preservare i raccolti dalla pioggia eccessiva, dalla siccità e da altri dannosi eventi atmosferici, ma non per questo dobbiamo pensare che mancassero sconvolgimenti di altro tipo.

Nel 1740 un flagello si abbatté sulla Repubblica: il terremoto2. Nella concezione del tempo esso era visto come un castigo divino, forse uno dei più terrificanti, un modo per punire i fedeli per i loro peccati. Un grande senso di smarrimento e d’impotenza serpeggia nel documento scritto dal Colloredo: nonostante gli avvertimenti non si era provveduto a correggere i propri peccati, quindi bisognava assolutamente intervenire con ulteriori dimostrazioni di pietà, onde evitare il ripetersi delle scosse. Per tre giorni dovranno essere esposti il Santissimo in cattedrale, le reliquie di san Paolino e di san Frediano nelle loro chiese, l’immagine della Vergine dei Miracoli in San Pier Maggiore e nella chiesa del Crocifisso dei Bianchi “la Immagine di esso”. I rettori delle parrocchie cittadine dovranno andare all’adorazione eucaristica in San Martino e a visitare le altre chiese assieme ai loro fedeli. Non venivano trascurate neppure le devozioni individuali: con un solenne richiamo alla contrizione e al pentimento per le proprie mancanze erano concessi quaranta giorni di indulgenza a chi si fosse unito con le sue preghiere e avesse visitato le chiese sopracitate.                                                                                                                

1  R. Ritzler, P. Sefrin, op. cit., volume sesto, p. 265.  

2 Nel libro dell’Opera della chiesa parrocchiale di Pieve Fosciana troviamo traccia di questo sisma. Alla data

del 6 aprile 1740 troviamo le spese “(...) per gesso da presa libbre 363 servito alle volte della Chiesa rovinate dal terremoto venuto li 6 marzo scorso e per calcina staia due in tutto” (APPF, Opera).

Naturalmente non era trascurato il resto della Diocesi, solo che qui era lasciata ampia libertà d’iniziativa ai parroci3. Dovevano essere state delle scosse importanti, giacché al tempo circolava la voce che fossero state responsabili della scomparsa di una sorgente termale nei pressi di Castelnuovo di Garfagnana4.

Purtroppo fu tutto inutile. Due mesi dopo la situazione non era per niente migliorata, anzi, pareva aver preso una piega decisamente peggiore: freddo fuori stagione, tempeste di vento e grandinate stavano rovinando i prodotti della terra. Era un chiaro segno della collera divina, che poteva essere placata solamente con l’accostamento al sacramento della Riconciliazione, le preghiere personali e le devozioni pubbliche5 . Simili le dinamiche dell’agosto dell’anno successivo, quando l’Arcivescovo Colloredo dovette fronteggiare una nuova, drammatica, emergenza: la siccità. L’approccio vide sempre una forte componente penitenziale, ma con un numero minore di celebrazioni rispetto al terremoto del 17406.

Molto interessante l’editto del gennaio 1742, promulgato in seguito alla prosecuzione delle scosse. Subito il Colloredo si sentì in dovere di contrastare un’opinione che si andava diffondendo al tempo, cioè che i terremoti “sieno semplici effetti delle cause naturali, come non senza nostra gran pena abbiamo inteso dirsi con manifesto errore da alcuno”. Paragonato a quanto accaduto a Roma in seguito al terremoto del 1703, siamo di fronte a due atteggiamenti per certi versi simili, per altri diversi. La “città eterna” fu fatta tremare a più riprese da onde sismiche, che allarmarono pure il pontefice di allora, Clemente XI, il quale agì in due direzioni: non solo si occupò dell’aspetto devozionale della vicenda (concessioni di indulgenze, indizione di un giubileo per il 1704, ... ), ma ordinò che fossero fatte delle ricerche scientifiche per vedere se fosse possibile prevedere future scosse, in modo tale da provare a placare l’ondata di isteria collettiva che aveva colpito il popolo7. Effettivamente l’inizio del XVIII secolo fu molto travagliato per lo Stato pontificio, tra i timori causati dalla guerra di successione spagnola, che arrivò a lambire anche lo Stato della Chiesa, l’eruzione del Vesuvio del 1702, che causò scosse di terremoto avvertite anche a Roma e il lungo sciame sismico del 1703 – 17058.

                                                                                                               

3 ASLu, Editti Vescovili – Offizio sopra la giurisdizione, 186, bando dell’11 – 03 – 1740. 4 D. Pacchi, op. cit., p. 199.

5 ASLu, Editti Vescovili – Offizio sopra la giurisdizione, 186, bando dell’11 – 05 – 1740. 6 ASLu, Editti Vescovili – Offizio sopra la giurisdizione, 186, bando del 23 – 08 – 1741.

7 L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo: compilata col sussidio dell’Archivio Segreto

Pontificio e di molti altri archivi. Dall’elezione di Clemente XI sino alla morte di Clemente XI, Editore

Desclée e C., Roma, 1962, vol. 15, pp. 375 – 379; per quanto riguarda le devozioni adottate da papa Clemente XI si veda: M. P. Donato, Morti improvvise: Medicina e religione nel Settecento, Carocci editore, Roma, 2010, pp. 28 – 29.

Il periodo dell’anno che creava più problemi di ordine pubblico e che dava spesso motivo agli ecclesiastici di gridare allo scandalo era il carnevale9, quando il popolo perdeva i freni inibitori e bevute, baruffe e molteplici occasioni di promiscuità erano all’ordine del giorno. La Chiesa era solita intervenire in due modi: introducendo pratiche religiose, in modo da non far dimenticare ai fedeli il significato religioso di quel tempo10, oppure vietando tout court le baldorie. Un esempio del secondo tipo di approccio lo abbiamo nell’editto dell’Arcivescovo Colloredo emanato il 31 gennaio 1741: non si giunse a proibire il carnevale, competenza che tra l’altro non spetterebbe alla curia, bensì alle magistrature cittadine, ma venne esecrato con parole molto dure e si sconsigliò vivamente al popolo cristiano la partecipazione alle gozzoviglie11.

Non cambiò il registro dei proclami del suo successore Giuseppe Palma (in carica dal 1743 al 1761)12, il quale addirittura li arricchì di numerose citazioni bibliche a suffragio delle sue argomentazioni. Egli mirava a evidenziare il nesso fra le disgrazie che flagellavano l’Europa in quel tempo, come ad esempio la guerra di successione austriaca, e le mancanze del popolo cristiano. Può essere preso ad esempio di queste tendenze lo scritto di Mons. Palma che fungeva da introduzione al bando di proclamazione di un Giubileo straordinario indetto da papa Benedetto XIV, le celebrazioni cittadine del quale avrebbero avuto luogo in cattedrale e nelle chiese di San Francesco e di San Romano13.

Altre occasioni parecchio movimentate erano costituite dalle celebrazioni della Settimana Santa, le quali coinvolgevano torme di fedeli in qualsiasi parte d’Italia. Come già detto in precedenza, esse erano improntate a una notevole spettacolarità, di cui possiamo trovare tracce in manifestazioni sopravvissute ancora ai giorni nostri, ma proprio questo loro carattere, unito al gran concorso di folla, molto facilmente faceva insorgere disordini di vario genere. Anche i pontefici avevano preso coscienza di questo problema, si pensi al divieto di fare processioni notturne a San Pietro emanato da papa Urbano VIII14: non potevano di certo mancare provvedimenti simili nell’Arcidiocesi lucchese. Nel 1752 Mons. Palma dedicò la sua attenzione a questo problema: già erano state                                                                                                                

9 Si pensi alle dure condanne da parte del teatino Sant’Andrea Avellino, il quale, secondo la testimonianza

del suo biografo Padre Gaetano Maria Magenis C. R., in tempo di carnevale era solito cadere nel pianto per i peccati che la gente avrebbe commesso durante le baldorie; tutto ciò non lo faceva desistere dalla sua missione, dato che in questo periodo dell’anno aumentava i suoi sforzi nella propaganda di culti penitenziali e dell’adorazione eucaristica (v. G. M. Magenis, Vita di S. Andrea Avellino chierico regolare, per Marco Vendramino e compagno, Brescia, MDCCXXXIX, pp. 20 – 21, p. 149, p. 197).

10 Per un esempio dell’introduzione delle Quarantore e dell’adorazione eucaristica in tempo di carnevale con

funzione disciplinante si veda: C. Russo, Chiesa e comunità nella diocesi di Napoli tra Cinque e Settecento, Guida editori, Napoli, 1984, p. 391.

11 ASLu, Offizio sopra la giurisdizione, 186 – Editti Vescovili, bando del 31 – 01 – 1741. 12 R. Ritzler, P. Sefrin, op. cit., volume sesto, p. 223.

13 Ad esempio il bando del 26 dicembre 1744, con cui ordinava nella sua Arcidiocesi le devozioni da farsi in

occasione del Giubileo proclamato da papa Benedetto XIV (ASLu, Editti Vescovili – Offizio sopra la

giurisdizione, 186, bando del 26 – 12 – 1744).

proibite le messe che venivano celebrate prima del sorgere del sole, ma dal dicembre di quell’anno il veto cadde pure su altre pratiche, come l’eccessiva durata degli orari di apertura degli edifici sacri i giorni delle feste ed altre irregolarità nella celebrazione dei battesimi, quali la mancanza di accertamenti sullo status dei “compari” e delle “commari” sospettati di intrattenere pratiche scandalose fra di loro15.

Accadeva talvolta che eventi eccezionali arrivassero a sconvolgere la rigida dieta che i fedeli dovevano tenere durante il periodo di Quaresima, quando era obbligatorio mangiare “di magro”, astenendosi dal consumare alcuni cibi. Nel 1757 si verificò una grande penuria di pesce salato16 e il poco presente sul mercato era o troppo caro o di qualità scarsissima: fu necessario inoltrare una supplica al pontefice perché concedesse una speciale dispensa per i lucchesi e gli abitanti del contado perché potessero cibarsi di uova e latticini, fermo restando il rispetto del digiuno i primi quattro giorni della Quaresima, le Tempora, le vigilie, i venerdì, i sabati, la domenica delle Palme e tutta la Settimana Santa17.

Seppur non coinvolta direttamente nelle guerre contro gli Ottomani combattute lungo il corso del ‘700 nella penisola balcanica, i lucchesi non potevano esimersi dal supportare le armi imperiali con le loro preghiere. Pur essendosi abbastanza attenuato il pericolo turco, esso non poteva considerarsi del tutto cessato; inoltre il ricordo dei razziatori che più volte nel corso dei tempi passati avevano saccheggiato la Versilia era sicuramente ancora vivo. Sotto l’arcivescovato di Fabio di Colloredo fu pubblicata la lettera apostolica di papa Clemente XII, datata 15 aprile 1739, che concedeva l’indulgenza a chi si fosse dedicato al sostegno spirituale di questa nuova crociata austro – russa. Naturalmente anche a livello locale bisognava dare attuazione a queste disposizioni: le tre chiese cittadine dedicate alle devozioni furono, come al solito, la cattedrale, San Romano e San Frediano, visitando le quali i fedeli avrebbero potuto godere degli stessi privilegi concessi durante il Giubileo dell’Anno Santo. Era data ampia libertà sul tipo di devozioni cui i fedeli potevano partecipare, l’unica imposizione consisteva nell’esposizione della “Colletta”, nella quale tutti potevano depositare le elemosine che sarebbero state destinate a opere di carità18.

                                                                                                               

15 ASLu, Editti Vescovili – Offizio sopra la giurisdizione, 186, lettera ai parroci datata 01 – 12 – 1752.   16 Non è improbabile che tale scarsezza sia dovuta alla diminuzione di esportazioni di questo prodotto da

parte dei commercianti nordeuropei, che in questo periodo si trovavano ad affrontare il conflitto che prenderà il nome di “Guerra dei sette anni”.

17 ASLu, Editti Vescovili – Offizio sopra la giurisdizione, 186, bando del 15 – 02 – 1757. 18 ASLu, Editti Vescovili – Offizio sopra la giurisdizione, 186, bando del 14 – 05 – 1739.  

La riduzione delle feste rurali: problemi economici e di ordine