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GLI EFFETTI DELLE CREDENZE SULLA REALTÀ

«Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena»193.

80 3.1) Religione e natura umana

A definire la distanza che separa l’uomo dalla bestia subentra un attributo che, per ragioni argomentative, non era stato ancora menzionato: la religione. Con l’introduzione di quest’ultimo elemento il quadro della differenza antropologica risulta finalmente completo e, di conseguenza, è possibile cogliere in modo compiuto e definitivo l’immagine dell’essere umano consegnataci dall’opera del 1651. Nella concezione hobbesiana, dunque, la religione, lungi dall’essere un fenomeno culturale che si impone all’uomo dall’esterno, affonda le sue radici nella natura umana, descrivendone la specificità194. Delle credenze religiose, in

altri termini, Hobbes rivendica innanzitutto l’origine antropologica195,

indicandone il legame, più o meno diretto, con la passione della curiosità. Il terreno comune alle varie forme di religione, infatti, è costituito dal desiderio di conoscere le cause196, che può o tradursi in vera conoscenza o arrestarsi a una condizione di ignoranza. La complessità e la diversificazione del fenomeno religioso, in questa accezione, dipendono sia dagli strumenti utilizzati nella ricostruzione delle catene causali sia dall’effettiva corrispondenza dei risultati raggiunti alla verità. Superstizione e vera religione, dunque, seppur estremamente diverse nelle loro concrete configurazioni e nei contenuti, condividono la stessa matrice.

Dalla curiosità deriva, attraverso la mediazione del semplice lume naturale, il «riconoscimento di un Dio eterno, infinito e onnipotente»197. La passione per la conoscenza, infatti, è il fondamento di un’indagine razionale che, procedendo dalle cause prossime a quelle più lontane, conduce necessariamente alla convinzione che esista un Dio come primo motore, causa incausata di tutte le

194 Cfr. A. Lupoli, Thomas Hobbes, potere e teologia, in «Scienza & Politica»,vol. XXXI, n. 60,

2019, p. 120. Vedi anche F. Izzo, Forme della modernità – antropologia, politica e teologia in

Thomas Hobbes, Laterza, Bari 2005, p. 198.

195 «Visto che non ci sono segni, né frutto della religione se non nell’uomo solamente, non c’è

motivo di dubitare che anche il seme della religione sia solamente nell’uomo; esso consiste in qualche qualità peculiare, o almeno in qualche grado eminente di essa, che non si trova in altre creature viventi» (Leviatano, p. 110).

196 «In primo luogo, è peculiare alla natura degli uomini porsi alla ricerca delle cause degli eventi

che vedono, alcuni più, altri meno, ma tutti quel tanto per essere curiosi di ricercare le cause della propria buona e cattiva fortuna. In secondo luogo, alla vista di qualcosa che ha un inizio, pensare che abbia avuto una causa che ne ha determinato l’inizio proprio in quel momento, piuttosto che prima o dopo» (Ibidem).

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cose198. L’esistenza di un First Mover è così il «frutto di un’inferenza logicamente necessaria»199, senza la quale non sarebbe possibile chiudere la ricostruzione delle catene causali200. La rivelazione soprannaturale, pertanto, non è l’unica via attraverso cui giungere a una qualche conoscenza del divino: l’essere umano, guidato dalla sola ragione, può ammettere l’esistenza di Dio201 e riconoscerne

l’infinità, l’eternità e l’onnipotenza202. Questi attributi possono essere colti

indipendentemente dalla rivelazione e, perciò, la loro individuazione costituisce il contenuto fondamentale della conoscenza razionale che si può avere di Dio. Tramite la ragione, inoltre, è possibile riconoscere in Dio l’autore delle leggi di natura e, di conseguenza, il legislatore morale del genere umano203.

Sulla base di queste verità colte razionalmente, viene anche a determinarsi, nei suoi contenuti specifici, il culto che gli uomini devono tributare a Dio, per la sua onnipotenza e sovranità204. La ragione naturale, in altri termini, ci permette di conoscere attraverso quali parole e azioni dobbiamo rendere onore al creatore di tutto ciò che esiste, nonché legislatore morale e sovrano del genere umano. Oltre all’esistenza, l’eternità e l’infinità, il culto naturale che deve esser tributato a Dio

198 Non essendo possibile retrocedere all’infinito nella ricostruzione delle catene causali, l’essere

umano deve necessariamente riconoscere, per via razionale, l’esistenza di un primo motore: «Infatti, colui che da un qualunque effetto che vede accadere, ragionasse sulla causa prossima e immediata di esso, e quindi sulla causa di quella causa, e si immergesse profondamente nel perseguire le cause, giungerà alla fine a questo, che ci deve essere (come confessavano anche i filosofi pagani) un primo motore, cioè una causa prima ed eterna di tutte le cose, che è ciò che gli uomini vogliono dire con il nome di Dio» (Ivi, p. 112). Sull’affinità tra la dimostrazione dell’esistenza di Dio fornita da Hobbes e la via ex causa di Tommaso D’Aquino, vedi A. P. Martinich, The two Gods of Leviathan: Thomas Hobbes on religion and politics, Cambridge University Press, Cambridge 1992, p. 194.

199 A. Lupoli, Thomas Hobbes, potere e teologia, in «Scienza & Politica»,vol. XXXI, n. 60, 2019,

p. 121.

200 Vedi Leviatano, p. 108. Su questo tema, A. Pacchi scrive: «C’è in effetti nelle opere di Hobbes

qualcosa che ha l’aspetto di una prova dell’esistenza di Dio, la classica prova a posteriori che va dall’effetto alla causa: il mondo è un tutto meccanico in cui gli eventi sono connessi tra loro da rapporti causali necessari, e non essendo possibile risalire all’infinito della concatenazione delle cause, ci si dovrà fermare a una causa prima, e questa è quella che chiamiamo Dio» (A. Pacchi,

Hobbes e la potenza di Dio, in Scritti hobbesiani, a cura di A. Lupoli, Franco Angeli, Milano

1990, p. 72).

201 Già nell’opera del 1642 il filosofo affermava: «per lume naturale si può sapere che Dio esiste»

(De cive, p. 98)

202 Leviatano, p. 111.

203 Tra i numerosi passi in cui le leggi naturali vengono definite come leggi divine vedi ivi, p. 293-

377-380. Su questo tema vedi anche A. P. Martinich, The two Gods of Leviathan: Thomas Hobbes

on religion and politics, Cambridge University Press, Cambridge 1992, p. 113 e sgg.

204 Vedi Leviatano, pp. 383 e sgg. Sul tema del culto naturale di Dio, vedi G. Wright, Authority

and Theodicy in Hobbes’s Leviathan, in Nuove prospettive critiche sul Leviatano di Hobbes, nel 350° anniversario di pubblicazione, a cura di L. Foisneau e G. Wright, Franco Angeli, Milano

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impone di riconoscerne anche la provvidenza. Nel capitolo XXXI del Leviatano, infatti, dove si parla del «culto di Dio che ci è insegnato dal lume naturale»205, leggiamo: «[…] quelli che, attribuendo (come pensano) a Dio l’ozio, gli tolgono la cura dell’umanità, gli tolgono il suo onore, poiché si leva l’amore degli uomini e il timore che essi hanno, cosa che è la radice dell’onore»206. In questo modo,

Hobbes prende posizione contro le teorie – come quella di Aristotele o degli Epicurei – che concepiscono un Dio indifferente alle cose umane, misconoscendo la sua legiferazione.

La ragione naturale, tuttavia, non consente di pervenire a una qualche idea o immagine della natura di Dio:

Infatti, come un uomo che è nato cieco, udendo degli uomini che discorrono di scaldarsi con il fuoco, ed essendo portato a scaldarsi egli stesso con il medesimo, può agevolmente concepire ed assicurarsi che c’è qualcosa che gli uomini chiamano fuoco e che è la causa del calore che egli sente, ma non può immaginare a che cosa è simile, né avere un’idea di esso nella mente, come l’hanno coloro che la vedono; così anche dalle cose visibili di questo mondo, e dal loro mirabile ordine, un uomo può concepire che c’è una causa di esse, che gli uomini chiamano Dio, e pure non avere nella mente un’idea o immagine di lui. [Leviatano, p. 108]

La conoscenza razionale di Dio, perciò, si esaurisce nel riconoscimento della sua esistenza e onnipotenza: «non c’è, infatti, che un nome per significare la nostra concezione della sua natura, e cioè, IO SONO: e un nome per la sua relazione con noi, e cioè Dio, che comprende il padre, il re e il signore»207. Hobbes descrive così il contenuto di una religione che, costituita indipendentemente dalla rivelazione, può dirsi naturale. Benché sia potenzialmente accessibile a tutti gli esseri umani, questa forma di religione, di fatto, non trova grande diffusione: essa presuppone una postura scientifica che

205 Leviatano, p. 383. 206 Ivi, pp. 383-384. 207 Ivi, p. 385.

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solo pochi individui riescono ad assumere208. La ricerca delle cause degli eventi, infatti, viene solitamente motivata non dall’amore per la conoscenza, ma dall’interesse per la propria sorte209. Tuttavia, il riconoscimento dell’esistenza di

un primo motore «può più facilmente essere derivato dal desiderio che gli uomini hanno di conoscere le cause dei corpi naturali e delle loro diverse virtù ed operazioni, che dal timore di ciò che accadrebbe loro nel tempo avvenire»210. La preoccupazione per la propria sorte futura, infatti, «ostacola la ricerca delle cause delle altre [cose] e perciò dà occasione di fingersi tanti dèi quanti sono gli uomini che li immaginano»211. La religione naturale, pertanto, si configura come una religione degli intellettuali, accessibile attraverso un percorso razionale che pochi riescono effettivamente a intraprendere212.

Largamente più diffusa è invece quella forma di religione che non scaturisce direttamente dalla curiosità, ma dal sentimento di ansietà che questa passione genera213:

Questo perpetuo timore che accompagna sempre l’umanità nell’ignoranza delle cause come se fosse nelle tenebre, deve necessariamente avere qualcosa per oggetto. Perciò quando non c’è nulla da vedere, non c’è nulla da accusare per la propria buona o cattiva fortuna, se non qualche potere, o agente invisibili; era forse in questo senso che alcuni poeti antichi dicevano che gli dei furono dapprima creati dal timore umano, la qual cosa detta degli dèi (cioè dei molti dèi dei Gentili) è verissima. [Leviatano, p. 113]

L’ansietà per l’avvenire e l’incapacità di conoscere le cause della propria buona o cattiva sorte, dunque, spingono gli uomini a immaginare l’esistenza di

208 «the hunt for the end of the chain of causes and effects is characteristic, not of the superstitious

person, but of the scientific mind» (A. P. Martinich, The two Gods of Leviathan: Thomas Hobbes

on religion and politics, Cambridge University Press, Cambridge 1992, p. 194).

209 «In primo luogo, è peculiare alla natura degli uomini porsi alla ricerca delle cause degli eventi

che vedono, alcuni più, altri meno, ma tutti quel tanto per essere curiosi di ricercare le cause della propria buona e cattiva fortuna» (Leviatano, p. 110).

210 Ivi, p. 111-112. 211 Ivi, p. 112.

212 Vedi D. D’Andrea, Curiosità, linguaggio e ansia. L’uomo del “Leviatano” tra differenza

antropologica e forme di soggettività, in «Dianoia», 30, (in press).

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poteri e spiriti invisibili, credendo che queste entità, generate dalla loro fantasia, abbiano una qualche influenza sulla loro vita214. Le vere cause degli eventi, laddove non possano essere conosciute razionalmente, vengono così determinate in modo del tutto fittizio e arbitrario. In questa accezione, la religione si configura come un dispositivo finalizzato a neutralizzare l’ansietà per il futuro. La creazione fantasiosa degli dèi, infatti, compensa l’ignoranza delle vere cause e, di conseguenza, sostituisce all’ansia per l’avvenire il timore verso entità fittizie. Quell’ambito temporale incerto e indeterminato viene così a popolarsi di spiriti e demoni di ogni sorta, ai quali gli uomini attribuiscono una grande importanza per il loro destino. L’individuo superstizioso, perciò, non è afflitto dall’ansietà per un futuro inconoscibile, ma dal timore per quelle potenze che lui stesso ha creato. La credenza negli spiriti – esattamente come l’incremento indefinito e smisurato del potere individuale215 – è una strategia volta a contrastare l’assoluta indeterminatezza del tempo a venire. L’essere umano, in altri termini, sebbene sia sprovvisto di strumenti con cui domare conoscitivamente il futuro, può quietare la sua ansietà, trasformandola, ad esempio, in timore.

Solo a questo punto della nostra disamina, attraverso l’introduzione della religione, possiamo comprendere, nel suo concreto funzionamento, un concetto che abbiamo più volte menzionato e ampiamente descritto: la plasmabilità della natura umana. Le credenze superstiziose, infatti, sono in grado di agire su quella stessa condizione di ansietà dalla quale hanno origine, convertendola in timore. L’ansia per l’avvenire, di conseguenza, non è un attributo costante e immutabile della natura umana, ma una condizione emotiva che può essere trasformata o neutralizzata. Allo stesso modo, la sollecitudine, intesa come espansione illimitata del fabbisogno di potere, è esposta all’azione di processi che ne modificano la struttura. L’insegnamento di Gesù e degli apostoli, infatti, innescando dei processi di soggettivazione che la religione dei Gentili e le altre credenze superstiziose non possono realizzare, è stato capace di generare individui assolutamente disinteressati al potere. Il timore verso delle entità demoniache, del resto, benché

214 Su questo tema vedi K. Schuhmann, Phantasms and Idols: true philosophy and wrong religion

in Hobbes, in Nuove prospettive critiche sul Leviatano di Hobbes, nel 350° anniversario di pubblicazione, a cura di L. Foisneau e G. Wright, FrancoAngeli, Milano 2004, pp. 15-31.

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si sostituisca all’ansietà, non può alterare la configurazione del desiderio umano, ma la speranza nella salvezza eterna e la fede in un Dio buono e paterno vanificano la ricerca di un incremento indefinito del potere individuale. Agli effetti di soggettivazione prodotti dal cristianesimo, tuttavia, riserveremo un’analisi più dettagliata nel paragrafo terzo di questo capitolo. Per adesso è sufficiente constatare come la natura umana, nel sistema antropologico hobbesiano, lungi dal corrispondere a una struttura statica e definibile una volta per tutte, sia dinamica e plasmabile, poiché esposta all’azione delle credenze religiose. L’ansietà per l’avvenire, l’illimitatezza del desiderio di potere e, di conseguenza, la propensione al conflitto216 non definiscono una raffigurazione immutabile e universalmente valida dell’essere umano, ma una configurazione antropologica che può essere radicalmente modificata.

Religione naturale e superstizione – come abbiamo visto – condividono la stessa matrice antropologica: il desiderio di conoscere le cause. Le diversità tra queste due forme di religione, pertanto, dipendono dalla specifica declinazione del loro fondamento emotivo e dai diversi strumenti coinvolti nella loro costituzione. Il riconoscimento di un Dio eterno, infinito e onnipotente, infatti, procede da una speculazione razionale motivata dalla curiosità come amore per la conoscenza; la creazione di spiriti e demoni è invece il prodotto della fantasia umana suggestionata dall’ansietà per il futuro217. La superstizione, in altri termini, deriva solo indirettamente dal desiderio di conoscere le cause, poiché trova nell’ansietà il suo fondamento più prossimo.

Dalla radice antropologica dell’ansia per il futuro scaturisce anche, per mezzo della rivelazione soprannaturale, una fede religiosa che eccede il riconoscimento razionale di un First Mover e il cui contenuto è conforme alla verità. Si tratta della fede nell’unico vero Dio, che, rivelandosi prima ad Abramo e poi a Mosè, fece del popolo ebraico il suo regno particolare e che «mandò nel mondo suo figlio Gesù Cristo per redimere l’umanità dai suoi peccati e portarla

216 La disposizione al conflitto, infatti, come è stato mostrato nel capitolo precedente (vedi, supra,

pp. 75 e sgg.), trova la sua giustificazione nella sollecitudine per l’avvenire.

217 Cfr. G. Wright, Authority and Theodicy in Hobbes’s Leviathan, in Nuove prospettive critiche

sul Leviatano di Hobbes, nel 350° anniversario di pubblicazione, a cura di L. Foisneau e G.

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nel suo regno sempiterno»218. La religione dei Gentili e quella ebraico-cristiana, perciò, ebbero entrambe origine dall’ignoranza delle cause e dal sentimento di ansietà che affligge l’essere umano. La prima, tuttavia, fu opera di uomini che usarono «la propria invenzione», la seconda di coloro che agirono sotto «il comando e la direzione di Dio», ma in entrambi i casi il proposito fu quello «di rendere più atti all’obbedienza, alle leggi, alla pace, alla carità e alla società civile quegli uomini che contavano su di loro»219. La religione ebraico-cristiana,

dunque, si distingue dalla superstizione perché i suoi contenuti, lungi dall’essere il prodotto dell’immaginazione umana, furono trasmessi da Dio per mezzo della rivelazione. In questo modo, vennero comunicate delle verità che l’uomo non avrebbe potuto cogliere attraverso le sue facoltà razionali. Il cristianesimo, infatti, non è solo il riconoscimento di un Dio eterno, infinito e onnipotente, ma la promessa della vita eterna nel Regno dei Cieli. La fede cristiana, pertanto, veicola, da una parte, ciò che potrebbe essere compreso attraverso l’uso della semplice ragione, dall’altra, una verità inaccessibile per via razionale. La religione dei Gentili, al contrario, non eccede la ragione umana, ma la contraddice, costituendosi sul timore di potenze invisibili che non esistono realmente. Nonostante queste differenze, entrambe le religioni sono in grado di retroagire sul loro fondamento antropologico, trasformandone più o meno radicalmente la struttura. Se le credenze dei Gentili sostituiscono alla percezione ansiosa dell’avvenire il timore di spiriti e demoni, la fede cristiana converte l’ansia e la sollecitudine per il futuro nella speranza della salvezza eterna, costituendo soggetti disinteressati all’incremento del loro potere. Come vedremo nel terzo paragrafo di questo capitolo, infatti, il messaggio cristiano, nella sua configurazione originaria e incorrotta, fu capace di produrre una forma di soggettività estremamente eccentrica rispetto alla caratterizzazione della natura umana consegnataci nella prima parte del Leviatano ed efficacemente riassunta nella figura di Prometeo. L’immagine di un individuo afflitto dall’ansietà e sollecito al tempo a venire, in altri termini, non corrisponde a una descrizione estendibile all’intero genere umano, ma a una configurazione di cui il potere delle credenze religiose rivela la contingenza. La religione, dunque, è non solo un

218 Leviatano, p. 513. 219 Ivi, p. 115.

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tassello della differenza antropologica, ma anche quel processo che ne modifica la struttura. Prima di procedere con la descrizione della soggettività proto-cristiana, tuttavia, ci soffermeremo ulteriormente sul rapporto tra religione e speranza, con l’intento di segnalare la distanza che separa la riflessione hobbesiana sul fenomeno religioso dal paradigma realista.

3.2) Dall’ansietà alla speranza

Hobbes ricondusse l’origine della religione alla paura nata dall’ignoranza delle cause naturali, sostituite con potenze invisibili. Era questo un tema centrale della filosofia di Epicuro, ripreso da Lucrezio nel suo grande poema sulla natura delle cose. Un celebre motto di origine epicurea affermava: Primus in

orbe deos fecit timor, a creare gli dèi è stata, prima di tutto, la

paura220.

Con queste parole, Carlo Ginzburg relega la riflessione hobbesiana sull’origine della religione a una corrente di pensiero che vede in Epicuro il suo caposcuola. Il filosofo di Malmesbury, secondo lo storico torinese, avrebbe pensato il fenomeno religioso nel suo rapporto con la paura, riprendendo pedissequamente una dottrina risalente all’antichità. Questa caratterizzazione dell’analisi della religione fornitaci da Hobbes, benché generalmente accreditata dalla letteratura critica, ne amputa la peculiarità. È indubbiamente vero che Hobbes, nel capitolo XII del Leviatano, pensando a Petronio e Stazio più che a Epicuro, ricorre al motto primus in orbe deos fecit timor, ma lo fa in riferimento alle credenze superstiziose dei pagani e non alla religione tout court221. La paura, in altri termini, non è, nella concezione hobbesiana, l’unica o la più importante passione che intrattiene un qualche legame con la formazione delle varie credenze

220 C. Ginzburg, Paura, reverenza, terrore. Cinque saggi di iconografia politica, Adelphi, Milano

2015, pp. 65-66.

221 Vedi Leviatano, p. 111. Sul nesso tra timore e superstizione cfr. J. Freund, Le thème de la peur

chez Hobbes, in «Revue européenne des sciences sociales-Cahiers V. Pareto», 49, 1980, pp. 18-19

e G. Paoletti, Primus in orbe deos fecit timor: religion, temporalité et histoire chez Vico et

Hobbes,in Que faire de l’histoire? Philosophie et conscience historique au siècle des Lumières, a

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religiose. La radice antropologica comune al paganesimo, all’ebraismo e al

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