• Non ci sono risultati.

Natura umana e forme di soggettivita nel "Leviatano" di Hobbes

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Natura umana e forme di soggettivita nel "Leviatano" di Hobbes"

Copied!
106
0
0

Testo completo

(1)

Università di Pisa

Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Corso di laurea in Filosofia e Forme del Sapere

NATURA UMANA E FORME DI SOGGETTIVITÀ NEL

LEVIATANO DI HOBBES

Candidato: Relatore:

Andrea Salvatore Cerfeda Alfonso Maurizio Iacono

(2)

1 INDICE

Introduzione 2

Capitolo primo 6 1.1) Il terzo libro: lettura, conoscenza e conservazione del genere umano 6 1.2) Questioni metodologiche 16

1.3) Piacere della mente, curiosità, linguaggio, futuro 23

1.4) Linearità del desiderio umano 35

1.5) Homo homini lupus / homo homini deus 39

Capitolo secondo 46

2.1) Hobbes e Tucidide: le motivazioni della traduzione delle ΙΣΤΟΡΙΑΙ 46

2.2) Realismo politico e natura umana 53

2.3) Il desiderio illimitato di potere 62

2.4) Ansietà, sollecitudine e conflitto 71

Capitolo terzo 79

3.1) Religione e natura umana 80

3.2) Dall’ansietà alla speranza 87

3.3) Le prime comunità cristiane 89

(3)

2

INTRODUZIONE

In occasione di un importante convegno internazionale per il terzo centenario della nascita di Thomas Hobbes, Bernard Willms denunciava ironicamente una tendenza assai diffusa tra gli interpreti del pensiero hobbesiano, ossia quella di compiacersi per le contraddizioni riscontrate nell’opera del filosofo inglese, arrogandosi l’onere di correggerle o condannarle1. Questo costume, secondo il commentatore tedesco, testimoniava una lettura ingenua di Hobbes, poiché condotta senza supporre alcuna «consistenza»2 a suo favore. Agli uomini, del resto, risulta più facile tacciare di ambiguità o inadeguatezza ciò che non riescono a comprendere piuttosto che incolpare se stessi di un approccio eccessivamente superficiale, essendo quest’ultima soluzione la più dispendiosa dal punto di vista emotivo. E tuttavia, il filosofo e lo storico della filosofia dovrebbero resistere dal concludere troppo frettolosamente il fallimento del pensiero di un grande classico, qualora riscontrassero delle discordanze al suo interno. Quelle che appaiono prima facie come innegabili contraddizioni devono innanzitutto scuotere non il sistema filosofico che le ospita, ma le convinzioni del suo interprete, spingendolo a una nuova immersione nei testi. Con questo non si vuole – come è ovvio – affermare l’infallibilità dei filosofi del passato, ma descrivere il principio ermeneutico attraverso cui il presente lavoro è stato condotto.

Pur muovendo da una tensione che investe il sistema antropologico di Hobbes, tanto poderosa e significativa quanto ignorata dalla letteratura critica, la nostra ricerca si è sviluppata nella convinzione che ogni contraddizione interna all’impianto teorico hobbesiano potesse dipanarsi solo nella profonda comprensione dello stesso. Pertanto, dietro la valorizzazione da noi operata di alcuni passi dove Hobbes sembra divergere dai principii fondamentali della sua filosofia non si nasconde l’intento di palesarne la presunta incoerenza, quanto

1 Vedi B. Willms, Il Leviatano e i tuffatori di Delo. Gli sviluppi della ricerca su Hobbes dal 1979,

in Hobbes oggi, a cura di A. Napoli, Franco Angeli, Milano 1990, p. 33.

(4)

3

piuttosto di smuovere, almeno parzialmente, il paradigma interpretativo in cui è stata trattenuta. Il filosofo di Malmesbury, infatti, noto urbi et orbi per la sua concezione pessimistica della natura umana, riassunta nella celebre massima di derivazione plautina homo homini lupus, e per l’assolutismo del potere statuale che ne consegue, descrive, in molti luoghi della sua produzione filosofica, comunità di uomini che vissero all’insegna dell’amore reciproco e della fratellanza, nonostante la mancanza di un potere coercitivo che disciplinasse le loro condotte. Queste sono le comunità in cui si organizzarono i cristiani dei secoli immediatamente successivi alla predicazione di Gesù, alle quali Hobbes dedica più volte la sua attenzione3.

L’esempio del cristianesimo delle origini, in particolare, rivela la tensione che intercorre tra il progetto di fornire una descrizione scientifica della natura umana, di cui la prima parte del Leviatano ne rappresenta, all’interno della produzione hobbesiana, l’attuazione più propria, e l’analisi delle concrete forme di soggettività che si produssero storicamente, intrapresa dal filosofo per ragioni di carattere politico-strategico più che scientifico. Nell’opera del 1651, infatti, Hobbes pretende di individuare, con il rigore proprio del metodo geometrico, quegli attributi che definiscono l’essenza dell’uomo e attraverso cui è possibile comprendere il suo agire, ma l’immagine della natura umana che ne consegue non riesce, se pensata come una configurazione statica e immutabile, a render conto della pluralità delle esperienze umane che il filosofo, nel Leviatano stesso, considera. Le diverse forme di comportamento sociale di cui Hobbes fornisce una ricostruzione storica, in altri termini, non sono riconducibili alla raffigurazione di un uomo ansioso e sollecito al tempo a venire consegnataci dalla prima delle quattro sezioni del Leviatano. Le pratiche comunistiche dei primi cristiani, ad esempio, smentiscono l’universalità di alcune categorie adottate dal filosofo per definire la specificità della natura umana.

L’irriducibilità della soggettività proto-cristiana all’immagine di un individuo afflitto dall’ansietà e desideroso di incrementare indefinitamente il

3 Tra i pochi che hanno colto la rilevanza delle prime comunità cristiane, vedi F. Toto, Gesù e gli

Apostoli nel Leviatano. Il cristianesimo delle origini tra etica e politica, in «Teoria Politica»,

(2019), pp. 429-454 e D. D’Andrea, Curiosità, linguaggio e ansia. L’uomo del “Leviatano” tra

(5)

4

potere individuale, tuttavia, non decreta necessariamente l’incoerenza della riflessione hobbesiana sull’uomo. L’esigenza scientifica di costruire un’antropologia more geometrico demonstrata è infatti accompagnata dalla consapevolezza, testimoniata da buona parte della produzione hobbesiana, del potere di soggettivazione delle credenze religiose e, pertanto, dalla concezione di una natura umana dinamica e plasmabile. Il filosofo di Malmesbury, in altri termini, elabora sì un modello antropologico con struttura e fisionomia ben precise, ma, al tempo stesso, ne contempla la plasmabilità.

La nostra idea è che tra i caratteri distintivi della natura umana elencati da Hobbes ve ne siano alcuni che possono subire trasformazioni radicali. Nel primo capitolo di questo lavoro, pertanto, individueremo quelle costanti antropologiche che definiscono l’essenza immutabile dell’uomo; nel secondo indicheremo invece quegli attributi che, pur essendo descritti dal filosofo nei termini dell’universalità e dell’invarianza, possono essere modificati o neutralizzati; infine, nel terzo, illustreremo la plasmabilità della natura umana nel suo concreto funzionamento, riferendoci soprattutto al processo di soggettivazione innescato dalla fede cristiana.

(6)

5 AVVERTENZA

Le traduzioni italiane utilizzate delle opere di Hobbes sono: – Behemoth, a cura di O. Nicastro, Laterza, Roma-Bari 1979.

– De cive. Elementi filosofici sul cittadino, a cura di T. Magri, Editori Riuniti, Roma 1979.

– De homine, a cura di A. Pacchi, Laterza, Bari 1970. – Elementi di legge naturale e politica, a cura di A. Pacchi, La Nuova Italia,

Firenze 1968 (nel testo citato come Elementi).

– Il corpo, in Elementi di filosofia. Il corpo – L’uomo, a cura di A. Negri, UTET, Torino 1972 (nel testo citato come De corpore). – Introduzione a “La guerra del Peloponneso di Tucidide” [Epistola dedicatoria,

Ai lettori, Della vita e della storia di Tucidide] a cura di G. Borrelli, Bibliopolis,

Napoli 1984 (nel testo citati come Epistola dedicatoria G.P., Ai lettori G.P., Della

vita).

– Leviatano, a cura di G. Micheli, BUR, Milano 2011.

– Narrazione storica sull’eresia e sulla relativa pena, in Scritti teologici, a cura di G. Invernizzi e A. Lupoli, Franco Angeli, Milano 1988 (nel testo citato come

Narrazione storica).

– Storia Ecclesiastica, in Scritti teologici, a cura di G. Invernizzi e A. Lupoli, Franco Angeli, Milano 1988.

– Appendice al Leviatano, in Scritti teologici, a cura di G. Invernizzi e A. Lupoli, Franco Angeli, Milano 1988.

(7)

6 Capitolo primo L’UOMO E LA BESTIA

DEFINIZIONE DELL’ONTOLOGIA DELL’UMANO

«E chiaramente l’ambito che può assicurare al Leviatano un’eterna durata non è altro che la comprensione della natura umana»4.

1.1) Il terzo Libro: lettura, conoscenza e conservazione del genere umano Il Novecento fu, senza dubbio alcuno, il secolo che strutturò sistematicamente, in una specifica produzione scientifico-filosofica, quell’interesse verso la metafora che – sebbene spesso in modo confuso, inconsapevole o marginale – accompagnò l’intero sviluppo del pensiero occidentale. Il Secolo breve, dunque, operò come forza centripeta verso lo studio della metafora, attraendo al centro delle riflessioni filosofiche qualcosa che, nella sua tacita presenza, era rimasto ai margini. Tra i molti studi di questo periodo, le ricerche di Richards, Black, Blumenberg e Ricoeur furono fondamentali per riconoscere nella metafora uno strumento di costruzione del mondo5.

4 J. Taubes, Statt einer Einleitung: Leviathan als sterblicher Gott. Zur aktualität von Thomas

Hobbes, in Religionstheorie und Politische Theologie, vol. I, Der Fürst dieser Welt. Carl Schmitt und die Folgen, Wilhelm Fink, Munich 1983; trad. it. G. Gurisatti, Leviatano come Dio mortale. Sull’attualità di Thomas Hobbes, in Ai lati opposti delle barricate – corrispondenza e scritti 1948-1987, Adelphi, Milano 2018, p. 197.

5 I.A. Richards, The philosophy of Rethoric, London 1936; trad. it. B. Placido, La filosofia della

retorica, Feltrinelli, Milano 1967. H. Blumenberg, Paradigmen zu einer Metaphorologie, in

«Archiv für Begriffsgeschichte», VI, Bonn 1960; trad. it. M. Vittoria e S. Hansberg, Paradigmi

(8)

7

Tuttavia, se si volesse individuare la genesi di questa filosofia della

metafora, occorrerebbe compiere un salto di quasi due secoli e guardare alla

potente intuizione di Giambattista Vico. Il filosofo napoletano fu il primo a sottrarre la metafora da una dimensione meramente retorico-ornamentale6, affermandone esplicitamente il valore conoscitivo ed evolutivo.

Di questa Logica Poetica sono Corollarj tutti i primi Tropi, de’ quali la più luminosa, e perché più luminosa, più necessaria, e più spessa è la Metafora, ch’allora è vieppiù lodata, quando

alle cose insensate ella dà senso, e passione per la Metafisica

sopra qui ragionata; ch’i Primi Poeti dieder’ a’ corpi l’essere di

sostanze animate, sol di tanto capaci, di quanto essi potevano, cioè di senso, e di passione; e sì ne fecero le Favole, talchè ogni metafora sì fatta vien’ ad essere una picciola favoletta7.

La metafora è qui colta nella sua capacità di strutturare reti di senso. Poche righe dopo il filosofo descriverà il processo di trasformazione metaforica del

mondo come primo ed essenziale momento dell’itinerario verso la verità8.

Prima del Novecento, tuttavia, escludendo le straordinarie intuizioni di Vico, che nella loro genialità saranno destinate a rimanere isolate, la metafora veniva considerata prettamente nella sua funzione di strumento retorico. Ed è proprio attorno al carattere persuasivo della metafora che si ergevano i suoi avversari più tenaci. In particolare, era sulla capacità mistificatoria del dispositivo metaforico che si fondava l’opposizione tra due paradigmi apparentemente inconciliabili: il discorso apodittico-filosofico e quello retorico. Il primo tendeva alla verità, il secondo alla persuasione. L’uno era pronunciato dal filosofo, l’altro dal sofista.

Thomas Hobbes, con la sua vocazione per la scienza, fu sicuramente tra coloro che con maggior vigore criticarono l’uso metaforico del linguaggio. Egli

Cornell University Press, Ithaca 1962. P. Ricoeur, La Métaphore vive, Paris 1975; trad. it. G. Grampa, La metafora viva, Jaca Book, Milano 1981.

6 Cfr. P. König, Giambattista Vico, C.H. Beck, München 2005, p. 119: «Die Metapher wird von

Vico nicht mehr als eine Redefigur aufgefaßt, die lediglich ornamentalen Zwecken dient».

7 G. Vico, La Scienza Nuova [1744], Bompiani, Firenze 2012, p. 932, corsivo mio. 8 Ivi, pp. 932-933.

(9)

8

giunse a descrivere la metafora, assieme alle altre ambiguità e insensatezze lessicali, nella sua capacità di generare contesa e sedizione:

Per concludere, la luce delle menti umane sono i vocaboli perspicui, ma smoccolati prima dalle definizioni esatte, e purgati dall’ambiguità; la ragione è il passo, l’incremento della scienza, la via: il beneficio del genere umano, il fine. Al contrario, le metafore, i vocaboli ambigui e senza senso, sono

come ignes fatui e il ragionare su di essi è un vagare tra

innumerevoli assurdità; loro fine sono la contesa, le sedizioni o

il disprezzo. [Leviatano, p. 49, corsivo mio]

Tuttavia, il rapporto tra Hobbes e l’uso della metafora è molto più complesso rispetto a quanto si può evincere da queste esplicite affermazioni. Il filosofo di Malmesbury, infatti, nelle sue opere, fa largo uso di figure retoriche ed il suo estro poetico ci consegnò alcune delle più belle metafore che siano mai state elaborate9. Basti pensare che è una grande metafora biblica a segnare il destino – oltre che a conferire il titolo – del suo capolavoro10.Questa intima – e alle volte spasmodica – esigenza di scandire la sua argomentazione filosofica attraverso l’uso di metafore, unita all’esplicita avversione per il discorso retorico, non potrebbe essere meglio descritta dalle parole di Nietzsche, che, pur non riferendosi ad Hobbes, coglie perfettamente questa caotica mescolanza di ineludibilità e ripudio del dispositivo metaforico:

Quell’impulso a formare metafore, quell’impulso fondamentale dell’uomo da cui non si può prescindere neppure per un istante, poiché in tal modo si prescinderebbe dall’uomo

9 È per questa ragione che F. Rigotti si domanda: «Come conciliare infatti le dichiarazioni

programmatiche di Hobbes e Locke sull’inutilità e il danno delle metafore per la chiarezza geometrica del linguaggio con lo straordinario zampillare di immagini che fanno, soprattutto del primo, uno dei più fantastici e originali inventori di metafore mai esistito?» (F. Rigotti, Rassegna

introduttiva sulle metafore storico-politiche, in Il potere delle immagini – la metafora politica in prospettiva storica/Die Macht der Vorstellungen – die politische Metapher in historischer Perspektive, a cura di W.Euchner, F. Rigotti e P. Schiera, Il Mulino e Duncker & Humblot, Trento

1988, p. 29).

10 Vedi C. Schmitt, Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes – Sinn und Fehlschlag

eines politischen Symbols, Hanseatische Verlagsanstalt, Amburgo 1938; trad. it. C. Galli, Il Leviatano nella dottrina dello stato di Thomas Hobbes- senso e fallimento di un simbolo politico,

(10)

9

stesso, risulta in verità non già represso, ma a stento ammansito, dal fatto che con i suoi prodotti evanescenti, i concetti, sia stato costruito per lui un nuovo mondo, regolare e rigido, come roccaforte11.

Il discorso scientifico non sopprime quello metaforico. Questo – come stiamo cercando di argomentare – lo si può cogliere in modo esemplare nelle opere di Hobbes: convinto sostenitore della dimostrazione geometrica12, che, tuttavia, non può fare a meno di strutturare la sua filosofia attraverso l’uso di metafore. Il ricorso al dispositivo metaforico da parte di Hobbes testimonia – come aveva intuito Vico – l’impossibilità di ricondurre interamente tale dispositivo ad una dimensione retorico-persuasiva. Le metafore usate da Hobbes strutturano le coordinate entro cui si muove la sua stessa riflessione filosofica.

Prenderemo ora in considerazione, essendo questo un lavoro sulla concezione hobbesiana della natura umana, la prima grande metafora che viene abbozzata nell’introduzione del Leviatano e che costituisce quella cornice entro cui si articola l’indagine antropologica di Hobbes. Il filosofo di Malmesbury, al fine di descrivere il metodo con cui condurrà lo studio dell’essere umano, si rifà ad un determinato plesso metaforico: quello della lettura. Nonostante la sua lunghezza, occorrerà riportare il passo interamente: in questo luogo, infatti, viene indicato non solo il sentiero che può essere intrapreso, ma anche la meta che può essere raggiunta. Modalità, pretese e finalità dell’indagine antropologica hobbesiana vengono condensate in una grande metafora:

[…]c’è un detto molto in uso da qualche tempo, questo, che la saggezza si acquista non con il leggere i libri ma gli uomini; in modo conseguente ad esso, quelle persone che per lo più non

11 F. Nietzsche, Über Wahrheit und Lüge im außermoralischen Sinne; trad. it. G. Colli, Su verità e

menzogna in senso extramorale, Adelphi, Milano 2015, p. 30.

12«I geometri, in verità, hanno molto ben amministrato la loro provincia. Infatti, tutto l’aiuto che

si può trarre per la vita umana dall’osservazione delle stelle, dalla descrizione della terra, dal computo del tempo, dalle navigazioni più lunghe; tutto quello che è bello negli edifici, resistente nelle fortificazioni, prodigioso nelle macchine; tutto ciò che, insomma, distingue il tempo odierno dalla barbarie antica, è quasi per intero un beneficio della geometria. […]Se infatti la ragione delle azioni umane fosse conosciuta con la stessa certezza con cui conosciamo la ragione delle grandezze nelle figure, l’ambizione e l’avidità, la cui potenza si sostiene sulle false opinioni del volgo circa il diritto e il torto, sarebbero disarmate, e la gente umana godrebbe di una pace tanto costante, che non sembra si dovrebbe più combattere[…]» (De cive, pp. 65-66).

(11)

10

possono dare altra prova di essere sagge, si dilettano molto a mostrare quel che pensano di aver letto negli uomini, censurandosi in modo non caritatevole l’uno alle spalle dell’altro. Ma c’è un altro detto che è inteso non da poco tempo, con il quale si potrebbe veramente imparare a leggersi

reciprocamente, qualora si volesse prendersene la briga, ed è il nosce te ipsum, il leggi te stesso: l’intento di esso non era, come

si usa ora, quello di favorire o il fasto barbarico dei potenti verso quelli che sono loro inferiori o di incoraggiare gli uomini di bassa condizione a un comportamento sfrontato verso quelli che stanno meglio di loro, ma di insegnarci che, per la somiglianza dei pensieri e delle passioni di un uomo con i pensieri e le passioni di un altro, chiunque guarda in se stesso e considera che cosa fa quando pensa, opina, ragiona, spera, teme, ecc, e su quali fondamenti, per mezzo di ciò leggerà e

conoscerà i pensieri e le passioni di tutti gli altri uomini in

occasioni simili. Dico somiglianza delle passioni che sono le stesse in tutti gli uomini, desiderio, timore, speranza ecc., non somiglianza degli oggetti delle passioni che sono le cose desiderate, temute, sperate, ecc. poiché queste variano totalmente secondo la costituzione individuale e la particolare educazione e sono così agevoli da nascondere alla nostra conoscenza, che i caratteri del cuore umano scribacchiati e confusi come sono dalla dissimulazione, dalla menzogna, dalla contraffazione e dalle dottrine erronee, sono leggibili solo da

colui che scruta i cuori. E sebbene noi scopriamo talvolta dalle

azioni degli uomini i loro disegni, tuttavia fare ciò senza paragonare le loro con le nostre e senza distinguere tutte le circostanze da cui il caso può venire alterato è un decifrare

senza una chiave ed essere per lo più ingannati per troppa

fiducia o per troppa diffidenza, secondo che chi legge è egli stesso un uomo buono o cattivo. Ma per quanto perfettamente un uomo legga un altro attraverso le sue azioni, ciò gli serve solo per i propri conoscenti, che sono pochi. Colui che ha da

(12)

11

questo o quell’uomo particolare, ma il genere umano e sebbene

ciò sia difficile da fare, più difficile che apprendere un linguaggio o una scienza; pure quando avrò steso la mia lettura

in forma ordinata e perspicua, agli altri sarà lasciata solo la

briga di considerare se non trovano le medesime cose anche in loro stessi. [Leviatano, pp. 6-7, corsivo mio]

Dopo la natura13, anche il genere umano divenne un libro. Se Galileo scorse a fianco al libro della Scrittura quello della natura, Hobbes – a questi due – ne aggiunse un terzo. Tuttavia non è possibile pensare che l’ampliarsi del patrimonio librario possa risolversi in un pacifico compiacimento per l’accresciuta erudizione: la molteplicità dei libri può significare conflitto. Questa possibilità diviene tanto più reale, laddove libri diversi vogliono pronunciarsi sul medesimo argomento. In particolare non si può pensare che quest’ultimo libro, subentrando come testo dell’uomo e della sua vita, possa astenersi da un confronto con le Scritture. Il carattere paradossale di questa configurazione sarebbe facilmente rilevabile, se si considerasse che il filosofo di Malmesbury – esattamente come fece lo scienziato pisano14 – impiegò innanzitutto la metaforica della leggibilità in

contrapposizione allo scolastico e monacale dilagare di libri. Occorre contrastare e governare quella caotica tendenza di lettura degli esseri umani. Hobbes, infatti, si rivolse in primo luogo contro coloro che «si dilettano molto a mostrare quel che pensano di aver letto negli uomini, censurandosi in modo non caritatevole l’uno alle spalle dell’altro»15. Contro la pluralità delle letture, il filosofo rivendica

l’unità di ciò che può essere letto. Questo è l’intimo significato del nosce te

ipsum: il singolo uomo può leggere in se stesso l’intero genere umano16.

13 «La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli

occhi(io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto»(G. Galilei, Il

saggiatore, Feltrinelli, Milano 1965, p. 38.

14 Cfr. H. Blumenberg, Die Lesbarkeit der Welt,Suhrkamp, Frankfurt 1981; trad. it. B. Argenton,

La leggibilità del mondo, a cura di R. Bodei, Il Mulino, Bologna 1984, p. 57.

15 Leviatano, p. 6.

16 In queste affermazioni è possibile individuare un punto di congiunzione tra Hobbes e Kant: il

genere umano leggibile all’interno del singolo uomo potrebbe essere accostato al soggetto trascendentale kantiano. Tuttavia, occorre specificare che l’operazione hobbesiana – più che trascendentale – è di tipo fenomenologico-osservativa.

(13)

12

L’unità della materia, tuttavia, non è sinonimo di semplicità. I caratteri che compongono tale testo, infatti, non sono sempre chiari e ben ordinati: saperli decifrare è arte ben «più difficile che apprendere un linguaggio o una scienza»17. Qui si registra una prima differenza rispetto alla metafora adoperata da Galileo. Se lo scienziato pisano aveva insistito sull’importanza di apprendere un determinato linguaggio per poter intendere il libro della natura, Hobbes avverte che la lettura dell’essere umano richiede ben altre competenze. Non è il possesso di uno specifico linguaggio che consente di leggere in se stessi l’intero genere umano. Questo – come è ovvio – non significa che tale materia non sia espressa secondo un preciso codice, ma indica l’insufficienza di un’operazione di mero apprendimento linguistico. L’arte richiesta è piuttosto quella di scrutare nella propria interiorità sapendo decifrare e ordinare caratteri che appaiono confusi. Inoltre, in questa pratica di auto-osservazione, non si deve scorgere «questo o quell’uomo particolare, ma il genere umano»18: occorre perciò individuare quella

dimensione che, essendo svincolata dal variare delle circostanze, caratterizza l’uomo in quanto tale. L’osservazione di sé deve condurre a delineare quella struttura permanente e universale che costituisce l’essere umano. L’indagine antropologica, tuttavia, non si conclude a questo livello. Al variare delle condizioni, infatti, corrispondono diversi tipi di condotta. Su quella struttura immutabile che definisce l’uomo in quanto tale poggia un’ulteriore dimensione che si apre ad una pluralità di configurazioni e nella quale prende forma la specificità del singolo individuo. La variabilità delle circostanze, dell’educazione e delle costituzioni individuali deve essere presa in esame; altrimenti la lettura dell’essere umano diverrebbe un «decifrare senza chiave»19. Occorre dunque

considerare i processi di soggettivazione ai quali è sottoposto l’individuo. Questa operazione, nel passo sopracitato, è relazionata alla lettura di quei «caratteri del cuore umano»20 incisi in modo permanente: l’immutabile viene definito

distinguendolo dal contingente. Tuttavia – come avremo modo di vedere nel corso di questo lavoro – la dimensione in cui prendono forma le singole soggettività ha

17 Leviatano, p. 7. 18 Ibidem. 19 Ibidem. 20 Ibidem.

(14)

13

di per sé un ruolo fondamentale nella comprensione della natura umana.

Hobbes, dunque, descrive la sua indagine antropologica attraverso la metaforica della lettura. Per questo motivo abbiamo parlato di un terzo libro. Il filosofo, tuttavia, non afferma esplicitamente che la leggibilità del genere umano sia espressa sotto forma di libro: ciò che appare evidente è invece che sia lui stesso a conferirle tale forma. I caratteri che Hobbes si appresta a leggere sono incisi nell’interiorità del singolo uomo, ma non sappiamo se questi siano disposti in un libro. È qui che si riscontra la vera differenza tra il libro della natura e quello del genere umano. Se il primo, infatti, si apriva già rilegato innanzi agli occhi di Galileo, il secondo, al contrario, deve essere composto. La sua redazione spetta a colui che – in grado di scrutare i cuori – voglia rendere universalmente accessibile la lettura del genere umano. A farsi carico di questa impresa è Thomas Hobbes, il quale, stendendo la sua lettura «in forma ordinata e perspicua»21, permetterà ad ogni singolo uomo di guardarsi in un’opera filosofica come in un specchio. Il terzo libro, dunque, è il Leviatano.

Occorre tuttavia sottolineare che la metaforica della leggibilità, pur non essendo determinata nella forma-libro, è di per sé un importante indicatore. Questo plesso metaforico ha delle forti conseguenze, che costituiscono i binari lungo i quali si muove l’indagine hobbesiana. La prima di queste riguarda il rapporto tra lettura e conoscenza. Ciò che può essere letto può essere conosciuto. Affermare la leggibilità del genere umano significa, in primis, renderlo oggetto di conoscenza. La metaforica della lettura, dunque, indica la grande scommessa teorica assunta da Hobbes: la conoscibilità del genere umano come totalità. La destinazione verso cui si dirige il filosofo non è la conoscenza di questo o quell’uomo particolare, ma del genere umano. La seconda conseguenza – che segue naturalmente dalla prima – riguarda lo statuto di quella verità che viene letta e che può essere conosciuta. Solo ciò che è scritto può essere letto e la scrittura rimanda ad un’idea di fissità e permanenza. Idea che si rafforza ancor di più, se si considera che il filosofo non conduce la sua lettura su fogli di carta. La verità che scruta Hobbes, essendo scritta nell’interiorità dell’essere umano, è eterna. È vero che il filosofo – come avremo modo di esaminare in seguito – darà spesso

(15)

14

maggior risalto a caratteri tipici della soggettività del suo tempo, tuttavia la sua indagine non si accontenta di cogliere il qui ed ora. Se non si tiene conto di questo aspetto, sarà estremamente difficile comprendere quei numerosi passi in cui si configurano modelli di soggettività alternativi – o addirittura opposti – rispetto a quello che sembra essere prevalente nell’opera del filosofo. La terza conseguenza riguarda il tema dell’eredità: ciò che può essere letto può essere trasmesso. La stesura del Leviatano non sarebbe altrimenti possibile. La leggibilità del genere umano è, dunque, la conditio sine qua non alla composizione del Leviatano. Per comprendere poi le ragioni dell’effettiva stesura e trasmissione della conoscenza della natura umana, occorre guardare alla realtà storica che fa da cornice a tale operazione. Nella modernità, infatti, la trasmissione di questa conoscenza viene ad assumere un significato esistenziale. È per questo motivo che il terzo libro non può sottrarsi dall’assolvere un incarico di carattere etico: esso deve divenire l’opera del posizionamento e della conservazione dell’uomo nel mondo. Tale posizionamento – al fine di realizzare l’esistenza pacifica e duratura dell’essere umano – non può che essere eminentemente politico.

Vita e politica si intrecciano in un vincolo indissolubile. Nel corso di questo lavoro cercheremo di comprendere se tale legame si colloca ad un livello apodittico-ideale o storico-contingente. Evidente è, tuttavia, la problematicità della conservazione della vita al tempo di Hobbes. Il filosofo muove dalla consapevolezza, all’interno della quale si condensa «l’esperienza direttamente vissuta delle guerre civili di religione inglesi e continentali»22, della fine dell’età dell’oro23: egli comprende con drammatico disincanto l’estrema difficoltà di una

spontanea convivenza pacifica tra uomini. L’epoca della contingenza richiede

un’operazione di costruzione dell’ordine24. La grande arte architettonica diviene

così attività di costruzione dell’esistenza umana: è grazie alla politica che l’uomo

22 F. Izzo, Forme della modernità – antropologia, politica e teologia in Thomas Hobbes, Laterza,

Bari 2005, p. 6.

23 «Così regnava la pace e l’età dell’oro, che non ebbero fine finché, cacciato Saturno, si cominciò

ad insegnare che si potevano prendere le armi contro i re» (De cive, p. 70).

24 La letteratura sulla crisi del Seicento e sulla conseguente esigenza della costruzione dell’ordine

è, ovviamente, vastissima. Mi limito perciò a segnalare il recente libro di C. Galli, che, pur trattando questo tema solo di riflesso, restituisce, in modo sintetico ed estremamente efficace, il nesso tra contingenza e necessità dell’ordine: C. Galli, Sovranità, Il Mulino, Bologna 2019, pp. 14-15.

(16)

15

prende parte alla vita e costituisce la sua storia25. Il soggetto forma sé stesso mediante la politica; tuttavia, ciò non significa – almeno nella concezione hobbesiana – che la natura umana sia uno zero. La realizzazione di qualsiasi forma di ordinamento della vita umana non può prescindere dallo studio della materia su cui tale ordinamento esercita la sua azione. Tale materia – come abbiamo visto attraverso la metafora della leggibilità del genere umano – si compone di strutture. Hobbes ne individua due: la prima permanente e stabile, la seconda aperta a differenti configurazioni. La scienza politica deve poggiare sullo studio di queste dimensioni. L’antropologia costituisce dunque il terreno dal quale Hobbes deduce direttamente la sua dottrina politica. Per questo motivo la lettura di ciò che l’uomo è diviene così importante: essa non è un’operazione meramente intellettualistica, ma fonda quella scienza politica necessaria – almeno in tempi moderni – alla conservazione dell’uomo26.

Tra il terzo libro e l’esistenza del genere umano si viene così a creare un legame fondamentale, che non deve essere però inteso nei termini di una radicale e necessitata causalità. Il Leviatano – lungi dal voler essere un’opera puramente descrittiva – si innalza a possibile katéchon e dynamis della storia dell’uomo: quest’opera si presenta sia come elemento frenante, che impedisce alla modernità di precipitare nel baratro, sia come effettiva spinta vitale. Quando parliamo di «storia dell’uomo» ci riferiamo ovviamente agli attori che la scrivono: gli Stati. Allo stesso modo l’esistenza del genere umano è quella degli atomi di cui esso si compone. Tra l’opera di Hobbes e l’esistenza dei corpi politici vi è, dunque, un rapporto esistenziale. Non dobbiamo, tuttavia, commettere l’errore di declinare questo rapporto sotto la categoria di una rigida causalità diretta: la mancata ricezione dell’opera non conduce necessariamente alla dissoluzione del corpo politico. Certo è che nella modernità – epoca sospesa su un abisso di incertezza e precarietà – il rifiuto della scienza politica dedotta dalla lettura di una verità universale ed eterna può condurre – soprattutto se a tale rifiuto si aggiunge la

25 Cfr. F. Izzo, Forme della modernità – antropologia, politica e teologia in Thomas Hobbes,

Laterza, Bari 2005, pp. 11-13.

26 Per una differente declinazione del nesso tra il nosce te ipsum e la costruzione leviatanica vedi

M. S. Barberi, Natura enigmatica e sovranità barocca. Un’analisi hobbesiana, in Thomas Hobbes

(17)

16

diffusione di dottrine erronee – alla guerra civile. Per quel che riguarda invece l’instaurazione dell’ordine, Hobbes è assolutamente fiducioso che lo studio e la comprensione dei principi del suo sistema abbiano come conseguenza necessaria la pace. Da questa prospettiva è possibile spiegare l’insistenza del filosofo sulla necessità di far leggere e studiare il Leviatano nelle scuole. Non a caso quello pedagogico fu un tema che percorse la produzione hobbesiana quasi nella sua interezza: essendo il Leviatano non solo il libro del genere umano ma anche per la conservazione di esso, la sua stesura senza una diffusione vasta e legittimata sarebbe vana.

Attraverso l’analisi di questa grande metafora siamo riusciti a ricostruire i caratteri fondamentali dell’indagine antropologica hobbesiana. Abbiamo potuto coglierne, ad un livello generale, pretese e finalità, presupposti e metodi di svolgimento. Non ci resta ora che entrare più nel dettaglio, vedendo come venga effettivamente condotto lo studio della natura umana.

1.2) Questioni metodologiche

L’uso del metodo geometrico da parte di Hobbes è, da molto tempo, oggetto di interesse presso specialisti e profani dell’autore. La costruzione di una scienza politica more geometrico è sicuramente una pretesa che – oltre ad affascinare e incuriosire – suscita le reazioni più diverse: talvolta è stata accolta con fiducioso entusiasmo, talaltra con disincantato scetticismo. Se, da una parte, è vero che questi giudizi estremizzanti spesso fraintendono l’autore, d’altra parte, bisogna ammettere che la questione metodologica fu di estrema importanza per lo stesso Hobbes. Essa è la risposta alla prima grande esigenza di cui il filosofo si fece portavoce: porre fine a quella «guerra condotta con le spade o con le penne»27 che, da tempo immemorabile, devastava i campi della filosofia civile.

L’ordine politico – e dunque la posizione della pace nella Wirklichkeit dei rapporti umani – non può che seguire, nell’ottica di Hobbes, da una pacificazione di tipo

(18)

17

scientifico28. Il filosofo di Malmesbury conosceva bene la causa della miseria in cui versava la filosofia morale e politica: era la mancanza di un metodo rigoroso che allontanava i filosofi – guidati unicamente dalla loro eloquenza – dalla «scienza della verità»29. Per questo la domanda sul metodo assume un significato tanto importante.

John Aubrey, biografo di Hobbes, racconta l’entusiasmante ed accidentale incontro che il filosofo ebbe con gli Elementa di Euclide:

He was forty years old before he looked on geometry; wich happened accidentally. Being in a gentleman’s library in . . . , Euclid’s Elements lay open, and ‘twas the forty-seventh element of book one. He read the proposition; “By God”, said he, “this is impossible!” Se he reads the demonstration of it, which referred him back to such a proposition; which proposition he read. That referred him back to another, which he also read. Et

sic deinceps [and so on], that at last he was demonstratively

convinced of that truth. This made him in love with geometry30.

Hobbes rimase affascinato dalla forza e dal rigore della dimostrazione geometrica31. Tuttavia, l’eccessiva esaltazione dell’«esprit de géometrie»32 del filosofo potrebbe rivelarsi un’operazione faziosa e semplificante. Il ritratto di un logico consequenziario, animato da un rigoroso spirito geometrico che non ammette chiaroscuri, non sembra poter restituire quella tesa complessità che

28 In questa convinzione si ha una prima conferma di quanto le dottrine – o più in generale le

credenze – influiscano, secondo Hobbes, sulla condotta pratica degli individui.

29 De cive, p. 66.

30 J. Aubrey, The life of Mr Thomas Hobbes of Malmesbury, in Brief Lives, pubblicata da A. Clark,

1889; ora in Aubrey’s brief lives: Thomas Hobbes, a cura di S. Webb e W. Duggan, Langley Press, 2016, p. 21.

31 Willms descrive in questi termini il fascino che la geometria esercitò su Hobbes: «Als er im

Alter von vierzig Jahren die Elementa von Euklid kennenlernte, mußte er folglich fasziniert sein: offenbar war die Strenge einer lückenlosen Beweisführung nicht erst eine Aufgabe seiner eigenen Zeit. In der euklidischen Geometrie war ein bewundernswerter Fall einer solchen geschlossenen und zwingenden Beweisführung gegeben. Seit dem Euklid-Erlebnis war Hobbes, wie sein Biograph Aubrey sagte, ”verliebt in die Geometrie”» (B. Willms, Thomas Hobbes. Das Reich des

Leviathan, Piper, München 1987, p.62); per una breve ma completa descrizione che guardi, in

modo maggiormente disincantato, al rapporto che Hobbes intrattenne con la geometria, vedi G. Giorello, Pratica geometrica e immagine della matematica in Thomas Hobbes, in Hobbes oggi, a cura di A. Napoli, Franco Angeli, Milano 1990, pp. 215-244.

32 N. Bobbio, Introduzione al «De cive», in Thomas Hobbes, N. Bobbio, Einaudi, Torino 1989, p.

(19)

18

innerva la filosofia di Hobbes. Questi si schierò, indubbiamente, contro la sterile erudizione dei filosofi del suo tempo, a favore della chiarezza del discorso e del rigore dell’argomentazione: basti pensare al celebre elogio della geometria contenuto nell’Epistola dedicatoria del De cive33, o alla disincantata svalutazione

degli scritti verbifici, ai quali, nel De corpore, si contrappongono quelli scientifici34, o, infine, all’eloquente metafora del Leviatano, dove coloro che, guidati unicamente da un autorevole sapere libresco, procedono nelle loro elucubrazioni senza un metodo rigoroso vengono paragonati ad «uccelli che, entrati dal camino, e trovandosi chiusi in una camera, svolazzano verso la falsa luce di una finestra a vetri, perché non hanno l’ingegno per considerare per quale via sono entrati»35. Tuttavia, sarebbe un errore sovrapporre troppo frettolosamente queste esplicite manifestazioni del filosofo al suo pensiero. Hobbes, infatti, non rinunciò totalmente alla retorica36: questa, oltre ad essere un’arma che il filosofo di Malmesbury rivolse spesso contro i suoi avversari37, fu – come abbiamo iniziato a mostrare nel paragrafo precedente – fondamentale per strutturare l’incedere stesso dell’argomentazione filosofica. Nelle opere di Hobbes, il discorso scientifico e quello retorico si intrecciano continuamente, e, alle volte, è quest’ultimo a prevalere sul primo: si pensi alle ultime due parti del Leviatano, dove il metodo geometrico viene ampiamente sostituito da un procedimento retorico-esegetico38. Il filosofo, scagliandosi contro l’eloquenza dei suoi avversari, non rigetta tout court la retorica, ma un uso di questa volto unicamente a mettere in mostra il proprio ingegno39. Le strategie metodologiche di Hobbes, dunque, sono molteplici e non possono essere ridotte al rigore della dimostrazione geometrica.

Dopo questa breve ma necessaria premessa – attraverso la quale abbiamo rivendicato l’irriducibile pluralità delle strategie argomentative utilizzate dal filosofo di Malmesbury – possiamo passare al vero argomento di questo

33 De cive, pp. 65-66. 34 De corpore, pp. 75-76. 35 Leviatano, p. 36.

36 Cfr. Q. Skinner, Reason and rhetoric in the philosophy of Hobbes, Cambridge University Press,

Cambridge 1997.

37 Vedi, ad esempio, Leviatano, p. 36.

38 Cfr. D. D’Andrea, Potere civile e potere ecclesiastico in Hobbes, in La filosofia politica di

Hobbes, a cura di G.M. Chiodi e R. Gatti, Franco Angeli, Milano 2009, pp. 149 e sgg.

(20)

19

paragrafo: le questioni metodologiche che più ci interessano sono, infatti, quelle specifiche strategie adottate dal filosofo nella sua indagine antropologica. Attraverso l’analisi della metafora della leggibilità del genere umano, abbiamo individuato le due strutture fondamentali di cui si compone la natura umana: la prima salda, immobile e sempre uguale a sé stessa, la seconda mutevole e dinamica. È necessario ora – per una maggiore chiarezza espositiva – nominare queste due dimensioni. La prima verrà qui chiamata ontologia dell’umano, la seconda, nella sua inquieta dinamicità, sarà la dimensione della plasmabilità della

natura umana. In realtà quest’ultima dimensione, lungi dal trovare

un’elaborazione pienamente consapevole, viene a configurarsi – come vedremo successivamente – dall’opposizione tra l’intento scientifico di fornire una descrizione sistematica e universale dell’essere umano e la tendenza di considerare le diverse forme di soggettività che si determinarono storicamente. In questo paragrafo si vuole individuare ed esaminare quelle specifiche strategie metodologiche attraverso cui il filosofo di Malmesbury delinea l’ontologia dell’umano. Queste strategie sono essenzialmente due ed il loro rapporto potrebbe essere rappresentato mediante l’intersezione di due circonferenze con raggi di diverse lunghezze. Vi è, infatti, un perimetro metodologico più ampio che contiene quasi totalmente un ulteriore procedimento strategico.

Per individuare il momento metodologico più generale, occorre, ancora una volta, riferirsi alla leggibilità del genere umano: «Ma c’è un altro detto che è inteso non da poco tempo, con il quale si potrebbe veramente imparare a leggersi reciprocamente, qualora si volesse prendersene la briga, ed è il nosce te ipsum, il

leggi te stesso»40. L’intento di questo detto è insegnare che «chiunque guarda in se stesso e considera che cosa fa quando pensa, opina, ragiona, spera, teme, ecc. e

su quali fondamenti, per mezzo di ciò leggerà e conoscerà i pensieri e le passioni di tutti gli altri uomini in occasioni simili»41. La conoscenza del genere umano

non può che procedere da uno sguardo rivolto verso sé stessi. L’atto auto-osservativo viene anzi a costituire quella cornice metodologica all’interno della quale si articola l’indagine antropologica. La conoscenza dell’uomo non può essere appresa sui libri, ma necessita della contemplazione di sé: un erudito sapere

40 Leviatano, p. 6. 41 Ivi, p. 7, corsivo mio.

(21)

20

libresco è pressoché inutile in questa materia42. Questo, d’altra parte, è un atteggiamento tipico della modernità, che si afferma opponendo il potere della novità auto-conseguita alla monacale venerazione di quella che – agli occhi dei moderni – appariva una polverosa biblioteca.

Guardando sé stessi si può conoscere il genere umano. Questo principio presuppone, come è ovvio, una somiglianza tra esseri umani: se non ci fosse tale similarità l’auto-contemplazione non potrebbe condurre alla conoscenza del genere umano, non potrebbe essere il ponte tra il singolare e l’universale. La somiglianza tra esseri umani fu, infatti, un principio che Hobbes non abbandonò mai nel corso della sua intera produzione: senza di esso la sua indagine antropologica non si potrebbe prefigurare come discorso scientifico volto alla conoscenza dell’universale. L’obiettivo del filosofo è – lo diciamo ancora una volta – conoscere «non questo o quell’uomo particolare, ma il genere umano»43. Questo presuppone che all’interno del singolo individuo vi sia una struttura che, prescindendo dalle determinazioni contingenti, lo caratterizzi, distinguendolo dalla bestia, come essere umano in quanto tale. L’ontologia dell’umano è, dunque, non solo il telos della prima fase dell’indagine antropologica hobbesiana, ma anche il suo presupposto.

La delineazione dell’ontologia dell’umano, tuttavia, non può risolversi mediante l’enunciazione di un generico motto che invita alla contemplazione di sé: l’interiorità dell’uomo è una dimensione estremamente complessa e magmatica che, nella sua difficile decifrabilità, non offre spontaneamente la sua stratificazione. L’uomo, come groviglio di ragione e passione, ospita al suo

42 Anche Aubrey, nella sua biografia del filosofo, mette in risalto lo spirito contemplativo di

Hobbes, che preferiva la vivacità della meditazione alla stasi dello studio sui libri: «He had very few books. I never saw above half a dozen about him in his chamber. Homer and Virgil were commonly on his table; sometimes Xenophon, or some probable history, and Greek Testament, or so. He had read much, if one considers his long life; but his contemplation was much more then his

reading. He was wont to say that if he had read as much as other men, he should have known no

more than other men» (J. Aubrey, The life of Mr Thomas Hobbes of Malmesbury, in Brief Lives, pubblicata da A. Clark, 1889; ora in Aubrey’s brief lives: Thomas Hobbes, a cura di S. Webb e W. Duggan, Langley Press, 2016, p. 37, corsivo mio). Lo stesso Hobbes si scagliò numerosissime volte contro coloro che, incapaci di meditare autonomamente, si rifugiavano nell’autorità dei loro predecessori: «[…] che rendono quegli uomini che traggono la loro istruzione dall’autorità dei loro libri e non dalla propria meditazione, tanto al di sotto della condizione degli ignoranti, quanto quelli dotati di vera scienza ne sono al di sopra. Infatti, tra la vera scienza e le dottrine erronee, l’ignoranza sta nel mezzo» (Leviatano, p. 37).

(22)

21

interno dei tratti che sono propri dell’animale e che, dunque, non contribuiscono a definirlo nella sua essenza. Per questo motivo, al fine di delineare quella struttura universale e immutabile, senza la quale non si potrebbe parlare di essere umano, occorre operare un confronto tra la bestia e l’uomo, individuando ciò che caratterizza specificamente quest’ultimo. Tale confronto percorre quasi tutta la prima parte del Leviatano: il filosofo, scrutando se stesso, prende in considerazione moti, abilità, caratteristiche dell’essere umano e si domanda se queste siano o meno comuni anche alle bestie44. A titolo di esempio, riporteremo

il passo riguardante l’intendimento:

L’immaginazione che è fatta sorgere nell’uomo (o in qualunque altra creatura dotata della facoltà di immaginare) dalle parole o da altri segni volontari, è ciò che generalmente noi chiamiamo intendimento ed è comune all’uomo e alla

bestia. Infatti un cane intenderà per consuetudine il richiamo o

il rimprovero del suo padrone; e così parecchie altre bestie. [Leviatano, p. 21, corsivo mio]

Il generico intendimento di una volontà che si manifesta attraverso parole o gesti, essendo comune all’uomo e alla bestia, viene escluso dall’ontologia dell’umano. L’intendimento, infatti, non è altro che un particolare tipo di quel senso «che si trova negli uomini e in molte altre creature viventi»45, e che prende il nome di immaginazione. Si opera, in tal modo, una distinzione tra gli elementi che caratterizzano propriamente l’uomo e quelli che quest’ultimo condivide con l’animale. L’ontologia dell’umano, dunque, viene a delinearsi come dimensione della differenza antropologica46.

È il confronto con la bestia la specifica strategia di individuazione di quelle condizioni minime e permanenti, senza le quali verrebbe meno l’essenza stessa dell’uomo. Come affermava lo stesso Hobbes, la lettura del genere umano

44 Cfr. D. D’Andrea, Prometeo e Ulisse. Antropologia elementare e razionalità imperfetta in T.

Hobbes, in Thomas Hobbes e la fondazione della politica moderna, a cura di G. Sorgi, Giuffrè

Editore, Milano 1999, p. 360.

45 Leviatano, p. 15.

46 Tuttavia, la differenza antropologica – intesa come il mosaico delle differenze tra l’uomo e la

(23)

22

non può essere condotta «senza una chiave»47: l’intricata complessità della materia richiede necessariamente una specifica strategia di lettura. Il confronto con l’animale è così una sorta di criterio che consente la determinazione di una delle strutture fondamentali della natura umana. Arnold Gehlen avrebbe indicato il presupposto di questo approccio nella convinzione che l’essere umano «sia descrivibile e interpretabile soltanto con categorie dell’extraumano».48

La relazione con l’alterità, tuttavia, non proietta l’analisi hobbesiana al di fuori del perimetro dell’auto-osservazione: il confronto con l’animale rappresenta, piuttosto, quella bussola che, puntando ad un riferimento esterno, permette di orientarsi nell’interiorità dell’essere umano. L’indagine antropologica, dunque, anche in questo ulteriore sviluppo strategico, continua a svolgersi all’interno dei contorni dell’auto-contemplazione: è vero che il riferimento all’animale rappresenta un’eccedenza rispetto all’interiorità dell’uomo, ma tutti gli elementi che vengono presi in considerazione ed esaminati mediante questo criterio comparativo sono ricavati dall’osservazione di sé.

Nei paragrafi successivi, cercheremo di descrivere e analizzare la dimensione dell’ontologia dell’umano. Nel condurre tale operazione, procederemo seguendo la struttura architettonica di questa dimensione: gli elementi che ne fanno parte, infatti, non sono disposti, l’uno a fianco all’altro, lungo un piano orizzontale, ma si distribuiscono verticalmente secondo una logica di tipo fondativo. Come avremo modo di vedere, l’ontologia dell’umano – lungi dall’essere un semplice perimetro che, privo di una qualche configurazione, racchiude atomi tra loro sconnessi – ha un’anatomia complessa. Il nostro compito, dunque, non potrà essere assolto riportando semplicemente l’elenco degli elementi che costituiscono questa dimensione, ma occorrerà esplicitare ed esaminare le relazioni che intercorrono tra questi.

47 Leviatano, p. 7.

48 A. Gehlen, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt, AULA-Verlag,

Wiebelsheim 2004; trad. it. C. Mainoldi, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Mimesis, Milano 2010, p. 46.

(24)

23

1.3) Piacere della mente, curiosità, linguaggio, futuro

Alcuni dei piaceri o diletti sorgono dal senso di un oggetto

presente; essi si possono chiamare piaceri del senso[…]. Di

questo genere sono tutti gli atti con cui il corpo si carica e si scarica, come pure tutto quel che è piacevole alla vista, all’udito, all’odorato, al gusto o al tatto. Altri sorgono dall’aspettativa che procede dalla previsione del fine o della conseguenza di certe cose, sia che queste siano piacevoli o spiacevoli al senso. Sono questi i piaceri della mente per colui che trae quelle conseguenze e vengono similmente chiamati gioia. [Leviatano, pp. 55-56, corsivo mio]

Nel celebre capitolo VI del Leviatano – luogo della trattazione hobbesiana delle passioni – viene individuata la differenza fondamentale che intercorre tra l’uomo e l’animale, sulla cui base si giustificano e articolano le altre diversità. Tale differenza riguarda la pluralità delle fonti – eccedente rispetto a quell’unica matrice di piacere conosciuta dalle bestie – da cui gli esseri umani possono trarre diletto e, di conseguenza, dispiacere. La potenzialità umana di godere risulta, in questo modo, maggiormente dilatata rispetto a quella propria degli animali: i piaceri disponibili all’uomo sono quantitativamente superiori rispetto a quelli di cui può godere la bestia. L’uomo, dunque, viene innanzitutto caratterizzato – rispetto all’animale – per un surplus della possibilità di disporre di godimenti. Questa eccedenza, tuttavia, non è solo quantitativa, ma anche qualitativa: l’accesso ad un’ulteriore fonte di produzione di piaceri, infatti, non si esaurisce in un semplice accrescimento numerico di diletti che – in linea di principio – potrebbero essere esperiti anche dall’animale, ma comporta l’entrata in scena di piaceri il cui godimento è riservato esclusivamente all’uomo. Il filosofo di Malmesbury sottolinea, infatti, la diversità delle due fonti, da cui sorgono due differenti tipologie di piaceri. L’essere umano valica l’angusta dimensione del piacere sensoriale, per esperire una forma altra di godimento. La ricognizione dei tratti distintivi dell’essere umano poggia, dunque, sul rilevamento di un’eccedenza e di un’esclusività: l’uomo può abbeverarsi da una sorgente che rimane ignota alla bestia.

(25)

24

I piaceri sensuali – comuni all’uomo e alla bestia – sono quelli «che sorgono dal senso di un oggetto presente»49. Quella sensuale è una forma di diletto che, non potendosi emancipare dalla presenza fisica dell’oggetto da cui essa scaturisce, rimane necessariamente vincolata alla dimensione temporale del

presente50. I piaceri della mente, d’altra parte, configurandosi come piaceri

dell’aspettativa, oltrepassano i limiti dell’orizzonte temporale presente: essi non sono legati alla tangibile prossimità di un qualche oggetto, ma derivano dall’attesa che fa seguito ad un atto di mera rappresentazione mentale. Tali piaceri, infatti, «sorgono dall’aspettativa che procede dalla previsione del fine o della conseguenza di certe cose, sia che queste siano piacevoli o spiacevoli al senso»51. Il piacere mentale risulta – in questo modo – completamente sganciato non solo dall’effettiva presenza dell’oggetto, ma anche dall’eventuale piacevolezza sensibile che può accompagnare la sua percezione: l’uomo – a differenza dell’animale – può trarre godimento dalla semplice anticipazione intellettuale delle conseguenze delle cose, indipendentemente che questo tipo di deduzione mentale venga costruita su oggetti che possano essere o meno un diletto per il senso. L’aspettativa che procede da tale previsione costituisce cioè una fonte di piacere che eccede la dimensione sensibile. Quella mentale, dunque, è una forma di concupiscenza che viene definita nella sua funzione di effrazione della sfera dell’immediatezza e della piacevolezza sensibile. Su questa base si giustifica, ad esempio, il desiderio umano di una fama che sopraggiunga dopo la morte:

E sebbene dopo la morte, non si sentano le lodi che ci vengono date sulla terra, dato che sono gioie che vengono sommerse nella ineffabile gioia del cielo, o estinte nei tormenti estremi dell’inferno, pure tale fama non è vana, perché gli uomini hanno al presente un diletto dal prevedere essa e il beneficio che da essa può ridondare sulla loro posterità[…]. [Leviatano, p. 102, corsivo mio]

49 Leviatano, p. 55.

50 Questo – come avremo modo di vedere – non nega all’animale la possibilità di un

trascendimento del presente.

(26)

25

Il godimento mentale, infine, consumandosi all’interno dei confini della semplice aspettativa, è assolutamente autonomo dall’effettiva realizzazione delle conseguenze previste: l’attesa che procede dall’anticipazione di conseguenze piacevoli è di per sé piacevole, indipendentemente dal concreto compimento di ciò che era stato previsto. L’ontologia dell’umano viene pertanto determinata a partire dai piaceri della mente, che rappresentano quella prima e fondamentale differenza su cui si costituisce il resto dello iato che separa l’uomo dalla bestia.

Ciò che abbiamo detto fino ad ora, tuttavia, non nega all’animale il possesso di un discorso mentale che, partendo da un effetto immaginato, possa ricostruire una catena causale. Nel capitolo III del Leviatano, infatti, si legge:

La serie dei pensieri regolati è di due specie. Si ha la prima quando di un effetto immaginato cerchiamo le cause o i mezzi che lo producono e questo è comune all’uomo o alla bestia. Si ha l’altra quando, immaginando una cosa qualsiasi, cerchiamo tutti i possibili effetti che possono da essa essere prodotti, vale a dire, immaginiamo quel che possiamo fare, qualora l’avessimo. Di questa non ho mai visto alcun segno se non nell’uomo, poiché questa è una curiosità che è difficile si riscontri nella natura di qualche creatura vivente che non abbia altre passioni che quelle sensuali come la fame, la sete, la concupiscenza e l’ira. [Leviatano, p. 25]

La ricerca delle cause o dei mezzi che possano produrre un qualche effetto desiderato non è estranea agli animali. Tale operazione mentale, tuttavia, è interamente rivolta ad uno scopo eminentemente pratico, il cui raggiungimento ne determina la fine. La realizzazione dello scopo desiderato sancisce l’interruzione di quel tragitto intellettuale che – comune all’uomo e alla bestia – risale dall’effetto alla causa. Questa prima forma di discorso mentale – lungi dal costituire una fonte di piacere autonomo – è confinata all’interno dello spazio costituito da uno scopo desiderato: essa – infinitamente lontana dal sapere disinteressato – non può protrarsi in un orizzonte indefinito. Le ragioni di tale limitatezza – tutt’altro che contingenti – risiedono nello stesso fondamento emotivo di questa attività mentale. È il soddisfacimento di un desiderio sensuale a

(27)

26

motivare lo sforzo di ricostruzione causale: l’animale ricerca i mezzi che possono produrre un effetto immaginato non per amore della conoscenza, ma per un bisogno sensuale. Perciò, la saturazione del desiderio sensuale determina l’interruzione di quella attività intellettuale da esso motivata. L’animale viene così definito per quella necessitata incapacità di sganciare il suo pensiero dai vincoli di una teleologia determinata dalla piacevolezza sensibile. La ricerca delle cause non può rappresentare un piacere autonomo per chi è mosso unicamente da forme sensuali di diletto: essa, rimanendo ancorata al terreno della concupiscenza del senso, non può configurarsi come attività libera e indipendente dal suo effettivo impiego nel soddisfacimento di un qualche bisogno sensuale. La facoltà – che l’animale condivide con l’uomo – di ricercare le cause di un effetto immaginato, dunque, non può emanciparsi da una catena teleologica.

L’uomo, al contrario, avendo accesso ad un’altra forma di godimento, supera gli angusti limiti di un pensiero subordinato al fabbisogno sensuale: egli è in grado di spezzare quel finalismo entro cui è confinato il pensiero animale. Come scrive Leo Strauss: «not “teleological” but “casual” thinking is peculiar to man»52. Gli uomini, spinti dal loro desiderio di conoscenza, anticipano tutti i possibili effetti che possono essere prodotti da una cosa. Questo tipo di previsione – peculiare all’essere umano – non è motivata dalla possibilità di godere di qualche piacere sensuale, ma costituisce una fonte di piacere autonomo. L’uomo è caratterizzato da ciò che Ferdinand Tönnies – nella sua monografia su Hobbes – indica come desiderio di sapere [Wißbegierde]: l’essere umano desidera conoscere cosa potrebbe fare mediante il possesso di una cosa immaginata53. Questo desiderio – assolutamente svincolato dalla concreta produzione di effetti piacevoli

52 L. Strauss, On the Basis of Hobbes’s Political Philosophy, in What is Political Philosophy? And

Other Studies, The University of Chicago Press, Chicago 1988, p. 176. Sull’argomento vedi anche

D. D’Andrea, Prometeo e Ulisse. Antropologia elementare e razionalità imperfetta in T. Hobbes, in Thomas Hobbes e la fondazione della politica moderna, a cura di G. Sorgi, Giuffrè Editore, Milano 1999, p. 355.

53 «Dieser Zug der Gedanken ist von zweifacher Art, 1)wild und ungeordnet, im Wandern der

Gedanken, 2) durch einen Wunsch und Zweck reguliert; dieser Zug wiederum zwiefch a) von Wirkung zu Ursachen oder Mitteln, b) umgekehrt: dies zeichnet die Menschen aus, aus Wißbegierde zu denken, was man mit einer Sache machen könne» (F. Tönnies, Thomas Hobbes.

Leben und Lehre, Friedrich Frommann Verlag, Stuttgart 1971, pp. 188-189 (Ristampa della terza

edizione del 1925; prima edizione 1896)). Vedi anche B. Willms, Die Antwort des Leviathan, Luchterhand, Neuwied/Berlin 1970, p. 106.

(28)

27

al senso54 e, perciò, ignoto alle creature animate unicamente da passioni sensuali – è ciò che il filosofo di Malmesbury chiamerà curiosità, fondamento motivazionale di quella serie di pensieri regolati che procede dalla causa all’effetto. La curiosità, dunque, è quella passione che permette agli uomini di organizzare i loro pensieri all’interno di una serie non teleologica.

Nel capitolo VI del Leviatano, dopo aver distinto i piaceri del senso da quelli della mente, il filosofo scriverà:

Il desiderio di conoscere il perché e il come, CURIOSITA’; esso non si trova in alcuna creatura vivente se non nell’uomo; cosicché l’uomo si distingue dagli altri animali non solo per la sua ragione, ma anche per questa passione singolare; in essi la predominanza dell’appetito del cibo e degli altri piaceri del senso, rimuovono la preoccupazione del conoscere le cause, la quale è una concupiscenza della mente che, per un perseverare del diletto nella continua e infaticabile generazione della conoscenza eccede la breve veemenza di qualunque piacere carnale. [Leviatano, pp. 57-58, corsivo mio]

La curiosità è quella particolare passione che distingue gli uomini dagli animali55. È vero che la bestia – come abbiamo visto precedentemente – ricerca le cause di un effetto immaginato, ma lo fa unicamente in vista di un piacere sensuale. La rappresentazione delle cause operata dall’animale è contraddistinta – lo ripetiamo nuovamente – da due aspetti: in primo luogo, essa è fortemente limitata e non apre ad una temporalità indefinita; in secondo luogo, non costituisce un’autonoma fonte di piacere. D’altronde l’animale, essendo mosso solamente da piaceri del senso, non può accedere ad un desiderio che vada oltre la preoccupazione del soddisfacimento di un qualche appetito sensuale. Per questo motivo la curiosità – come desiderio e preoccupazione di conoscere le cause – è una passione propriamente umana. L’uomo desidera ricostruire le cause delle cose indipendentemente dalla brama di godimenti sensuali: il desiderio della

54 Per una diversa lettura della curiosità, vedi F. Izzo, Forme della modernità – antropologia,

politica e teologia in Thomas Hobbes, Laterza, Bari 2005, pp. 83 e sgg.

55 Sull’importanza della curiosità all’interno dell’antropologia hobbesiana vedi K. Tabb, The Fate

of Nebuchadnezzar. Curiosity and Human Nature in Hobbes, in «Hobbes Studies» 27(1), (2014),

(29)

28

conoscenza è libero da qualsiasi finalità sensualmente orientata. Il superamento di una teleologia dettata dagli appetiti carnali, perciò, è reso possibile dall’esistenza di piaceri sostanzialmente diversi rispetto a quelli sensuali. Il terreno su cui poggia questa specifica passione umana non è, infatti, quello dei piaceri sensuali, ma quello della concupiscenza mentale. Se l’uomo non potesse accedere ad una forma di godimento diversa rispetto a quello sensuale, sarebbe dispensato dalla preoccupazione di conoscere le cause delle cose: egli – confinato nel microcosmo dell’immediatezza sensibile – non sarebbe diverso dalla bestia. I piaceri della mente costituiscono, dunque, il fondamento motivazionale di quel desiderio di conoscenza specificamente umano. Lo sforzo «di conoscere il perché e il come»56 trova così la sua giustificazione nel piacere della semplice aspettativa.

Nel capitolo VIII degli Elements, Hobbes adduce un esempio che, oltre a restituire mirabilmente la diversità tra piaceri mentali e sensuali, può farci comprendere meglio quanto è stato appena detto sul nesso tra curiosità e piacere della mente:

Vi è pure un altro piacere relativo all’udito, ma riguarda solo coloro che hanno maestria nella musica, ed è di natura diversa, non (come quelli) un concetto del presente, ma compiacimento

per la propria maestria; di questa natura sono le passioni di cui

parlerò fra poco. [Elementi, p. 58, corsivo mio]

Il filosofo di Malmesbury, dopo aver parlato dei piaceri sensuali che derivano dall’ascolto di suoni armoniosi, afferma l’esistenza di una concupiscenza mentale che può essere relazionata all’udito: questa, tuttavia, non riguarda l’effetto prodotto da suoni piacevoli sul senso, ma il compiacimento per le proprie abilità musicali. Il godimento sensuale che proviene dall’ascolto di una melodia armoniosa non costituisce un piacere della mente, che – laddove dovesse essere messo in relazione alla musica o, più in generale, alla produzione di suoni – riguarderebbe piuttosto la soddisfazione per la propria abilità nel produrre musica, ovvero – detto in termini più generici – il compiacimento per il proprio potere. La semplice contemplazione della propria maestria e la rappresentazione anticipata dei suoi possibili effetti producono piaceri mentali. Se l’abilità musicale è un tipo

Riferimenti

Documenti correlati

Uno stato è istituito, quando una moltitudine di uomini si accordano e convengono, ognuno con ognuno, che, a qualunque uomo o assemblea di uomini sarà dato dalla maggior parte il

L’unica cosa certa, ad oggi, è che la chiusura di una parte dell’Ilva, in ogni caso, mette a rischio il sistema produttivo dell’impianto siderurgico jonico, rendendo

sembra che l’attribuzione della prima, a differenza di quella della seconda, possa prescindere dall’effettiva attuazione. Immaginiamo di incontrare un uomo che non sia

Leibniz insiste sulla completezza per le argomentazioni (fallaci) La logica moderna insister` a (soprattutto) sulla completezza per le conclusioni (corrette e/o vere). I Sistemi

A differenza della nozione di dimostrazione, nella definizione di sistema formale nulla impone che i teoremi siano decidibili La nozione di sistema formale ci dice per` o che, se

Se tutti i sottoinsiemi finiti di un insieme di formule hanno un modello, allora anche l’intero insieme ha un modello. 165

Io rimango dell’opinione che per capire le istituzioni delle nostre società affluenti sia più importante House of Cards che Una teoria della giustizia (il capolavoro di Rawls), ma

In maniera analoga, gestire una scuola significa prendere delle decisioni che consentano di definire e governare un workflow delle attività (amministrative,