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1. Le origini dello Stato sociale

Se consideriamo le Poor Laws dell’Inghilterra della seconda metà del XVIII secolo come una forma di regolazione del mercato del lavoro, più che em- brionali istituzioni della protezione sociale all’avvio della Rivoluzione In- dustriale, si può far risalire la nascita dello Stato sociale agli anni Ottanta dell’800, quando il cancelliere Bismarck varò in Germania le prime leggi sulle assicurazioni sociali. L’incremento della spesa sociale indotta dall’espansio- ne delle istituzioni di Welfare è stato lento a partire dalla crisi dell’economia mondiale degli anni Trenta fino alla fine della seconda guerra mondiale. Fra le due guerre mondiali l’espansione della spesa pubblica ha riguarda- to essenzialmente i beni pubblici basilari (esercito, polizia, magistratura, infrastrutture civili) ed i programmi di sostegno della domanda successive alla Grande Depressione. Il decollo dello Stato sociale coincide con i forti tassi di crescita del PIL conosciuti dalle economie avanzate dagli anni della ricostruzione post-bellica fino alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso. Il rapporto spesa pubblica / PIL che nel 1870 era in media dell’8% nelle 14 maggiori economie industrializzate, ha conosciuto una progressiva cresci- ta, fino a raggiungere nel 1960 il valore del 30%. Oggi la spesa pubblica rappresenta in Europa circa il 48% del PIL (con un picco intorno al 55% in Svezia) contro il 35% circa negli Stati Uniti. Nella rapida accelerazione della spesa pubblica dell’ultimo quarto del secolo la componente nettamente più dinamica è la spesa sociale, dove il divario fra mondo anglosassone ed Eu- ropa continentale è evidente: i dati OECD mostrano come il rapporto spesa sociale / PIL sia l’8% in Australia, l’11% negli Stati Uniti ed il 16% nel Regno Unito, a fronte di un valore medio del 21% nell’Unione Europea. Tenendo conto del fatto che nella spesa complessiva per la protezione dai rischi la quota del settore privato è molto più ampia negli Stati Uniti che non nell’U- nione Europea, nell’offerta delle assicurazioni sociali il ruolo preponderante dello Stato sociale è in Europa ancora più marcato di quanto mostrino le ci- fre sul divario fra le due aree economiche di spesa per la protezione sociale. Quali nessi di causalità si siano instaurati all’interno della forte correlazio- ne presente nell’Europa post-1945 fra l’espansione dello Stato sociale e l’espansione del reddito è una questione di grande rilevanza. Approfondi- re tale questione è compito tanto essenziale per il disegno del Welfare del futuro quanto impervio. Ci limitiamo qui ad osservare che entrambe i nessi

di causalità – dalla crescita all’ampliamento dello Stato sociale, e viceversa – sembrano essere stati in gioco, sebbene in misura diversa nei diversi Paesi e nei diversi periodi dal dopoguerra ad oggi. Tenendo conto della circostan- za che negli anni Cinquanta e Sessanta la crescita del reddito ha conosciuto tassi di incremento pari persino al 5% in termini reali, è comprensibile come deboli siano stati sia la resistenza alla sottrazione di risorse al finanziamen- to degli investimenti e dei consumi privati realizzata dal sistema pubblico di tasse e trasferimenti, sia il timore che un’eccessiva generosità delle presta- zioni di Welfare riducesse gli incentivi al lavoro ed al rischio di impresa su cui si fonda l’economia di mercato. L’ipotesi più convincente è che il nesso di causalità dominante sia quello che va dalla crescita economica all’espan- sione dello Stato sociale. La capacità dello Stato sociale di promuovere la diffusione del benessere economico in più ampi strati della popolazione viene indubbiamente rafforzata dalla presenza di un’economia di mercato dotata di un buona dinamica espansiva. Un ritmo sostenuto di incremento annuo delle risorse – nella misura in cui è in grado di finanziare le istituzioni che garantiscono che la popolazione sia istruita ed in buona salute al riparo da forti conflitti distributivi – favorisce a sua volta l’accrescimento del capi- tale umano e del capitale sociale del Paese. I principali fattori da cui dipende l’incremento della produttività del lavoro sono infatti l’organizzazione di un sistema educativo pubblico con elevato limite per l’età di istruzione obbli- gatoria ed il sostegno alla ricerca. Una forza lavoro qualificata ed in buona salute è ad esempio un fattore importante affinché la stipula e lo svolgimen- to dei contratti – nell’attività produttiva in generale, come nelle relazioni fra lavoratori ed imprenditori – possa giovarsi di un elevato grado di fiducia nell’affidabilità della controparte contrattuale. Sarebbe perciò un errore sottovalutare il nesso di causalità opposto, quello che va dallo Stato sociale all’espansione economica (Agell et al., 2006). La teoria del benessere infatti insegna come proprio allorché maggiore è l’assicurazione che lo Stato forni- sce ai cittadini – a difesa dai rischi microeconomici (salute, invecchiamento) e macroeconomici (povertà, disoccupazione) – tanto più rapido ed equilibra- to è il processo di crescita.

2. Cenni sui fondamenti teorici dello Stato sociale

È opportuno innanzitutto ricordare che la scelta di realizzare un sistema di Welfare è in una certa misura il segnale di un solido consenso dei gruppi sociali a determinare un certo grado di redistribuzione del reddito. Infat- ti, i comparti in cui è organizzata la protezione sociale sono contraddistinti dalla capacità di determinare una redistribuzione “pura” (si pensi alla safety net per i poveri ed ai sussidi di disoccupazione, dove i beneficiari ricevono trasferimenti monetari alla cui formazione non hanno in alcun modo contri- buito) oppure consistono in assicurazioni sociali che determinano anche una

redistribuzione implicita (si pensi al sistema sanitario nazionale, dove di nor- ma gli individui ricchi, essendo esposti ad un rischio solitamente più basso di malattia e disoccupazione, di fatto finanziano gli individui poveri, che tendo- no ad essere esposti ad un più alto rischio). Una forma particolare di “re- distribuzione” è poi caratteristica anche delle pensioni del settore pubblico (il sistema cosiddetto PAYGO). Essendo fondato sulla solidarietà fra giovani lavoratori e anziani-pensionati, in luogo della redistribuzione fra i due self di uno stesso soggetto considerata nella teoria del ciclo vitale (prima lavora- tore che accumula risparmio, poi pensionato che con esso finanzia il proprio consumo in vecchiaia), il PAYGO determina una redistribuzione intergenera- zionale.

Tre importanti caratteri distintivi dello Stato sociale sono: l’obbligatorietà (la contribuzione obbligatoria per legge alla spesa sociale attraverso tassa- zione e contributi sociali), l’universalismo “selettivo” (e cioè il diritto di tutti al beneficio in quanto cittadini, ma sempre più subordinato alla cosiddetta “verifica dei mezzi”, sicché l’assegnazione del diritto è subordinata ad una precisa documentazione dell’effettivo bisogno) e la standardizzazione dei servizi (raramente è possibile ricevere prestazioni personalizzate). In effetti, obbligatorietà e universalismo non sono esclusivi dell’offerta pubblica ma possono essere applicati per legge anche alla stipula di assicurazioni private (l’esempio tipico è l’assicurazione automobilistica: esiste un diritto/dovere per tutti gli automobilisti ad essere dotati di una polizza). Ciò che maggior- mente rileva nel differenziare dall’offerta privata le funzioni di assicurazione e di distribuzione operate dallo Stato sociale è l’assenza di “libertà di scelta” che connota quest’ultima. Per quanto riguarda ad esempio la funzione assi- curativa, è di solito molto limitata la possibilità di modificare il “pacchetto” di servizi sanitari erogati dalla sanità pubblica; così pure, nella maggior parte dei Paesi europei nell’istruzione non è previsto il ricorso a voucher per per- mettere libera scelta fra scuole e università pubbliche o private. Per quanto riguarda la funzione di “pura redistribuzione”, l’organizzazione della solida- rietà sociale fa prevalentemente capo al settore pubblico nell’Unione Euro- pea; mentre è soprattutto prerogativa delle fondazioni caritatevoli negli Stati Uniti, con alcuni servizi (ad esempio, posti-letti negli shelthers) offerti dalle fondazioni caritatevoli (charities) e la fornitura pubblica di buoni-pasto (food stamps), dove lo “stigma” della visibilità dell’indigenza riflette il fallimento individuale come colpa che informa la cultura nazionale.

Una delle ragioni per cui la protezione sociale ha prevalentemente assunto la forma organizzativa del welfare State – invece della fornitura mediante il contratto privato – è riconducibile all’asimmetria informativa, un fallimento del mercato che affligge le assicurazioni private che coprono i rischi indi- viduali. Nelle assicurazioni contro il rischio di future malattie, l’assicurato

ha almeno in parte la possibilità di tacere su eventuali patologie già in atto e quindi celare le proprie condizioni di salute. L’assicuratore pertanto non riesce a calcolare con esattezza la probabilità di perdita che si associa ai contratti che stipula. Per quanto le compagnie di assicurazione cerchino di classificare gli individui per valutarne il grado di rischiosità, in presenza di dichiarazioni omissive quando non proprio mendaci, difficilmente la polizza che verrà offerta rifletterà un rischio, e quindi un premio, “corretto”. D’altro canto, l’assicuratore, per non incorrere in perdite dovute alla errata valuta- zione del rischio, tenderà ad offrire contratti infarciti di clausole che li renda- no inesigibili, qualora l’evento avverso si verifichi.

La presenza sia di selezione avversa che di azzardo morale, entrambi dovuti all’asimmetria informativa a carico di ciascuna delle due parti, porteranno ad un risultato inefficiente. Per l’assicurato “medio” il costo della polizza, cali- brato sull’individuo più rischioso, sarà troppo elevato e dunque non stipulerà il contratto, mentre soltanto l’individuo più “rischioso” si recherà dall’assicu- ratore che, a sua volta, ben si guarderà dall’offrirgli un contratto. Le assicu- razioni private infatti tenderanno a voler offrire contratti agli individui meno rischiosi e ad evitare di offrirne agli individui più rischiosi. Paradossalmente, dal lato dell’offerta è impossibile offrire un’assicurazione universale a prezzi “corretti”, mentre dal lato della domanda è proprio chi vorrebbe assicurarsi che viene escluso. Il mercato privato di tali assicurazioni non riesce a far incontrare la domanda con l’offerta nel quadrante in cui sia i prezzi che le quantità hanno valori positivi: si tratta di un “mercato mancante”.

In una società popolata da individui eterogenei, l’asimmetria informativa dovuta all’informazione privata, alle difficoltà ed al costo del monitorag- gio, impediscono al mercato privato di offrire polizze assicurative che siano calibrate sull’individuo “medio”, e perciò accessibili indistintamente a tutti i soggetti, e che rispettino allo stesso tempo l’equità attuariale (ovvero l’equi- valenza probabilistica fra costi, in altre parole il cui prezzo eguagli la proba- bilità del verificarsi dell’evento negativo). La selezione avversa, causata dai comportamenti volontariamente messi in atto una volta stipulata l’assicu- razione, colpisce ad esempio il rischio di disoccupazione in modo anche più rilevante di quello illustrato per la sanità. L’assenza di un mercato in cui le compagnie private assicurino il rischio di trovarsi disoccupato riflette infatti il cosiddetto “azzardo morale” del lavoratore che, dopo aver stipulato l’assi- curazione, mette in atto comportamenti che portano al suo licenziamento e che quindi matura il diritto alla corresponsione del sussidio.

La legittimità dello Stato nell’usare il proprio potere coercitivo per dare ca- rattere di obbligatorietà alle assicurazioni di Welfare afflitte da gravi proble- mi di asimmetria informativa (in primo luogo, come si è detto, prestazioni sanitarie e sussidi di disoccupazione) proviene quindi dalla sua capacità di

garantire – a differenza delle compagnie private, che non riescono ad offrire contratti che rispettino l’equità orizzontale e siano al contempo profittevoli – l’universalità della protezione sociale.

Lo schema concettuale appena delineato getta luce sui caratteri distintivi delle moderne istituzioni del Welfare. Il Welfare pubblico, ovvero i sistemi di tasse e contributi sociali pagati da imprese e lavoratori allo Stato da un lato, e benefici (trasferimenti e servizi in kind) dall’altro, non rispettano il princi- pio della equità attuariale. Il pareggio fra costi attesi e contribuzioni – che costituisce il pendant dell’eguaglianza fra prezzo e costo di produzione come condizione di efficienza nel settore privato su cui si fondano le compagnie di assicurazione – viene infatti di norma violato dalle istituzioni dello Stato sociale. Ciò implica, come si è già detto, che in importanti istituti di assicu- razioni sociali (ad esempio, il sistema sanitario nazionale) sorga implicita- mente una componente redistributiva che va a sommarsi con la componente assicurativa diversamente da quanto accade nel caso in cui l’assicurazione contro il rischio viene fornita da compagnie private. La commistione di assi- curazione e redistribuzione non deve però essere considerata un allontana- mento dall’efficiente funzionamento di un’economia di mercato. In un mon- do di second best, dove cioè il benessere sociale massimo non può essere raggiunto a causa della distorsione delle scelte di consumo connessa alla tassazione ed all’inefficienza del settore pubblico, considerando tutti i contri- buti ed i trasferimenti, la redistribuzione realizzata dallo Stato sociale produ- ce un risultato complessivo in termine di benessere che è sotto vari aspetti migliore di quello realizzabile in sua assenza (Cremer e Pestieau, 1996). Negli ultimi decenni, l’acquisizione nei Paesi avanzati dell’Europa occidentale di un più elevato livello di benessere economico ha portato anche ad una maggiore consapevolezza sulle opportunità di realizzazione della persona. È stato in effetti proprio il consolidarsi dei sistemi di Welfare in Europa a diffondere la consapevolezza nei cittadini che il benessere non si identifi- ca con il reddito (Sen, Fitoussi, Stiglitz, 2013). Uno sguardo più ampio sul proprio orizzonte di vita ha consentito di prendere coscienza di un aspetto fondamentale. Primo, la dimensione “multipla” della persona (Multiple Self è il titolo di un noto volume curato da Jon Elster), in quanto composta da un insieme di sé relativamente separati fra di loro.

Con l’espressione multidimensional well-being si intende lo studio e la valu- tazione delle condizioni di vita dell’individuo che conseguono ad una molte- plicità di dimensioni: reddito (in tutte le fasi dell’esistenza: infanzia, periodo di lavoro, periodo pensionistico), salute, istruzione. Come ha sottolineato Amartya Sen nella sua teoria delle capacità (capabilities) (Sen, 1985), la molteplicità delle dimensioni della persona umana fa sì che la costruzione e la realizzazione dell’individuo in base alle proprie capacità ed aspirazioni

non si riduca al conseguimento di un determinato livello di soddisfacimento delle preferenze attraverso il consumo finanziato dal reddito conseguito nel mercato, ma si allarghi al soddisfacimento delle scelte di libertà e di vita nei vari “ambiti di vita” cui l’individuo sceglie di partecipare. Ciò implica anche il possesso della capacità di funzionamento (ad esempio, l’acquisto di un computer non necessariamente garantisce un incremento del well-being, in quanto il percettore di reddito che lo acquista potrebbe non avere l’alfabe- tizzazione necessaria a farlo divenire uno strumento di arricchimento della propria espressione e partecipazione alla società). Di conseguenza, una condizione di diseguaglianza, dove alcuni individui si trovano in una condi- zione di svantaggio rispetto ad altri (non attribuibile ad uno scarso impegno sul lavoro, oppure nella ricerca di un posto di lavoro), non va valutata solo in relazione al reddito, ma prendendo in considerazione tutte le dimensioni economico-sociali rilevanti per il benessere (well-being) di ciascun individuo. Il passaggio dall’identificazione del benessere non più solo con il livello del reddito ma relativamente all’intero arco degli ambiti di vita ha portato in primo piano l’importanza non solo del livello di benessere proprio a ciascuna singola dimensione, ma anche delle interrelazioni di benessere che si stabili- scono fra le diverse dimensioni del soggetto nelle varie fasi della sua vita. Nel rapporto fra individuo e società, una distinzione fondamentale riguar- do al concetto dei “diritti” che il soggetto vanta nei confronti della società consiste nella dicotomia responsabile/non responsabile di una condizione di “svantaggio economico-sociale”. Il riconoscimento delle condizioni di “svan- taggio” – sia nelle “condizioni di partenza” del percorso di vita (definita “diseguaglianza delle opportunità”), sia nel livello di benessere conseguito in età adulta (definita “diseguaglianza di stato finale”) – ha condotto nello sviluppo storico ad una diffusa consapevolezza sociale del diritto a vedere eliminate le cause di “svantaggio” non imputabili alla responsabilità per- sonale. L’individuo, nel partecipare alla vita sociale della propria comunità, può trovarsi in una condizione di svantaggio sotto più profili: abilità naturali; livello di istruzione; capacità lavorativa; contesto sociale. Ne deriva l’esigen- za di garantire a tutti un eguale “punto di partenza” nella vita, eguali oppor- tunità.

Il concetto di eguaglianza delle opportunità si distingue da quello di tenden- ziale eguaglianza nella distribuzione del reddito (equità verticale) in quanto non fa riferimento allo “stato finale” della distribuzione del reddito nella società ma alle condizioni iniziali dei soggetti che partecipano alla “corsa” per il benessere (Roemer, 1998). Gli individui si differenziano infatti per la forte dispersione fra gli insiemi di opportunità di cui dispongono. Il principale obiettivo dello Stato sociale è appunto quello di porre tutti i cittadini nella condizione di godere di eguali “punti di partenza” nella vita.

I principali fattori che determinano la “diseguaglianza dei punti di partenza” sono: il talento, la salute, l’istruzione e l’impegno lavorativo. Dalla natura dipende il primo fattore ed in parte anche il secondo. Il terzo dipende dalla misura in cui l’individuo è sufficientemente lungimirante da effettuare una domanda di istruzione tale da contrastare la tendenza alla miopia individuale e supplire anche alla miopia della collettività nel suo complesso. Su salute e istruzione incidono poi sia il patrimonio finanziario e culturale della famiglia d’origine sia le condizioni economiche dell’area in cui si riceve la formazio- ne in capitale umano. Lo “spazio di responsabilità” dell’individuo è dunque circoscritto all’impegno nel lavoro che – assieme alla dotazione di capitale – presiede alla produttività del lavoratore. Se inoltre si considera che il capita- le umano è l’unica opportunità che l’individuo privo di uno stock di ricchezza accumulato dalla generazioni precedenti ha per contrastare eventuali con- dizioni di “svantaggio” determinate dai fattori naturali e dalla casuale con- dizione di origine – la famiglia e l’area in cui nasce – la posizione reddituale acquista una rilevanza decisiva in relazione alle chances di vita.

Soltanto una volta che sia soddisfatta la fondamentale condizione dell’e- guaglianza di opportunità la distribuzione finale del reddito non potrà che rispecchiare il merito, ovvero il livello di vita a cui ciascun soggetto legitti- mamente si attende in base alle proprie abilità naturali, all’investimento in istruzione, all’impegno profuso nel lavoro.

Il concetto di equità orizzontale, ovvero l’assenza di discriminazione fra soggetti con eguali caratteristiche, è collegato a quello di eguaglianza delle opportunità. Esso non studia la dispersione delle opportunità fra gli individui ma compara la condizione di benessere di un soggetto in un determina- to contesto rispetto alla condizione di benessere di altri soggetti. Individui eguali per reddito ma situati in contesti economico-sociali diversi (o perché membri di gruppi sociali diversi, o perché residenti in Stati appartenenti ad una Federazione) potrebbero godere di livelli di benessere inferiori non per loro scelta di vita ma a causa dei suddetti fallimenti. La presenza di condi- zioni di svantaggio non riconducibili alla responsabilità (ad esempio, all’im- pegno lavorativo) del soggetto è un indizio di trattamento diseguale, e nei casi peggiori di discriminazione in base ad una o più fra diverse caratteristi- che personali (genere, etnia, religione, etc.).

Viviamo, tuttavia, in un mondo imperfetto – gli economisti lo definiscono di second o di third best. Per quanto si tratti di principi la cui attuazione si configura come un impegno improbo per qualsiasi società, eguaglianza delle opportunità ed equità orizzontale – non rappresentano comunque criteri sufficienti per una piena valutazione del benessere sociale. Facciamo l’ipo- tesi “ideale” che lo Stato sociale riesca a realizzare – per ciascun soggetto, nel momento in cui comincia ad essere responsabile della formazione del

proprio reddito – una stato di eguaglianza delle opportunità con tutti gli altri soggetti. Questa ipotesi non è evidentemente in grado di sostenere an- che un superficiale confronto con la realtà. I fallimenti della razionalità, del mercato e delle istituzioni possono in ogni momento compromettere questo